martedì 28 maggio 2019

Nigeria. Attacco di Boko Haram a basi dell'esercito. 29 militari uccisi

Il braccio nigeriano del sedicente Stato Islamico ha rivendicato mercoledì la responsabilità di un raid compiuto due giorni prima, pubblicando un video che mostra l'esecuzione di 9 soldati nigeriani. Altri 20 militari sarebbero stati uccisi durante l'attacco alla base militare.


Una fonte di sicurezza e un operatore umanitario, che hanno chiesto l'anonimato, hanno riferito all'agenzia Reuters che i terroristi Boko Haram hanno colpito lunedì sera la città nord-orientale di Gubio, nello stato di Borno, arrivando a bordo di pick-up dotati di mitragliatrici e di motociclette.

Esercito impreparato e male equipaggiato di fronte ai continui attacchi ai villaggi del nord-est di Boko Haram, la fazione legato all'Isis e allo Stato Islamico dell'Africa Occidentale (ISWAP). Il rieletto presidente Buhari che aveva fatto una campagna elettorale improntata all'imminente sconfitta di Boko Haram sta tradendo le aspettative.

Sono ormai centinaia i militari uccisi dall'inizio di quest'anno nei sempre più frequenti attacchi ai villaggi del nord-est della Nigeria e alle basi dell'esercito. un'esercito sempre più scoraggiato e senza motivazioni.

L'operatore umanitario ha riferito che anche quest'ultima battaglia tra jihadisti e militari è durata più di un'ora e poi l'esercito si è ritirato, ma è più giusto dire che si è dato alla fuga. Dopo la battaglia si sono contati i cadaveri di 15 soldati.

Ma i militari uccisi nel combattimento sarebbero 20 secondo la rivendicazione della Provincia dello Stato Islamico dell’Africa Occidentale (ISWAP), fazione legata all’Isis del movimento jihadista nigeriano Boko Haram, il cui vertice sarebbe stato sostituito lo scorso marzo.

Dallo scorso anno i movimenti jihadisti hanno compiuto numerosi attacchi a postazioni e basi dell’esercito nel nord-est del paese. Attacchi che hanno trovato quasi sempre impreparati i militari. I terroristi hanno ucciso centinaia di soldati nella regione negli ultimi mesi. Fonti militari e di sicurezza parlano da tempo di una situazione in costante deterioramento, con «truppe male equipaggiate e stanche che hanno raggiunto il punto di rottura»
(Reuters)


Condividi su Facebook



Maris Davis Joseph

RD Congo. Islamisti attaccano villaggi nel Nord Kivu. Rivendicazione dell'Isis

Almeno dieci persone sono state rapite in seguito ad un nuovo attacco compiuto da un gruppo armato nella regione di Beni, nella martoriata provincia del Nord Kivu, nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo.


Secondo quanto riferito ieri da fonti locali all'agenzia France Presse, gli assalitori hanno fatto irruzione nel villaggio di Chianichani, dove hanno saccheggiato e bruciato un centro sanitario e rubato in molte abitazioni. Non è chiaro quando l’attacco sia avvenuto.

Secondo l’organizzazione statunitense SITE Intelligence, che monitora l’attività online di suprematisti bianchi e jihadisti, il sedicente Stato islamico ha rivendicato la responsabilità dell'attacco a Chianchiani e in un altro villaggio, Kumbwa, a Kamango, dove sostengono di essersi scontrati con l'esercito congolese. L'esercito non ha però confermato.

Kamango è una località situata a circa 80 km da Beni, città colpita da un’epidemia del virus ebola che in 10 mesi ha ucciso 1.218 persone secondo gli ultimi dati dell’Oms. Ma la cifra dei morti per ebola, secondo fonti locali sentite da Nigrizia, sarebbero tre volte maggiore.

Nella regione, ricchissima di legname pregiato, petrolio, oro, coltan, diamanti e altri minerali preziosi, sono attivi da decenni più di 100 milizie, finanziate da attori diversi.

In un video diffuso il 29 aprile da Al-Furqan Media, il leader dell'ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, nella sua prima apparizione in cinque anni, ha di fronte alcuni documenti su affiliati globali, tra cui uno intitolato "Wilayat Central Africa" (Provincia dell’Africa Centrale). Il mese scorso lo Stato islamico per la prima volta ha affermato di aver attaccato a una posizione dell'esercito congolese.

