sabato 24 agosto 2019

L'Amazzonia in fiamme. L'uomo che distrugge se stesso

Il presidente del Brasile, Bolsonaro: «Non ho risorse per spegnerla». Durante il suo mandato la deforestazione si è impennata. Il polmone verde della terra brucia al ritmo di tre campi da calcio al minuto.

foto Nasa

L’Amazzonia, polmone del mondo, produce il 20% dell’ossigeno nell’atmosfera, è in fiamme. Da 17 giorni, mostrano i satelliti, il fuoco avanza al ritmo di tre campi da calcio al minuto.

Le immagini di cieli neri di fumo a Sao Paulo e Curitiba, distanti centinaia di km dalla foresta, si propagano sui social e in tv, spinte anche dalla mobilitazione delle star, da Ricky Martin a Greta Thunberg, e del Papa, che all’Amazzonia ha dedicato un «sinodo d’urgenza» a ottobre.

Il ruolo di Bolsonaro

«Non ho le risorse per spegnere tutti questi fuochi», ha commentato ieri il presidente ultra-populista del Brasile Jair Bolsonaro, le cui politiche ambientali sono collegate al picco di incendi di questi giorni: ha ridotto i vincoli alla deforestazione a favore di allevatori e agricoltori, affamati di terra (e soprattutto di pascoli, per soddisfare la crescente domanda di carne bovina della Cina, tra i principali mercati dove il Brasile la esporta).

Dall’inizio del suo mandato (è presidente da gennaio) in tutto il Paese si sono verificati 74 mila incendi. Più di metà in Amazzonia.



Gli incendi

Proprio gli incendi (illegali) della stagione secca, le queimadas, sono uno dei mezzi che i contadini hanno per sottrarre terra alla foresta. La Folha de Sao Paulo riporta che nello stato amazzonico del Parà le associazioni dei coltivatori hanno indetto per la prima volta un Dia do fogo, fra il 10 e l’11 agosto, sentendosi forti della tolleranza governativa. Vi sono stati registrati circa 700 incendi, sei volte tanto lo scorso anno.

I numeri

Nei sette mesi del mandato di Bolsonaro le immagini satellitari dell’Inpe, l’agenzia spaziale brasiliana, hanno mostrato che l’Amazzonia ha perso 3.500 km quadrati di alberi: è il 39% in più del 2018. A giugno sono bruciati 920 km quadrati, l’88% in più dell’anno scorso; a luglio 1000 km quadrati, il 68% in più. Ai primi di agosto, dopo che questi dati sono stati resi pubblici, Bolsonaro, che in linea coi «colleghi» dell’internazionale sovranista li liquida come «bufale», ha licenziato il presidente dell’Inpe, il «disfattista» Ricardo Galvão.

Sovranismo e Amazzonia

Allarmate, Norvegia e Germania hanno congelato 65 milioni destinati al fondo brasiliano contro la deforestazione. «L’Amazzonia è nostra, non vostra», ha risposto Bolsonaro, riandando a un suo leitmotiv tra i più consueti, e cioè che l’Amazzonia rischi di venire «internazionalizzata», e che il «primo mondo» se ne spartisca ricchezze e sovranità.

«La Norvegia, che uccide le balene, dia quei soldi a Merkel per riforestare la Germania». E attribuisce colpe «che non so documentare, sono sensazioni» alle Ong ambientaliste. «Col mio governo hanno perso soldi, e vogliono attirare critiche sul Brasile»

La mobilitazione

Le critiche in realtà non mancano. Sui social hashtag come #prayforAmazonia raccolgono centinaia di migliaia di menzioni, corredati talvolta di foto false, lo è, ad esempio, la foto postata da Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, un incendio di anni fa, e indignati perché, a differenza che per Notre Dame, non ci sono ancora raccolte di fondi. Twittano Gisele Bündchen, Kendall Jenner, Adriana Lima, Greta Thunberg dall’oceano.

Il Sinodo

È un «sinodo d’urgenza», ed è «figlio dell’enciclica Laudato sii», quello convocato per ottobre da Papa Francesco, che sarà dedicato all’Amazzonia.

