lunedì 30 settembre 2019

Silvia Romano sarebbe viva nelle mani degli Al-Shabaab che l'hanno costretta ad un matrimnio islamico

Secondo gli 007 italiani i sequestratori "vorrebbero farle assimilare, sino a sentirsene parte integrante, l’ambiente dove vive, cultura islamica"

Se da un lato la notizia è positiva perché Silvia sarebbe viva, dall'altra parte c'è la certezza che è nelle mani del gruppo Al-Shabaab, terroristi islamici che in questi anni hanno destabilizzato con decine e decine di attentati la Somalia e il Corno d'Africa, gli stessi che proprio oggi hanno attaccato un convoglio militare italiano a Mogadiscio.


Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya il 20 novembre 2018, è viva e si troverebbe in Somalia, ma sarebbe stata costretta dai rapitori "all’islamizzazione e al matrimonio islamico". Lo affermano fonti di intelligence. Gli uomini che la tengono prigioniera stanno attuando nei suoi confronti "una sorta di lavaggio del cervello, una manovra di pressione psicologica che punta a recidere i legami affettivi e culturali con la sua patria d’origine"

Vorrebbero farle assimilare, sino a sentirsene parte integrante, l’ambiente dove viene costretta a vivere

Secondo gli 007 italiani i sequestratori di Silvia "vorrebbero farle assimilare, sino a sentirsene parte integrante, l’ambiente dove viene costretta a vivere". Silvia Romano si troverebbe quindi nell'interno della Somalia, il Paese africano dove più forte è la presenza jihadista e dove intere zone, soprattutto nel Sud, sono sotto il controllo delle fazioni integraliste vicine alla guerriglia.

La ragazza si trova probabilmente tra il Sud e il Sudovest del Paese, dominato dai mujaeddin di Al Shabab, una tra le fazioni più integraliste della jihad. Rapita nel villaggio in Kenya di Chakama, 80 km da Nairobi, Silvia fu portata in Somalia poche settimane dopo il sequestro.

Silvia ha dovuto sposare un musulmano e probabilmente il marito è un uomo dell'organizzazione che l'ha sequestrata

La strategia dei jihadisti è normalmente quella di indottrinare i prigionieri di guerra in modo da puntare ad avere, dopo la liberazione, un infiltrato da utilizzare per la Guerra Santa nel suo Paese di origine. Non è facile capire quale sia lo scopo di indottrinare però una semplice volontaria che non ha contatti particolarmente significativi e importanti per i militanti della Jihad.

La strategia del matrimonio combinato, sposare colui che è stato il tuo rapitore, è la stessa usata (per esempio) da Boko Haram in Nigeria. Rapire le ragazze per poi costringerle a matrimoni con gli stessi rapitori. Simboleggia il dominio dell'uomo sulla donna, ma anche il tentativo dei rapitori di affermarsi all'interno dell'organizzazione, "voglio quella donna e la rapisco per farla diventare mia moglie, in questo modo dimostro il mio potere e le mie capacità anche all'interno del mio gruppo". Così potrebbe essere capitato anche a Silvia, rapita proprio a questo scopo, "qualcuno" che voleva a tutti i costi "avere" Silvia in moglie e per questo non ha esitato ad uccidere e a chiedere aiuto a dei terroristi.

Rapita quasi un anno fa in Kenya fu poi ceduta agli Al-Shabaab somali

Alla fine del 2018 Silvia, rapita in Kenya, fu ceduta a bande di banditi somali finendo così in un territorio in cui l'intervento occidentale è molto più difficile rispetto al Paese dove la ragazza prestava servizio di volontariato in un villaggio. Difficile pensare a un raid per liberarla. L'unica strada è quindi quella dell'intelligence, della ricerca di contatti e trattative con i rapitori, a cominciare dal pagamento di un riscatto, che pare oggi l'unica strada per la liberazione.

Il fatto che sia arrivata la notizia del matrimonio significa che è stato attivato un canale con i rapitori. Ora resta da verificare se i sequestratori la considerino una di loro e non vogliano trattare, o se si tratti di una strategia per alzare il prezzo del riscatto.

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sabato 28 settembre 2019

Nigeria, centinaia di bambini sottoposti a torture in una scuola coranica

A Kaduna, nella Nigeria settentrionale, la polizia libera 500 persone, la maggior parte bambini trovati incatenati e torturati in una scuola coranica


Gli studenti soccorsi avevano cicatrici sulle spalle e ferite gravi. La polizia ha trovato una "stanza di tortura", dove gli allievi venivano appesi a catene e picchiati quando gli insegnanti ritenevano che avessero commesso un errore. Sette persone sono state arrestate: il proprietario e sei membri dello staff.


La polizia nigeriana ha scoperto e salvato più di 500 persone, tra adulti e bambini, tutti maschi e di diverse nazionalità. Sono stati trovati in catene all'interno di un edificio nella città settentrionale di Kaduna. Secondo quanto dichiarato dalla polizia molti dei bambini avevano le catene intorno alle caviglie, molti di loro hanno segni di tortura e hanno subito stupri.

