venerdì 19 agosto 2016

Nigeria. Nuovo video di Boko Haram, ci sono le ragazze rapite a Chibok più di due anni fa

Nel video di Boko Haram c’è Dorcas, e mamma Esther rivede viva sua figlia. Due interminabili anni senza avere notizie, aggrappandosi solo ai sogni e alla speranza. Ma nell'ultimo filmato diffuso dai jihadisti nigeriani una donna ha riconosciuto la propria figlia.

Per due anni mamma Esther è sempre stata convinta che sua figlia Dorcas fosse viva, pur non avendone alcuna prova. In questi giorni l’ha riconosciuta dalla voce. La sedicenne Dorcas appare nell'ultimo video dei jihadisti nigeriani del gruppo Boko Haram. È la ragazza che parla a nome delle decine di compagne velate tenute in ostaggio come lei. Nel filmato diretto alle loro famiglie, Dorcas dice di chiamarsi Maida, perché i combattenti le hanno cambiato il nome, come sempre fanno con le prigioniere costrette a convertirsi all'Islam e poi violentate e messe incinte.

Sono passati più di due anni dal rapimento di Dorcas e di altre 276 ragazze nella sua scuola di Chibok, nel nord della Nigeria, il 15 aprile 2014, il gruppo Boko Haram, oggi affiliato con l'Isis, le caricò sui furgoni nel mezzo della notte e le portò nella foresta di Sambisa. Alcune decine riuscirono a scappare saltando dai veicoli o correndo nella foresta.

Dorcas e l’amicizia fraterna per Saraya. Il destino delle 219 studentesse rimaste in mano a Boko Haram invece è rimasto avvolto per due anni nel silenzio. Lo scorso fine marzo la prima (e l’unica delle 219) a scappare è stata Amina, con una bimba in fasce, sua figlia. Ora questo video sembra suggerire nuovamente che i miliziani siano disposti ad uno scambio tra le ragazze e i loro uomini prigionieri nelle carceri di Abuja.

"Non siamo felici qui. Supplico i nostri genitori di incontrare il governo per liberare i loro prigionieri in modo che noi possiamo essere rilasciate" fanno dire a Dorcas. A casa di Dorcas nulla è più lo stesso. Dopo nuovi attacchi di Boko Haram, la famiglia è scappata da Chibok ad Abuja. Suo fratello Messi di quattro anni credeva che fossero stati i soldati del governo a portarla via. Ma sua sorella Happy, che ha 13 anni, gli ha spiegato che non sono stati i soldati.

Dorcas è scomparsa con la sua migliore amica Saraya. Entrambe videro altre compagne saltare giù dai pick-up per scappare, in quella notte del 15 aprile 2014. Dorcas le seguiva con lo sguardo. Ma Saraya era paralizzata dalla paura, non ci sarebbe mai riuscita. Era la sua amica, la sua ombra. Mangiavano dallo stesso piatto, cantavano le stesse canzoni. Come poteva abbandonarla?

Esther, madre coraggio che non si arrende. Esther, intervistata da un giornalista del Corriere della Sera nella sua casa ad Abuja, in Nigeria, ha combattuto per sua figlia, ha chiesto aiuto al governo, poi ha protestato, è andata anche in TV, si è sentita dire di tutto, persino che sua figlia non è stata rapita davvero, che è tutta una montatura politica. Ha smesso di mangiare, il marito riusciva a stare in casa per mezz'ora al massimo, poi usciva perché non sopportava di vederla soffrire così.

Esther è una donna che ha studiato, ha fatto l’università a Maiduguri a differenza di molte sue coetanee di Chibok. Ma non era nulla di razionale, erano i sogni a dirle che Dorcas era viva. La vedeva nascosta nella foresta, gli elicotteri arrivano all'improvviso, la sollevavano con le compagne da quell'oscurità senza fine. "Mamma dove sei? Perché non sei qui?", le diceva. Alla fine nel sogno si riabbracciavano felici.