Nel documento preparatorio si parla di una Chiesa che dev’essere «ospedale da campo» dell’Amazzonia e di «ecoparrocchie»; Francesco però avverte anche che «i vescovi non sono scienziati», e che si parlerà soprattutto di «missione evangelizzatrice» delle popolazioni indigene, dimenticate dal governo.
Corriere della Sera



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mercoledì 14 agosto 2019

Il Tar del Lazio sospende il divieto di ingresso in acque italiane. La Open Arms si dirige verso Lampedusa

Decreto sicurezza. Il Tar del Lazio ha sospeso il divieto di ingresso in acque italiane. La Open Arms si sta dirigendo verso Lampedusa. Salvini annuncia ricorso "Non li farò sbarcare"


Braccio di ferro anche con Conte che aveva chiesto di far sbarcare i minori. Il Viminale preannuncia ricorso urgente al Consiglio di Stato e un nuovo provvedimento di interdizione.

Sono ore di grande tensione al largo di Lampedusa dove la Open Arms con 147 persone a bordo si sta dirigendo mentre il ministro dell'Interno Matteo Salvini è impegnato in un doppio braccio di ferro: con il Tar che questa mattina ha disposto la sospensione del divieto di ingresso in acque italiane della nave spagnola per consentire il soccorso dei migranti, e con il premier Conte che gli aveva già chiesto di far sbarcare i minori.

Salvini annuncia ricorso urgente al Consiglio di Stato e la firma di un nuovo provvedimento di interdizione sostenendo che "Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l'obiettivo politico di portarle in Italia"

Siamo alle solite, la narrazione salviniana continua a far passare il messaggio (quello si criminale) secondo il quale le ONG che salvano vite umane non sono altro che trafficanti di esseri umani. Mentre i veri "trafficanti" restano impuniti, e continuano ad agire indisturbati, sia in Libia che in Italia.

"Sospensione del divieto di ingresso in acque territoriali italiane per permettere il soccorso delle persone a bordo"

Con una decisione senza precedenti il Tar del Lazio interviene per sbloccare la situazione della Open Arms ferma in mare da quattordici giorni e con il divieto di ingresso in acque italiane firmato dai ministri Salvini, Trenta e Toninelli sulla scorta del decreto sicurezza bis. A darne notizia è la stessa Open Arms che ieri aveva presentato un esposto d'urgenza al Tar e che ora si sta dirigendo verso Lampedusa. Salvini da Recco, da dove prosegue la sua campagna elettorale, annuncia: "Io ancora nelle prossime ore firmerò il mio no perché complice dei trafficanti umani non lo sarò mai"

Salvini aveva già annunciato il suo "no" anche alla richiesta del premier Conte che questa mattina gli aveva indirizzato una lettera, inviata anche ai ministri Toninelli e Trenta, per chiedere di far scendere i minori, ottemperando alla sollecitazione giunta due giorni fa dal Tribunale dei minori di Palermo. Rispettare le norme di legge che impongono di assistere e tutelare i minori l'invito contenuto nella lettera precisando che che la tutela dei minori è stata la bussola che ha orientato l'agire del governo anche nei casi analoghi accaduti in passato.

Open Arms
Secondo la Ong spagnola il Tar ha "riconosciuto la violazione delle norme di Diritto internazionale in materia di soccorso e la situazione di eccezionale gravità e urgenza dovuta alla permanenza protratta in mare dei naufraghi"

Nelle motivazioni del provvedimento, il Tar ritiene che "sussista alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concezione della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l'ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane e quindi di prestare l'immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici"

Sulle due navi cominciano a registrarsi le prime tensioni, soprattutto sulla Open Arms al quattordicesimo giorno di attesa in mare. "I 19 membri dell'equipaggio faticano a contenere i contrasti che nascono sul cibo, su posti all'ombra o al sole, per la fila verso i bagni, due in uno spazio complessivo di 180 metri quadri, e molti non possono chiamare i propri cari a casa. Altri hanno cominciato uno sciopero della fame. Il quadro è destinato a deflagrare in una esplosione di violenza e ciò trasformerebbe il tutto in una tragedia"

Appello anche dalla Ocean Viking in avvicinamento verso Italia e Malta. "Le condizioni meteo sono deteriorate, con aumento delle onde previsto nelle prossime 24 ore. Le persone a bordo soffrono di mal di mare. Rimanere in mare mentre le persone soffrono non può essere la soluzione. Dovrebbero essere sbarcate al più presto in un luogo sicuro"
(La Repubblica)

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giovedì 8 agosto 2019

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Siccità, cicloni, recessione e tensioni politiche. Ora un rapporto dell’ONU avverte: il paese nell'Africa Orientale può resistere al massimo fino a marzo.