Il portavoce Yakubu Sabo ha detto che l'edificio ospitava una scuola islamica e sette persone (otto secondo quanto riporta la Bbc) sono state arrestate: il proprietario e sei membri dello staff.

"Abbiamo trovato circa 100 studenti, bambini che avevano anche 5 anni, in catene, stipati in una sola stanza piccola. Stiamo attualmente dandogli cibo, sono tutti denutriti. Abbiamo identificato alcuni bambini provenienti dal Burkina Faso, altri erano arrivati con i genitori dal nord del Paese"

L'istituto, il cui obiettivo dichiarato era quello di rimettere sulla buona strada tramite l'apprendimento del Corano adulti e minorenni finiti nel giro della piccola criminalità o della droga, era stato segnalato da alcuni vicini che si erano insospettiti. La scuola islamica si trova nella zona Rigasa della città di Kaduna.

Molti degli studenti soccorsi avevano cicatrici sulle spalle e ferite gravi. La polizia ha trovato una "stanza di tortura", dove gli allievi venivano appesi a catene e picchiati quando gli insegnanti ritenevano che avessero commesso un errore. "Sono stati portati in uno stadio di Kaduna durante la notte per essere curati, stiamo cercando le loro famiglie", ha detto il capo della polizia di Kaduna, Ali Janga. Le autorità nigeriane affermano che i quasi 500 prigionieri liberati saranno sottoposti esami medici e psicologici.

Le scuole islamiche, conosciute come Almajiris, sono comuni in tutto il nord musulmano della Nigeria, un paese diviso in modo più o meno uniforme tra seguaci del cristianesimo (a sud) e dell'Islam (nel nord).

Boko Haram, le setta islamica integralista che da oltre un decennio provoca terrore nel nord-est della Nigeria, ha nel significato del suo stesso nome "L'insegnamento occidentale è peccato" l'idea che l'unico insegnamento possibile è lo studio del Corano.


La Repubblica

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lunedì 23 settembre 2019

Anzio, aggressione a sfondo razziale. Due ragazzi prendono a bastonate un nigeriano

I colpevoli sono stati bloccati dai carabinieri: 18enne arrestato, 17enne denunciato a piede libero. L'accusa è lesioni personali aggravate dalla discriminazione razziale.


Aggressione razzista ad Anzio, sul litorale a sud di Roma. Due ragazzi di 18 e 17 anni hanno visto un giovane nigeriano camminare in strada, sono usciti di casa, l'hanno seguito e l'hanno picchiato. Gli aggressori, entrambi incensurati, sono stati bloccati poco dopo dai carabinieri. Il maggiorenne è stato arrestato mentre l'altro è stato denunciato a piede libero per lesioni personali aggravate dalla discriminazione razziale in concorso. La vittima ha riportato ferite alla testa e alla spalla giudicate guaribili in sette giorni.

Secondo la ricostruzione fornita dai carabinieri, il giovane migrante è stato aggredito una prima volta in un'area di parcheggio pubblica. Da lì è riuscito a scappare verso la stazione, ma i due a quel punto si sono procurati i due bastoni e lo hanno inseguito fin davanti alla stazione dove lo hanno colpito più volte.

Stazione di Anzio
Una pattuglia di carabinieri in borghese ha notato i due ragazzi che armati di bastoni correvano dietro al migrante e ha allertato i colleghi. Alla vista dei militari gli aggressori hanno provato a scappare e ad abbandonare le mazze, ma sono stati bloccati. Il giovane nigeriano è stato accompagnato in ospedale.

Per gli investigatori alla base del pestaggio ci sarebbero motivi razziali. Non sarebbero emersi al momento altri motivi pregressi dietro al pestaggio. I due amici abitano nello stesso palazzo che è poco distante dal centro di accoglienza in cui vive la vittima.

Non è la prima aggressione a sfondo razziale. In aumento gli episodi in tutta Italia

A Roma giovedì scorso c'è stata un'altra aggressione razzista, ai danni di un tassista 57enne di origine indiana. I responsabili sarebbero stati due fratelli di 18 e 19 anni, mentre un terzo aggressore è scappato ed è ricercato. I tre hanno preso a calci e pugni il taxi, per poi picchiare l'uomo e rubargli il cellulare e l'incasso della giornata. I due fratelli sono stati rintracciati, trovati in possesso di droga e arrestati, mentre continua la caccia al loro complice. Per i due l'accusa è di rapina con l'aggravante dell'odio razziale e detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.