Ma questo epilogo nella realtà resta ancora incerto. Esther Yakubu e il marito sono apparsi in uno dei comizi della campagna "Bring Back Our Girls", riportateci le nostre ragazza, che continuano dall'aprile 2014 davanti alla Fontana dell'Unità di Abuja. La famiglia chiede al governo nigeriano di intervenire. Sono felici di aver rivisto la figlia dopo due anni, per la prima volta. Ma sono stanchi.

"Il governo nigeriano non sta facendo niente. Le ragazze che si sono salvate finora lo hanno fatto da sole"
(Corriere della Sera)



Altri articoli sulle studentesse rapite a nell'aprile 2014 a Chibok in questo Blog


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La storia di Dorcas Yakubu raccontata nel libro sulle ragazze rapite in Nigeria
Viviana Mazza, Adaobi Tricia Nwaubani
(Mondadori, aprile 2016)

Un estratto del libro
Per scongiurare gli incubi, a Happy bastava addormentarsi accanto a Dorcas. A casa dividevano il letto e la sorella più piccola ascoltava le storie sulla scuola che le raccontava la più grande come se fossero fiabe esotiche. Happy aveva già undici anni ma si faceva cullare, come da bambina, sulle note della loro canzone gospel preferita: Siamo la generazione eletta Chiamata a mostrare la sua eccellenza. Tutto ciò di cui ho bisogno nella vita, Dio me l’ha dato e so chi sono. So chi Dio dice che sono, quello che dice che sono, a che punto dice che sono. Io so chi sono.

Erano passate tre settimane dall'ultima volta che Dorcas aveva cantato per la sorella. Erano la generazione eletta, ragazze più fortunate delle loro madri. E sarebbero diventate qualcuno nella vita. Ma prima bisognava studiare. Notte dopo notte Dorcas si addormentava e si risvegliava nel dormitorio della scuola di Chibok.

Giorno dopo giorno si preparava per gli esami dell’ultimo anno. Il vicepreside aveva proibito alle ragazze di lasciare il dormitorio, anche se c’era un intervallo di cinque giorni tra una prova e l’altra. Mentre alcune compagne avevano saltato il muretto che circondava il campus ed erano corse a casa rischiando la punizione, Dorcas aveva obbedito ed era rimasta a scuola anche nell'ultimo fine settimana prima di quel lunedì d’aprile. Era il mese più caldo dell’anno, il mese dei manghi maturi. Il profumo dolce dei frutti riempiva l’aria estiva. Nonostante i quaranta gradi, Dorcas indossava un vestito azzurro a maniche lunghe che le arrivava fino ai piedi, con una fantasia a piccole o.

L’unico rifugio dalla calura erano i pochi alberi a fronde e il foulard abbinato, come l'albero di mango sotto cui le ragazze si riunivano durante gli intervalli tra le lezioni. Quella domenica di aprile i suoi genitori non erano andati a trovarla a scuola, ma lei consegnò a una venditrice ambulante di moi moi (torta nigeriana) e di dolci che viveva vicino a casa loro una foto che si era fatta scattare nel cortile assolato.

Con quell'immagine avrebbero illustrato un calendario da regalare ad amici e parenti in attesa di festeggiare la fine degli esami della loro primogenita. Dorcas aveva guardato dritto nell'obiettivo. Il sorriso appena accennato sulle labbra piene, le dita affusolate che riposavano sulle ginocchia, la determinazione negli occhi a mandorla, tutto in lei sembrava dire: “Avrò solo quindici anni, ma io so chi sono”.

Dorcas era bella come sua madre Esther. Lo stesso sguardo, la stessa bocca, un carattere deciso e idee chiare. Riceveva lettere d’amore che trascriveva ordinatamente nel quaderno con la Torre Eiffel in copertina. Dorcas, telecomando della mia vita, quando sono lontano da te, sono comunque con te. Quando ho gli occhi chiusi riesco ancora a vederti. Quando sono sveglio, ti sogno ancora. Quando sento di avere tutto, ho ancora bisogno di te. E non importa cosa succederà, ti amerò sempre.