Nel territorio è attivo un gruppo armato islamista, le Forze demoratiche alleate (Adf), fuggite dall'Uganda del post-genocidio a metà degli anni '90, regolarmente accusate dalle autorità della RD Congo di attaccare le posizioni dell'esercito nel Nord Kivu. In particolare, le Adf sono accusate di massacro che nel 2014 ha ucciso centinaia di civili nella regione di Beni.

Anche nel Nord Kivu ora si parla di genocidio in atto contro i cristiani
Fonti locali parlano di un “genocidio” in atto delle popolazioni locali, a maggioranza cristiana, massacrate sistematicamente e costrette ad abbandonare le loro terre con la complicità delle autorità di Kinshasa.
(News 24)


Condividi su Facebook



Maris Davis Joseph

Arrestato Boss della Mafia Nigeriana. Indagini della Questura di Trieste

Coinvolte diverse città. Udine e Vicenza gli snodi principali dello smercio.


Il trafficante è stato ammanettato dagli uomini della Squadra Mobile della Questura di Trieste. In circa nove mesi sequestrati poco più di 310 chilogrammi di marijuana. Coinvolte le città di Torino, Genova, Pisa, Padova e Treviso. Udine e Vicenza come snodo dei traffici

Nella mattina del 24 maggio, presso la sua abitazione romana, gli agenti della Squadra Mobile di Trieste hanno arrestato un cittadino di origine nigeriana (34enne, N.B. le sue inziali) a capo di un, capillare traffico di marijuana che, tra il mese di ottobre del 2018 e il maggio di quest'anno, ha gestito il rifornimento di diverse "piazze" di spaccio in tutto il nord Italia. Durante questo periodo, le attività investigative dirette dalla Procura della Repubblica del capoluogo del Friuli Venezia Giulia hanno portato al sequestro di 311 chilogrammi di sostanza stupefacente tra le città di Torino, Genova, Pisa, Trieste, Vicenza, Udine e Treviso.

L'obiettivo della Procura di Trieste: ricostruire la catena
Le indagini sono partite da Trieste dopo le attività investigative che avevano portato, nella zona tra il Silos, piazza Libertà e via Udine, a diversi sequestri di modiche quantità di marijuana. Da qui l'intenzione da parte della Procura guidata da Carlo Mastelloni di seguire le diverse tracce e ricostruire la catena dei fornitori.

Obiettivo delle indagini è stato quello relativo al far luce sulle modalità di arrivo della droga e soprattutto "sui diversi canali di approvvigionamento". Le indagini, dopo prime iniziali difficoltà, hanno permesso di mettere assieme più tasselli e individuare sia i fornitori che per l'appunto lo spacciatore nigeriano residente a Roma.

Il traffico di droga. Ecco come funzionava
L'arrestato faceva affidamento sui corrieri che si recavano a Roma e, spostandosi verso le città del nord Italia in treno o in macchina, consegnavano la marijuana a delle "cellule" presenti nelle diverse località. Questo ha permesso di ricostruire il tragitto e sequestrare, di volta in volta, ingenti quantitativi di stupefacente. Tra i sequestri più rilevanti quello dello scorso 31 marzo a Torino dove gli agenti della Mobile di Trieste e del capoluogo piemontese hanno sequestrato oltre 50 chilogrammi di marijuana destinati allo spaccio locale. In questa occasione sono state arrestate tre persone, due di esse di origine nigeriana.

Il 4 aprile scorso a Genova la Polizia ha arrestato un cittadino albanese accusato di aver trasportato ulteriori 50 chilogrammi di marijuana destinati ad un cittadino nigeriano anch'egli arrestato, circa un mese dopo, per la detenzione di oltre 10 chili di droga. Anche in questo caso, secondo gli inquirenti, il mandante è sempre N.B.

Tra i mesi di marzo e maggio di quest'anno, gli agenti della Mobile di Trieste hanno messo a segno alcuni "colpi" importanti nei confronti del traffico di droga nel nord Italia. Il supporto delle Mobili di competenza e della Polizia Ferroviaria, ha portato all'arresto di 13 corrieri stranieri a Udine (11 nigeriani, un albanese e un cittadino di origine ghanese) e al conseguente sequestro di poco meno di 206 chilogrammi di marijuana.