"Bisogna alzare il livello di attenzione su quanto sta accadendo in queste settimane, ha detto la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello. Un'altra aggressione razzista, questa volta ai danni di un ragazzo nigeriano, a cui va tutta la solidarietà e vicinanza della Comunità Ebraica di Roma. Se pensiamo che le parole ed i gesti nostalgici del Ventennio non abbiano effetti, questa è la dimostrazione che purtroppo non è così. Sono proprio le istituzioni a dover dare l'esempio, ha aggiunto Dureghello. Penso che potrebbe essere un segnale importante riparare al torto di qualche mese fa quando venne negata una benemerenza a Adele Di Consiglio. Oggi conferirle questo riconoscimento sarebbe un bel messaggio per tutta la cittadinanza"
(La Repubblica)

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martedì 17 settembre 2019

Brescia. Dalla Nigeria attraverso la Libia e poi costrette a prostituirsi

Operazione di Polizia e Dda con la Nigeria. Le ragazze venivano inserite nel sistema di accoglienza per non farsi espellere e poi costrette a prostituirsi.


Nelle ore intorno a martedì 10 settembre la Polizia di Stato, per le indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Brescia, ha arrestato tre nigeriani notificando un’ordinanza di custodia cautelare in carcere perché considerati responsabili di tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione.


L’attività investigativa condotta dalla Squadra Mobile attraverso intercettazioni telefoniche ha permesso di individuare in provincia di Brescia i terminali (un uomo e una donna) di un’organizzazione con base in Libia e Nigeria dedita a favorire l’ingresso di giovani donne da avviare alla prostituzione.

Tra gli arrestati una donna che operava a Torino ma attualmente residente nel mantovano

In collaborazione con il Servizio Centrale Operativo e i canali di cooperazione con la Polizia nigeriana, è stato identificato anche uno dei componenti del sodalizio operante all’estero per trasferire le vittime di tratta dalla Nigeria alla Libia, dove venivano imbarcate per farle giungere sulle coste italiane.

L’attività investigativa ha confermato le caratteristiche tipiche delle organizzazioni nigeriane dedite alla tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento sessuale e in particolare il ricorso a riti magici e le minacce ai danni dei familiari in patria come strumenti per obbligare le vittime, costrette a versare ai loro aguzzini somme variabili tra i 20 e i 30 mila euro, come riscatto per affrancarsi dalla mamam.

Appena arrivate in Italia le ragazze dovevano fare domanda di protezione internazionale

Un sistema che la mafia nigeriana utilizza con tutte le ragazze per aggirare la legge italiana che impedisce al richiedente asilo di essere espulso fino all'esito della sua richiesta.

Un periodo che, stante la lentezza della burocrazia italiana, può arrivare fino a 18 mesi. Un periodo nel quale le ragazze possono essere sfruttate senza correre il rischio della loro eventuale espulsione.


Per garantire alla sfruttatrice una rendita per un apprezzabile periodo di tempo, le ragazze, prima di essere avviate alla prostituzione entravano nel sistema di accoglienza e formalizzavano la richiesta di protezione internazionale. Questo escamotage impediva di espellerle fino al termine della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiati. Una volta formalizzata la domanda di asilo, le vittime venivano indotte a scappare dal centro di accoglienza e venivano costrette a prostituirsi, iniziando così a pagare il debito.


Nel corso dell’indagine, nella quale risultano indagati 6 soggetti, tutti nigeriani, è stata raccolta la denuncia di tre vittime, che dopo aver deciso di affrancarsi dai loro sfruttatori, hanno raccontato tutte le fasi del loro reclutamento e le angherie che hanno dovuto subire durante il viaggio, costituite da violenze fisiche, abusi sessuali e restrizioni forzate nei centri di detenzione libici.


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mercoledì 11 settembre 2019

Odio e discriminazione razziale. Facebook cancella decine di account di Casa Pound e Forza Nuova

"Diffusione dell'odio e della discriminazione razziale". Scelta coraggiosa di Facebook che prende una decisione senza precedenti, oscurati i profili Facebook e Instagram di CasaPound Italia e Forza Nuova, dei loro leader e dei loro attivisti.

Le organizzazioni di estrema destra rispondono con rabbia "Ci discriminano perché eravamo in piazza contro il nuovo governo. Colpiti in un giorno simbolico"

CasaPound e Forza Nuova scompaiono dai social proprio durante il dibattito sulla fiducia al governo Conte. Sono stati infatti cancellati da Facebook e Instagram i profili ufficiali dei due partiti e quelli di numerosi responsabili nazionali, locali e provinciali, compresi quelli degli eletti in alcune città italiane. Oscurate le pagine di Gianluca Iannone, Simone Di Stefano e Roberto Fiore. Spariti dagli schermi decine di account vicini alle due organizzazione di estrema destra. A cominciare dalla pagina principale, 'CasaPound Italia', 'certificata da Fb con tanto di spunta blu: ha 280 mila follower. Restano attivi invece i profili di Twitter.