Raccontava i suoi segreti solo a due persone. La prima era nonna Hauwa, che non li avrebbe rivelati alla mamma nemmeno sotto tortura. Era stata la nonna ad accompagnare Dorcas al suo primo giorno di scuola, perché la mamma frequentava l’università a Maiduguri. Era stata la nonna a portarla sempre con sé avvolta al proprio corpo con un telo. Tanto che, quand'era tornata a Chibok per lavorare come impiegata comunale, vedendo che la piccola continuava ad arrampicarsi sulla schiena della nonna, Esther aveva pianto temendo che sua figlia non la riconoscesse mai più.
E pensare che era rimasta nella sua pancia per dieci mesi, quasi avesse deciso di restare a vivere lì dentro.

La seconda confidente di Dorcas era Saraya Stover, la sua migliore amica, la sua ombra. Avevano la stessa età, cantavano le stesse canzoni, mangiavano dallo stesso piatto. L’una era magra, l’altra grassottella. L’una voleva fare l’insegnante e l’altra il medico. Quando l’una non aveva i soldi per comprarsi qualcosa – per esempio un paio di scarpe – l’altra glieli prestava.

Quando era l’ora di fare il bagno a Happy, l’una versava l’acqua fredda sulle piccole trecce della ragazzina mentre l’altra le sfregava la schiena con la spugna. Happy le fissava stregata: avrebbe dato qualunque cosa pur di fare gli esami insieme a loro. Ma quel lunedì d’aprile erano ammessi solo gli studenti dell’ultimo anno. Dorcas si era trasferita da pochi mesi alla scuola di Chibok. Prima andava a Maiduguri, ma era successo qualcosa che l’aveva turbata profondamente: due ragazzi erano stati rapiti da Boko Haram lungo quella strada, inghiottiti dal sottobosco di Sambisa per diventare miliziani.

Dorcas non li conosceva, ma la stessa cosa poteva succedere a chiunque. Lungo quel tragitto, i ragazzini spaventati andavano in bici con arco e frecce sotto il braccio per difendersi, ma erano giocattoli contro gli AK-47 di Boko Haram. Poi la strada per Maiduguri, disseminata di carcasse d’auto, era stata chiusa. Ci volevano due giorni per arrivare in città passando dai villaggi vicini. I vigilantes fermavano ogni vettura sguainando i machete e chiedevano di azionare i tergicristalli: non funzionavano se c’erano armi nascoste nel cofano. Ma a Chibok era diverso, sarebbe stata al sicuro: l’incubo era lontano, ormai.

"È l’ultimo esame, prega perché vada tutto bene" aveva detto Dorcas alla mamma, salutandola. Esther le aveva promesso che se avesse preso buoni voti avrebbe potuto continuare gli studi. Anche lei un giorno avrebbe appeso in casa la sua foto di laurea in toga e tocco, accanto a quella del marito. Prima però avrebbe frequentato un corso di sartoria, perché poteva tornarle utile. La mamma le aveva già comprato la macchina da cucire. Ma questo Dorcas non lo sapeva: doveva essere una sorpresa.

Quella domenica di aprile Dorcas guardò dritto dentro l’obiettivo, e la venditrice di moi moi e di dolci si incamminò verso il villaggio per portare ai suoi genitori quell'istante fissato per sempre. Si incamminò e sparì tra le case di fango e le donne vestite di colori allegri. Poi sulla strada polverosa apparve la mamma di Saraya, sulla via del mercato. Era carica di manghi appena colti: li portava alla figlia a scuola, prima che i suoi sei fratelli li mangiassero tutti. Sotto la pelle profumata come l’orto di casa erano più dolci di una lettera d’amore. Le due amiche affondarono i denti allenati nella polpa gialla e vellutata, incuranti del succo che colava sul mento di entrambe, incuranti del fatto che anche le ombre dei giovani manghi erano ormai sparite dal cortile. È solo una questione di tempo, l’ombra dell’albero torna sempre.


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