Udine e Vicenza come nuovi snodi della droga nigeriana
Durante l'attività investigativa si è accertato anche lo spostamento del centro di spaccio dalla zona della stazione centrale di Trieste a quella di Udine. L'arresto dei 13 corrieri proprio nel capoluogo friulano certifica l'importanza della piazza di Udine che, ormai, è diventata un vero e proprio snodo del traffico di stupefacenti. La zona della stazione udinese nel corso degli ultimi mesi è stato protagonista di diverse operazioni antidroga.

Un'inchiesta recente della questura di Udine che aveva piazzato in Borgo Stazione diverse telecamere nascoste, ha portato all'arresto di decine di spacciatori, al sequestro di droga e alla chiusura di locali centri di spaccio. Un'inchiesta che è stata ripresa anche dalla stampa nazionale.

Anche a Vicenza è stato documentato come "il dinamismo con cui i corrieri si muovono è reale e permette una facilità di movimento degli stessi soggetti che comprano, vendono e operano sul territorio anche in relazione ad uno spaccio locale". È stato documentato tra l'altro come parte della marijuana fosse destinata anche a richiedenti asilo, un po' come avveniva nella zona della stazione centrale di Trieste. Nella città berica la Mobile ha messo sotto sequestro ben 15 chilogrammi di marijuana.

Gli altri sequestri a Pisa, Padova e Treviso
Nella città tirrenica il quantitativo di marijuana sequestrato è stato di oltre 3 chilogrammi, quantità pressoché equivalente rispetto a quella sequestrata a Treviso (3,2 chilogrammi). È Padova in Veneto lo snodo di spaccio più importante. Nella città del santo infatti sono stati sequestrati circa 69 chilogrammi di stupefacente in cinque diverse operazioni antidroga.

I 311 chilogrammi avrebbero fruttato circa 3 milioni di euro
L'operazione antidroga volta a smantellare il traffico di marijuana nel nord Italia, per numero di arrestati e quantità di stupefacenti sequestrata, è la più cospicua tra quelle diretta dalla Procura di Trieste negli ultimi due anni. Secondo la Questura di Trieste il traffico gestito dalla criminalità nigeriana nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia non avrebbe contatti con l'attività mafiosa della penisola italiana, non come invece appurato da altri filoni investigativi e comunque dato dal fatto che il traffico di marijuana rappresenta una fonte meno redditizia rispetto ad altri stupefacenti.

Se si considera infatti che la marijuana può arrivare fino a circa 10 euro al grammo la proiezione economica sul sequestro dei circa 311 chilogrammi avrebbe fruttato, ai trafficanti, poco più di tre milioni di euro.

L'arresto del 24 maggio nella capitale è importante
Il 34enne (N.B. le sue iniziali) noto alle forze dell'ordine in virtù della pena che stava scontando agli arresti domiciliari per reati analoghi, è stato fermato all'interno della sua abitazione nel quartiere della Borghesiana da dove aveva appena fatto partire l'ennesimo corriere in direzione Genova. Il cittadino nigeriano aveva consegnato un borsone con sei chili di marijuana ad un corriere che è stato intercettato e arrestato alla stazione Principe del capoluogo ligure.

Come ha potuto un nigeriano agli arresti domiciliari gestire un traffico di droga così imponente sarà la risposta da cercare proseguendo l'indagine che di certo non si è fermata con questo arresto, seppur importante.

Questo ultimo carico è stato fatale al trafficante. Il PM titolare del fascicolo è Federico Frezza mentre il Giudice per le Indagini Preliminari è Giorgio Nicoli del Tribunale di Trieste.
(Vicenza Today)


Condividi su Facebook



Maris Davis Joseph

sabato 18 maggio 2019

Nigeria. Liberati 900 bambini soldato

Erano impiegati dalle milizie civili per combattere contro Boko Haram.


Quasi 900 bambini soldato appartenenti alle milizie civili che si battono contro i terroristi islamici del gruppo Boko Haram sono stati liberati la scorsa settimana in Nigeria. Lo ha annunciato l’Unicef dalla sede delle Nazioni Unite di Ginevra.