Facebook ha subito spiegato

"Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia".  Secondo un portavoce del social network, "gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram"

La società spiega che da sempre Facebook caccia individui o organizzazioni che incitano all'odio e alla violenza o che sono coinvolti in azioni violente. Questo indipendentemente dall'ideologia o dalla motivazione. E lo fa dopo un lungo processo dove si considerano una serie di segnali. In particolare si accerta se certe organizzazioni o soggetti hanno promosso o esercitato direttamente violenze sulla base di fattori come la razza, l'etnia, la personalità.

Facebook controlla se questi gruppi si autodefiniscono o si identificano come seguaci di un'ideologia di odio. E se usano discorsi di odio o insulti nella loro sezione 'Informazioni su Facebook, Instagram o su un altro social media. E infine nel giudizio pesa anche se se hanno gestito pagine o gruppi che sono stati rimossi da Facebook o account rimossi da Instagram, per aver pubblicato contenuti che non rispettano le policy contro l'incitamento all'odio dell'azienda.

In base a questi principi, a maggio erano state 'bannate' le seguenti organizzazioni: Generation Identify (Pan-Euro), Inferno Cottbus 99 (Germania), Varese Skinheads (Italia), Ultras Sette Laghi (Italia), Black Storm Division (Italia), Rivolta Nazionale (Italia), Scrofa Division (Olanda), Chelsea Headhunters (Gran Bretagna), White Front (Bulgaria), Boris Lelay (Francia), Beke Istvan Attila (Ungheria), Szocs Zoltan (Ungheria) e Varg Vikernes (Norvegia).

Le reazioni dei "bannati"

"Ci cancellano perché eravamo in piazza contro il governo, reagisce CasaPound. Siamo di fronte ad un attacco discriminatorio dal parte dei colossi del web" dice. "Si tratta di un attacco senza precedenti. Siamo schifati", attacca Gianluca Iannone. "Stanno chiudendo tutti i profili, provinciali, regionali, nazionali e quelli ufficiali, sia del movimento che del blocco studentesco, spiega Iannone. Stanno arrivando le notifiche a tutti, anche ai responsabili del Primato Nazionale (il quotidiano del movimento, ndr). Una situazione che rispecchia la situazione attuale del governo della poltrona. Intenteremo una class action urgente contro un atto di una prevaricazione vergognosa"

Secondo, Simone Di Stefano, segretario di CasaPound, si tratta di "un abuso, commesso da una multinazionale privata in spregio alla legge italiana. Uno sputo in faccia alla democrazia. Un abuso commesso in un giorno simbolico. Un segnale chiaro di censura che per ora colpisce noi, ma indirizzato a tutta l'opposizione al governo PD-5Stelle. Questo è solo l'inizio, chissà di cosa saranno capaci"

"La Polizia politica di Zuckerberg vuole impedire che ci sia opposizione al governo di estrema sinistra e Bruxelles. Sintomatico che una cosa di questo genere accada il primo giorno di governo: tutto assolutamente pretestuoso, considerato che non c'è alcun casus belli", commenta il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore.

In mattina CasaPound aveva partecipato alla manifestazione contro la nascita del nuovo governo: "Sono in piazza anche io. Non è il momento di dividere, ma di unire. E costruire con ogni mezzo una rivolta popolare, culturale e democratica a questo osceno governo di usurpatori, aveva scritto Simone Di Stefano. Dobbiamo portare i nostri temi e le nostre idee, perché questa opposizione ha bisogno di un'anima e di una visione chiara dello Stato e della Nazione che vogliamo. Non solo immigrazione e tasse, ma anche la casa, il lavoro, i figli, i salari, lo Stato Sociale devono essere al centro di questa visione"

Scelta coraggiosa di Facebook che prende una decisione senza precedenti

"CasaPound azzerata sui social. Bloccati i profili su #Facebook e #Instagram. Che succede? È un fatto molto pesante, non può essere un caso, all'origine del quale devono esserci ragioni gravi. Vogliamo capire", commenta a caldo in un tweet Emanuele Fiano, esponente del Pd, da sempre impegnato contro le organizzazione di estrema destra e padre di un disegno di legge contro l'apologia del fascismo. E la stessa domanda la pone anche Alessia Morani, altra deputata DEM.

"Bene Facebook. Un altro passo verso l'archiviazione della stagione dell'odio organizzato sui social network", scrive sul social l'ex Presidente della Camera, Laura Boldrini.

"Per la prima volta @facebook e @instagram chiudono decine di pagine e profili di #CasaPound. Chi sparge odio e violenza non ha più campo libero sui social network. Adesso andiamo avanti con una normativa complessiva di prevenzione e sanzione dei linguaggi d'odio sul web", aggiunge Valeria Fedeli su Twitter. E il capogruppo DEM al Senato Andrea Marcucci conclude: "L'apologia di fascismo è un reato anche sui social. Chissà magari ora se ne accorge anche Salvini". Interviene anche il segretario PD Nicola Zingaretti: "Quella di Facebook è una motivazione esemplare a sostegno di una scelta giusta e coraggiosa. Dobbiamo condividere e diffondere queste parole importanti per mettere fine alla stagione dell'odio. Ci sono persone che se vincessero negherebbero ad altre persone il diritto di esistere. Non bisogna mai dimenticarlo"

"Da tempo l'Anpi denuncia anche con esposti alla magistratura il dilagare sui social della brutalità nazifascista, dice Carla Nespolo, presidente nazionale dell'Associazione nazionale partigiani. Siamo dunque molto contenti di questa notizia: i social non devono essere un luogo in cui sia consentita la violazione della Costituzione che, ricordo, è antifascista"

Noi di Foundation for Africa diciamo semplicemente che finalmente le nostre "preghiere" sono state esaudite. Via dai social chi diffonde odio, discriminazione e razzismo.


Una svolta epocale non priva di incognite

Fuori da Facebook e Instagram chi diffonde odio. Impossibile non essere sollevati davanti a questa svolta epocale dei social di Mark Zuckerberg. Per i neofascisti di Casa Pound e Forza Nuova, che sono stati colpiti dal provvedimento («non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram»), è un atto illiberale. Una censura politica. Per tutti gli altri, un’azione meritoria. La parte più importante, però, viene adesso.

Sulla vicenda pesano infatti alcune domande non da poco: Facebook e Instagram saranno altrettanto severi con certi siti «d’informazione» che pubblicano notizie spesso false al solo scopo di diffondere odio, ma non sono riconducibili ad una forza politica? E cosa accadrà alle pagine e ai profili diametralmente opposti a Casa Pound e Forza Nuova che attaccano e diffondono odio verso chi non la pensa come loro? Secondo un portavoce di Facebook, la regola che li ha portati a questa scelta epocale è la seguente: «Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram».

Benissimo. Ma se la prima parte della frase è chiara («non trova posto chi diffonde odio»), la seconda è un po’ sibillina («e chi attacca gli altri sulla base di chi sono»). Così sibillina da potere essere paradossalmente usata un giorno anche per bloccare voci scomode, comprese alcune che gravitano attorno al mondo cattolico.

Noi vogliamo solo pensare che chiunque usa un social network, qualunque social network, per diffondere odio e discriminazione sulla base della razza, della religione, del sesso, diffonda violenza, integralismo religioso o politico, o lo usi per diffondere notizie false, sia sempre e comunque "bannato"

In Italia il "Fascismo" non è un'opinione, è un REATO. È scritto nella Costituzione


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venerdì 6 settembre 2019

È morto Robert Mugabe, da rivoluzionario liberatore dello Zimbabwe a feroce dittatore

Ha portato il suo paese al fallimento economico e sociale mentre lui, la sua famiglia e il suo entourage hanno accumulato ricchezze immense.

L’ex presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe è morto a Singapore all’età di 95 anni. Per 37 anni aveva gestito in modo quasi assoluto il potere. Si era dimesso nel 2017 dopo un colpo di Stato guidato dall’esercito.



Mugabe nacque il 21 febbraio del 1924 a Harare, nell’allora Rhodesia del Sud. Laureatosi in Scienze politiche in Sudafrica, dove entrò in contatto con le idee marxiste, dopo aver fatto parte del Partito nazional-democratico (Ndp), che in seguito divenne Unione popolare africana dello Zimbabwe (Zapu), nel 1963 ne uscì per aderire all’Unione nazionale africana dello Zimbabwe (Zanu), di cui divenne segretario.

Nel 1964 venne arrestato e condannato a dieci anni di carcere a causa delle sue posizioni in favore della lotta armata per ottenere l’indipendenza del Paese. Dopo essere stato liberato, nel 1976 si rifugiò in Mozambico, dove assunse anche la guida dell’ala paramilitare della Zanu. Nel 1976 Zanu e Zapu si unirono e costituirono il Fronte patriottico (Pf).

Dopo anni di lotta armata, nel 1979 iniziarono negoziati tra il Pf e i leader della Rhodesia del Sud, che portarono nel 1980 all’indipendenza del Paese, che venne rinominato Zimbabwe. Alla festa per l'indipendenza dello Zimbabwe volle essere presente anche Bob Marley, fu infatti l'ultimo paese africano ad ottenerla.

Nella Rhodesia del Sud (ora Zimbabwe) fin dai primi anni '60 si creò un potere di ex-coloni bianchi che instaurarono un regime di apartheid ancora più rigido di quello allora in vigore in Sudafrica, ed è anche per questo motivo che il raggiungimento dell'indipendenza e la cacciata del governo dei bianchi fu festeggiata come una vera e propria liberazione.

Mugabe divenne primo ministro, mentre il primo presidente fu Canaan Banana. Nel 1987 venne abolita la figura del primo ministro e Mugabe divenne presidente, carica che mantenne fino al 2017.