Il rappresentante dell’agenzia delle Nazioni Unite nella nazione africana, Mohamed Fall, ha spiegato che ”complessivamente, 894 bambini, comprese 106 bambine, non fanno più parte della Civilian Joint Task Force (Cjtf)”, milizia fondata nel 2013 con l’obiettivo di proteggere le comunità locali dagli attacchi degli jihadisti.

La liberazione è avvenuta nello stato del Borno: ”Le milizie utilizzavano i bambini-soldato all'interno di gruppi armati, impiegandoli in alcuni casi direttamente nei combattimenti”. In altri casi sono stati sfruttati come elementi di appoggio ai check point organizzati dall'esercito regolare nigeriano. Quasi tutti, ”sono stati testimoni di stragi e di violenze

La Cjtf infatti è utilizzata come organizzazione di appoggio alle truppe nazionali. Ma proprio il frequente ricorso all'arruolamento di bambini-soldato ha generato forti critiche a livello internazionale. Le milizie sono infatti finanziate dalla Nigeria, che a sua volta riceve aiuti da nazioni terze per la lotta contro Boko Haram.

Secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) del 2016, in Nigeria sono più di 15 milioni i bambini di età compresa tra 5 e 14 anni costretti a lavorare. Di questi, ”molti sono utilizzati come combattenti nei conflitti armati. Continueremo a batterci finché non ci siano più alcun bambini soldato nei gruppi armati presenti nel nostro paese

Secondo l’Unicef, dopo l’accordo firmato dalla Cjtf nel settembre del 2017, sono stati liberati in tutto 1.727 tra adolescenti e bambini-soldato, ”e non ci sono stati più nuovi arruolati
(Onu Italia)


Condividi su Facebook



Maris Davis Joseph

venerdì 17 maggio 2019

Giappone. Vince l’Italia più bella: quella multietnica

IAAF World RELAYS, traguardo storico del quartetto italiano della 4x400 femminile nella manifestazione di atletica leggera a Yokohama, in Giappone. 

Le ragazze italiane che hanno vinto il bronzo nella 4 x 400 ai mondiali in Giappone

Un quartetto multietnico che ottiene un terzo posto con il miglior tempo stagionale. L'Italia in questa disciplina non era mai salita così in alto.

Un’ex fotomodella romana della Nigeria; una poliziotta nigeriana di Fidenza; una soldatessa modenese del Sudan, una friulana ex calciatrice cresciuta a Laguna Beach (California). Questo il quartetto azzurro-colorato che ha scritto una pagina di storia dell’atletica leggera femminile italiana.

Maria Benedicta Chigbolu, 29 anni, Ayomide Folorunso, 23, Raphaela Lukudo, 25, Giancarla Dimich Trevisan, 26, pochi giorni fa (il 12 maggio per la precisione) a Yokohama, in Giappone, ai Mondiali di staffette, hanno conquistato nella 4×400 una medaglia da tutti definita storica.

Il quartetto, piazzandosi al terzo posto in finale con il tempo di 3’27″74, preceduto soltanto da Polonia (3’27″49) e Stati Uniti (3’27″65), ha ottenuto il miglior tempo stagionale. L’Italia non era mai salita sul podio in questa manifestazione (la IAAF World RELAYS) giunta quasi ignorata alla quarta edizione e con questa medaglia di bronzo ha guadagnato l’accesso ai Mondiali di atletica di Doha del 27 settembre-6 ottobre prossimi.

Un evento avvenuto senza polemiche, per fortuna. Forse sintomo dì normalità della diversità in un’Italia avvelenata dall'intolleranza? Facciamo un salto indietro, alla fine di giugno 2018.

Voliamo da Yokohama a Tarragona, in Spagna. Ai giochi del Mediterraneo il medesimo quartetto, quasi nella stessa formazione, vinse la medaglia d’oro. Quel successo fu definito la risposta al raduno leghista che si svolgeva domenica 1 luglio, a Pontida. “Prime le italiane”, “Realtà 1 vs Pontida 0”, “ciaone Salvini”, furono i beffardi e polemici commenti su social.