Gli anni della sua lunga presidenza furono molto controversi e Mugabe fu accusato di repressione del dissenso, corruzione, persecuzione delle minoranze etniche, appropriazione personale degli aiuti internazionali e violazioni dei diritti umani. Controversa fu la sua riforma agraria che, espropriando le terre ai "farmer bianchi", mise in ginocchio l’economia nazionale.

Lasciò un paese in ginocchio. A causa dell'iperinflazione nel 2015 fu perfino abolita la moneta nazionale e tutti gli scambi avvenivano in dollari USA o in rand sudafricani, e una situazione sociale disastrata, tutto questo nonostante il paese sia ricco di risorse naturali.

Durante gli anni della sua presidenza accumulò per se e per la sua famiglia ricchezze immense che, al momento della sua destituzione (2017), furono oggetto di negoziazione in cambio di una transizione pacifica dei poteri.

Dopo la sua destituzione, grazie a un accordo con i militari autori del colpo di Stato, ottenne l’immunità per sé e per la moglie Grace, che per diverso tempo era stata la principale candidata a diventare nuova presidente dello Zimbabwe. Negli ultimi mesi era molto malato, e dallo scorso aprile era ricoverato in un ospedale di Singapore.

Il record di Mugabe. È stato il più anziano capo di stato in carica. Nel 2017, quando lasciò il potere, aveva 93 anni. Per tutto il resto è solo un capo di stato da dimenticare.




Articolo a cura di
Maris Davis


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giovedì 5 settembre 2019

L'Africa brucia molto di più dell'Amazzonia, ma nessuno ne parla

L’Africa è in fiamme, più dell’Amazzonia, 10.000 incendi tra Angola e Congo. Le terre arse nel continente africano rappresentano quasi il 70% dell’area bruciata del mondo.


Brucia l’Amazzonia e lo sappiamo ormai tutti. Ma ciò che abbiamo ignorato fino a oggi è che anche l’Africa è in fiamme. E da più tempo.

Congo e Angola, infatti, sono interessati da vasti incendi almeno da metà luglio. I peggiori incendi degli ultimi 15 anni, dicono gli esperti. Una catastrofe rimasta a lungo sotto traccia, a differenza di quella brasiliana, e che forse ora, spinta dai fuochi amazzonici, arriva al centro del dibattito politico.

Dai satelliti della NASA si evidenzia come il fumo sul continente africano sia visibile da molti giorni prima rispetto a quello prodotto dagli incendi in Amazzonia.

Una tragedia dimenticata, fino a oggi: “Seguiamo con molta attenzione quello che sta succedendo in Africa, aveva detto al G7 il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, e abbiamo avuto uno scambio con l’Unione africana e altri Paesi. La foresta brucia anche in Africa, in Congo. Stiamo esaminando la possibilità di lanciare un’iniziativa similare (a quella proposta per il Brasile, ndr) anche in Africa

Tra giovedì e venerdì della scorsa settimana, per esempio, solo l’Angola ha registrato 6902 incendi, la Repubblica Democratica del Congo 3395, mentre il Brasile “solo” 2127. Anche stando alle rilevazioni di Copernicus (il programma europeo di osservazione della Terra) attualmente è la regione centrafricana a registrare la maggior parte di incendi di biomasse nel mondo.

Gli incendi nell’Africa sub-sahariana rappresentano circa il 70% dell’area bruciata di tutto il mondo e la causa di questi incendi, come per l’Amazzonia, è riconducibile alle attività agricole e zootecniche, in particolare all’utilizzo della tecnica "taglia e brucia" con gli agricoltori centrafricani che utilizzano il fuoco per ripulire vaste distese di foreste o savane, rigenerare pascoli e bruciare gli scarti delle terre coltivate per prepararsi alla prossima stagione.

Gli occhi del mondo sono puntati sull’Amazzonia che brucia. Intanto, in Africa, almeno il 10% dei fuochi appiccati dai contadini che usano la tecnica del debbio, ovvero il taglia e brucia, sono diventati incontrollabili: quest’estate più di 10.000 incendi stanno distruggendo l’immensa foresta pluviale che attraversa l’Angola, lo Zambia e il sud della Repubblica democratica del Congo. Gli incendi in Brasile, in confronto, sono “appena2.127.

Foto Nasa. In Africa il 70% di tutte le terre bruciate del Pianeta

Agricoltura ancestrale e cambiamento climatico

Le terre arse nel continente africano rappresentano quasi il 70% dell’area bruciata del mondo. La causa principale è riconducibile a pratiche agricole e zootecniche primordiali. Contadini e pastori bruciano la vegetazione per ripulire e fertilizzare savana e foreste. Una tecnica antica che, in Costa d’Avorio ad esempio, ha portato alla perdita di tutta la parte boschiva al centro del Paese.

Lo sviluppo dell’agricoltura africana, mai avvenuto, consegna il settore primario alla semplice sussistenza delle persone: dalla mattina alla sera, uomini e donne con solo una zappa come strumento, rassodano la terra, piantano e raccolgono. Dopodiché, prima che inizi la stagione delle piogge, i campi vengono bruciati affinché la cenere fertilizzi il terreno privato dei nutrienti.

Foto Nasa. Brucia la foresta pluviale dell'Africa Sub-Sahariana

Un circolo vizioso dal quale non si riesce a uscire. Bruciare è più economico di qualsiasi altra soluzione per ripristinare i campi. E poi c’è il problema del cambiamento climatico: disastri ambientali e periodi di siccità più frequenti stanno rosicando la disponibilità di terre fertili.

Per questo subentra il bisogno di incendiare le foreste, per avere nuovi spazi coltivabili. Ma il disfarsi delle aree boschive e l’anidride carbonica liberata nell’atmosfera non fanno altro che accelerare quel cambiamento climatico di cui tanto si discute e poco si fa. Un circolo vizioso, appunto.

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Rwanda, 25 anni dopo il genocidio. Così le donne hanno cambiato il paese

Oggi in parlamento gli uomini sono in minoranza. Dopo le stragi del 1994 le donne sono state protagoniste di un vero e proprio cambiamento culturale.


Il Rwanda è una delle nazioni più povere sulla terra e solo fino a pochi anni fa alle donne venivano negati i diritti fondamentali.

Poi, nel 1994, tutto è cambiato. La maggior parte degli uomini sono stati uccisi e le donne sono rimaste sole. Ma non si sono né spaventate né fermate. Hanno preso in mano il paese e a loro si deve la sua rinascita.

Un po' di Storia

L’Africa Sub-Sahariana è l’area del pianeta che meno ha potuto approfittare delle opportunità offerte dalle trasformazioni economiche di fine Novecento. Povertà crescente, una drammatica situazione sanitaria e la cronica debolezza delle strutture statali post decolonizzazione. Una lunga serie di colpi di Stato e guerre civili ha fatto del paese delle mille colline il teatro del più grande massacro etnico dopo l’Olocausto.

Era il 6 aprile di 25 anni fa. Niente armi sofisticate o aviazione. Per le atrocità peggiori bastarono machete e fucili, imbracciati dai giovani miliziani dell’Mrdn, il partito Hutu. Uno scontro etnico e sociale tra i più sanguinosi della storia, che ebbe ripercussioni ben oltre i confini naturali del paese. Il numero delle vittime, la maggior parte Tutsi, si aggirò intorno agli 800mila in soli 100 giorni. Migliaia di morti anche tra gli Hutu, uccisi dal partito Tutsi, l’Rpf o perché contrari ai massacri.


Paul Kagame

In quei 100 giorni di sangue molti erano fuggiti nella vicina Uganda, dove l’Rpf, il cui capo era Paul Kagame, si stava organizzando per riprendersi il paese. Da allora a guidare il Rwanda è lui. Un vero e proprio regime autoritario che potrebbe durare ancora a lungo, secondo quanto stabilito da una modifica della Costituzione nel 2015.

Da quando Kagame è al potere, però, il piccolo Rwanda ha raggiunto importanti traguardi. Un paese stabile che lavora per sanare le ferite tra Hutu e Tutsi per una convivenza pacifica, il suo sviluppo economico-tecnologico è in crescita e i tassi di povertà si abbassano sempre di più. Un cambio consistente che ha come protagonista le donne.

Divario di genere

Prendiamo la questione del divario salariale. Seppur diverso in tutto il mondo a seconda di come lo si misura, ovunque le donne vengono pagate molto meno degli uomini. Chiudere il divario sembra difficile ma non impossibile, molto vicino ci sta andando proprio il Rwanda.

Prima del genocidio le donne non potevano parlare in pubblico o aprire un conto in banca senza l’autorizzazione dei mariti, le capanne avevano un’entrata separata per le donne che portava direttamente alla cucina, un chiaro indicatore che quello era il loro posto. Ovviamente non avevano alcun diritto sulle finanze familiari e quello che guadagnavano doveva essere consegnato ai mariti.

Dopo le violenze e le centinaia di migliaia di morti, la popolazione del Rwanda era composta per il 65 per cento da donne. Di loro, secondo le stime Onu, 250mila erano state vittime di stupro e i bambini nati da questi si aggirano tra i 5mila e i 20mila.

Nonostante il trauma, molte di queste donne trovarono la forza di testimoniare al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda ad Arusha in Tanzania. Per la prima volta lo stupro, considerato prima di allora alla stregua del furto di una vacca, venne riconosciuto come arma di guerra e crimine contro l’umanità. Il paese aveva completamente mutato la sua struttura sociale.