Questa volta no. Nessuno, giustamente, ha sottolineato il colore o l’origine di tre delle quattro atlete. Il Messaggero, più che giustamente, parlando di Maria Benedicta Chigbolu la definisce atleta reatina, perché vive e si allena a Rieti sotto la guida di Maria Chiara Milardi, che segue anche il suo fidanzato, il quattrocentista della Nazionale Matteo Galvan.

In realtà, Benedicta, seconda di 6 figli, è nata a Roma nel quartiere Torrevecchia (il suo accento è inconfondibilmente romanesco) da mamma italiana, Paola, insegnante di religione, e papà nigeriano, Augustine, consulente internazionale. Suo nonno, Julius , è stato una celebrità nel suo Paese nel salto in alto: giunse in finale alle Olimpiadi di Melbourne nel 1956. Benedicta, che corre per l’Esercito, ha fatto anche la modella e si è laureata in Scienze dell’educazione (sogna di aprire un asilo nido). Nel 2016, per meriti sportivi il comune di Cercemaggiore (Campobasso) le conferì la cittadinanza onoraria. Questo perché a Cercemaggiore, simpaticamente autodefinitosi paese di vino e di briganti, era nato suo nonno materno e Benedicta vi trascorre le vacanze.

Anche Ayomide Folorunso, Ayo per gli amici, nata da una famiglia originaria del Sud-Ovest della Nigeria (Abeokuta) nel 1996, non è stata ricordata per le sue origini né come icona anti-Pontida. Dal 2004 vive a Fidenza (Parma) con la mamma Mariam e il papà Emmanuel, geologo minerario. È diventata italiana nel 2013 e nel giugno 2015 è stata arruolata nelle Fiamme Oro della Polizia, proveniente dal Cus Parma e studia Medicina perché mira a diventare pediatra e dedicarsi alla cura dei piccoli.

Anche Rapahela Bohaeng Lukudo gareggia da 4 anni per l’Esercito: si allena nel centro sportivo della Cecchignola. È nata ad Aversa (Caserta) da genitori sudanesi ma, come ricorda il sito della Federazione italiana di Atletica leggera, quando “Raffaella” aveva appena due anni, la famiglia si trasferì a Modena e nel 2011 per un paio di anni nei pressi di Londra, rientrando poi in Italia. Studia scienze motorie ma ha frequentato l’istituto d’arte, conservando la passione per disegno e foto.

Per assurdo quella che ha suscitato una certa curiosità è stata proprio la più italiana di tutte (almeno nel nome): Giancarla Dimich Trevisan. Il nonno era, infatti, puro friulano, di San Vito al Tagliamento, la nonna toscana di Lucca. Si erano trasferiti oltreoceano a Des Moines (Iowa) dove è nato il papà di “Gia”, architetto, che poi si è spostato in California del Sud per lavoro. Il primo sport di Giancarla è stato il calcio nel ruolo di attaccante, ma per un infortunio al ginocchio ha deciso di passare all'atletica. Ora vive a Los Angeles con il marito Corey Butler, sposato nel 2018. Ha studiato psicologia e management dello sport. Nel tempo libero ama dipingere ma senza trascurare il windsurf. E non poteva essere diversamente nel mare per eccellenza dei surfisti, la California.
(Africa ExPress)

Women's 4x400m FINAL World Relays Yokohama 2019 4K


In queste quattro maglie azzurre sono racchiusi, allo stesso tempo un mondo e la nuova Italia, pronte a regalare ancora sorrisi e soddisfazioni arcobaleno all’Atletica italiana.


Condividi su Facebook



Maris Davis Joseph

Silvia Romano. Il silenzio dell'innocente

Più di 6 mesi dal rapimento della cooperante milanese. Indagini al rallentatore e non coordinate con l’intelligence italiana. Ma la sua scomparsa ha fatto venire alla luce anche pratiche al limite della legalità di certi componenti della comunità italiana di Malindi.


La giovane cooperante milanese Silvia Romano è stata rapita la sera del 20 novembre 2018 nel villaggio di Chakama, entroterra di Malindi, la stazione turistica sulla costa del Kenya più conosciuta e frequentata dagli italiani. Era in una zona remota come volontaria di una piccola onlus delle Marche, Africa Milele, impegnata nel coordinamento di interventi a favore dei bambini. Sono queste le uniche notizie certe che abbiamo di Silvia.