A causa della mancanza di uomini le donne entrarono in massa nel mondo del lavoro, accedendo per la prima volta a lavori che prima per loro erano proibiti. Si aprirono le porte dell’istruzione e il numero delle bambine iscritte alla primaria e secondaria raggiunse presto quello dei bambini. Le donne cominciarono a entrare in polizia, nell'esercito, poi divennero sindaci o governatrici.

Nel 1999 venne riconosciuto loro il diritto all'eredità. Stavano cambiando il paese. Il governo capì che le donne erano necessarie per la ricostruzione del Rwanda e implementarono nuove politiche per agevolarle al potere.

Verba volant, scripta manent. E così nel preambolo della nuova Costituzione, emanata nel 2003 venne messa nero su bianco la parità di diritti tra uomini e donne, fissando al 30 per cento la rappresentanza a tutti i livelli di governo che spettava alle donne. La Costituzione ha anche creato la posizione di “controllo dei generi” a garanzia della conformità dei programmi pubblici rispetto agli obiettivi del paese in tema di uguaglianza e pari opportunità.


Il Rwanda delle donne

Il 2008 fu l’anno della svolta. Il Rwanda fu il primo paese al mondo ad avere un parlamento a maggioranza femminile con una percentuale del 56 per cento. Record confermato e cresciuto al 64 per cento nel 2013, come riportato dall’Inter- Parliamentary Union. Si tratta della percentuale più alta al mondo, mentre quella della partecipazione nella forza lavoro è dell’88 per cento. Stessa percentuale per quanto riguarda il reddito che le donne portano a casa, sono loro, infatti, a mantenere le famiglie.

Secondo alcuni studi sulla violenza di genere, maggiore è la differenza tra il salario di moglie e marito, maggiore è la possibilità che le donne siano vittime di violenza. Nonostante ciò, il caso del Rwanda è curioso perché, secondo un rapporto del governo, una donna su due ha subito violenza. Un dato inaccettabile e così, sempre nel 2008, le deputate rwandesi hanno dimostrato la loro forza proponendo una legge che prevenisse e punisse la violenza sessuale e di genere.

Entrata in vigore nel 2011, questa legge è stata fondamentale nella costruzione di un’articolata struttura a tutela e promozione dei diritti delle donne. Venne creato un ministero apposito, un ufficio responsabile del rispetto dell’uguaglianza di genere all'interno della polizia e dell’esercito e poi i “Isange-One Stop Centre”, centri dotati di personale di polizia, medico e giudiziario, che possano fornire i servizi necessari alle vittime di violenze sessuali più rapidamente possibile.

Il Rwanda è uno dei pochi paesi nel mondo in cui una donna ha le stesse probabilità di un uomo di lavorare fuori casa, sesto, secondo la classifica del "Global Gender Gap Index 2018" stilato dal World Economic Forum, ad aver ridotto il divario di genere. Il Global Gender Gap è stato introdotto per la prima volta dal World Economic Forum nel 2006 per fornire un quadro della disparità di genere nel mondo e poterne seguire i progressi nel tempo.

Global Gender Gap Index 2018

L’edizione di quest’anno mette a confronto 149 paesi su una scala da 0 (disparità) a 1 (parità) attraverso quattro dimensioni tematiche, i sotto indici di: partecipazione economica e opportunità, educazione, salute e sopravvivenza, empowerment politico. Il punteggio generale è pari al 68 per cento, questo vuol dire che c’è ancora un gap del 32 per cento da chiudere. Il divario è ancora ampio nella maggior parte dei 149 paesi, nessuno ha raggiunto la piena parità, solo i primi sette hanno chiuso fino all'80 per cento del gap. 

Nella top ten ci sono Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, Nicaragua, Rwanda, Nuova Zelanda, Filippine, Irlanda e Namibia. Un risultato pazzesco, ancor di più se lo paragoniamo all'Italia che si posiziona solo 70° posto, a metà classifica.

L’Africa Sub-Sahariana, con un divario di genere medio del 33,7 per cento, è caratterizzata da un’alta partecipazione femminile nella forza lavoro. La costante crescita del Rwanda che negli anni precedenti aveva raggiunto fino al quarto posto nella classifica mondiale, si è fermata per la prima volta, scendendo appunto di due posizioni. La causa è un aumento del divario di genere nell'indice di partecipazione economica e opportunità, che comporta un calo della presenza delle donne e di parità salariale in lavori professionali e tecnici.

Nonostante ciò, il Rwanda mantiene forti prestazioni per quanto riguarda l’empowerment politico, rimanendo il paese con la più alta percentuale al mondo di donne parlamentari e una quasi parità in posizioni ministeriali. A partire da quest’anno, il Rwanda ha chiuso oltre l’80 per cento del suo divario di genere, il secondo valore più alto registrato dall'indice. Un cambiamento culturale, cominciato come meccanismo di sopravvivenza dopo il genocidio ma che grazie a politiche mirate ha permesso al paese di avvicinarsi sempre di più alla chiusura del divario di genere.

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Articolo di
Maris Davis


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