Poi, per qualche giorno, erano circolate notizie confuse, talvolta contrastanti, da cui emergeva, come più probabile, l’ipotesi di una rapina orchestrata da un gruppo di balordi locali, finita in un rapimento. A questa ipotesi portano i primi racconti fatti circolare. Dicono che Silvia non avesse con sé il telefonino e dunque non abbia potuto usare l’applicazione Mpesa, diffusissima in Kenya, che permette di trasferire da un cellulare all’altro cifre consistenti di denaro digitando un codice e un numero di telefono.

Su questa ipotesi sembrerebbero essersi mosse anche le forze di sicurezza kenyane, che hanno arrestato Ibrahim Adan Omar, sospettato di essere uno dei rapitori, e hanno messo una taglia sostanziosa sulla testa dei suoi due complici. Per alcune settimane le autorità kenyane si sono dichiarate certissime di riportare Silvia a casa in poco tempo.

In effetti il dispiegamento di uomini e mezzi era notevole, probabilmente anche per circoscrivere la zona delle ricerche, evitando che il gruppo potesse addentrarsi nella foresta Boni, estesa circa 1.350 km², a ridosso del confine somalo. Se fosse riuscito a raggiungere la foresta, individuarlo sarebbe stato molto complicato, soprattutto perché la foresta Boni non è un ambiente amichevole per le forze dell’ordine kenyane.

Alla fine del 2015, dopo un’ondata di attentati terroristici nella zona, era stata lanciata l’operazione Linda Boni Forest (Controlla la foresta Boni), che ha provocato danni enormi alla popolazione, praticamente accusata di proteggere le cellule terroristiche che vi albergano.

Se Silvia fosse nella foresta Boni, come sembra probabile perché a un certo punto delle operazioni di ricerca la zona è stata isolata, sarebbero scarse le speranze di segnalazioni della sua presenza alla polizia. Se fosse nella foresta, è possibile, inoltre, che sia stata “venduta” a un gruppo più organizzato, in grado di gestire un sequestro di lungo periodo e di condurre una trattativa per il riscatto, sempre che Roma sia disposta a pagare.

Certo è che per diverse settimane sulla sorte di Silvia è sceso un silenzio totale, rotto da illazioni e ipotesi sempre più drammatiche e fantasiose

Nell'ultimo mese sembra che qualcosa si stia muovendo. Secondo un articolo pubblicato il 13 aprile dal Corriere della Sera, le autorità kenyane, che finora avevano indagato da sole, hanno finalmente risposto positivamente alle richieste italiane. Sarebbe già stato raggiunto un accordo tra la polizia locale e i carabinieri del Ros, cui sarebbero stati consegnati tutti i documenti relativi alle indagini sul rapimento di Silvia. La polizia kenyana avrebbe assicurato che la nostra volontaria è viva. Evidentemente ci sarebbe anche qualcuno con cui si sta trattando. Lo si deduce dal fatto che i carabinieri avrebbero consegnato alle loro controparti locali un elenco di domande dalle cui risposte si dovrebbe capire se i “contatti” sono attendibili.

La vicenda di Silvia ha poi scoperchiato un vaso di Pandora, facendo venire alla luce pratiche al limite della legalità di certi componenti della comunità italiana di Malindi e, vogliamo credere per ingenuità, usate talvolta anche da qualcuno nel mondo del volontariato. Potrebbe essere questo uno dei motivi per cui le autorità kenyane preferiscono indagare da sole.

Il rapimento di Silvia sta diventando anche l’occasione di un dibattito sul volontariato, quello basato sui rapporti umani e tra le comunità, sul trasferimento di solidarietà e conoscenze dal basso piuttosto che sul trasferimento di risorse.

Accanto ad analisi e giudizi impietosi e in gran parte ingiustificati, c’è l’avvio di una riflessione nelle ong più strutturate, quelle impegnate nella cooperazione internazionale, che si chiedono come valorizzare, e proteggere, l’entusiasmo e le capacità di tanti giovani disposti a mettersi in gioco per contribuire a migliorare le condizioni di vita di chi è meno fortunato di loro. Energie positive di cui tener conto in un mondo che sembra andare in una direzione opposta.




Articolo a cura di
Maris Davis


Condividi su Facebook



Maris Davis Joseph