Circa un terzo degli abitanti dello Zimbabwe, 5 milioni di persone, ha bisogno di aiuti alimentari a causa di una devastante siccità e dalla crisi economica. È l'allarme lanciato dal WFP, il Programma alimentare mondiale, che ha aperto una raccolta fondi per 295 milioni di euro. Dichiarata la siccità disastro nazionale.

Più di cinque milioni di persone nello Zimbabwe, pari a circa un terzo della popolazione, hanno bisogno di aiuti alimentari e molti sono già allo stremo, afferma l'ONU nel suo rapporto.

Il World Food Program (WFP) calcola che servirebbero almeno 330 milioni di dollari subito e il suo rappresentate David Beasley dichiara alla BBC che la situazione può solo peggiorare perché la siccità di quest’anno è stata particolarmente impietosa e il raccolto di mais è già del tutto compromesso. Si stima che entro marzo metà del Paese sarà letteralmente alla fame.

La siccità ha provocato effetti gravi anche all'impianto idroelettrico di Kariba, fonte primaria di energia per la povera nazione africana, innescando interruzioni di corrente in tutto il Paese.

I problemi dello Zimbabwe erano stati evidenziati quando il ciclone Idai aveva attraversato la regione all'inizio di quest'anno. L'enorme tempesta, che aveva colpito anche parti del Malawi e del Mozambico, ha lasciato decine di migliaia zimbawesi senza tetto.

La scorsa settimana il ministro delle finanze Mthuli Ncube ha dichiarato che il governo ha fornito grano a 757.000 case dall'inizio dell’anno e il Presidente Emmerson Mnangagwa, succeduto nel novembre 2017 alla lunga era di Robert Mugabe, ha dichiarato la siccità un disastro nazionale. Le Nazioni Unite stanno facendo appello per finanziamenti e sostegno alla regione ma la stima dei fondi necessari è in continua crescita.

Non solo catastrofi naturali
Ricordiamo che le disgrazie dello Zimbabwe non sono imputabili esclusivamente a cause naturali, il lungo periodo del Governo Mugabe aveva lasciato il Paese già in condizioni molto critiche. Dagli anni novanta a oggi, il suo regime era entrato in conflitto con la minoranza bianca e gli oppositori del MDC (Movement for the Democratic Change). Buona parte dei bianchi hanno quindi deciso di emigrare, privando così il Paese del loro peso economico e impoverendone la struttura. Ne sono conseguite penuria di generi alimentari e spaventosa inflazione.

Dal 2015 lo Zimbawe ha addirittura ritirato dalla circolazione la propria moneta, il Dollaro Zimbawese, ormai svalutato. Ora le monete correnti sono di fatto il Dollaro USA e il Rand sudafricano. L’ultimo cambio teorico era fissato a 250 mila miliardi di dollari zimbawesi per un dollaro americano. Oggi un cambio ufficiale neppure esiste più.

Il tentativo del governo, ad inizio anno, di emettere una nuova moneta propria (il dollaro RTGS, Real time gross transfer dollars) e di vietare la circolazione di monete straniere per tenere sotto controllo i prezzi e l'economia di mercato è già miseramente fallito.

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Sud Sudan. Juba il nuovo centro per il commercio dei migranti

La capitale sud-sudanese sta diventando un hub di rilievo per il traffico di migranti, favorito da un radicato sistema di corruzione e dal disfacimento del sistema legislativo e istituzionale, dopo più di cinque anni di conflitto civile.


Non solo il Sudan, crocevia storico della rotta migratoria dall'Africa orientale, ora anche Juba sta diventando un importante hub per il traffico di persone. Lo sostiene il rapporto “Disarticolare le finanze di reti criminali responsabili per il contrabbando e il traffico di esseri umani” (Disrupting the finances of criminal networks responsible for human smuggling and trafficking) preparato per l’organizzazione per lo sviluppo regionale IGAD (Inter-governmental authority on development) e l’Interpol da un consorzio di organizzazioni e centri di ricerca universitari (Research and evidence facility) e finanziato dal Fondo fiduciario europeo di emergenza per l’Africa (Trust Fund) che ha l’obiettivo di regolamentare le migrazioni verso il continente.

Nel rapporto si afferma che le reti di trafficanti di esseri umani stanno traendo grande vantaggio dalla crisi sud sudanese e stanno facendo di Juba un hub per i loro sporchi affari. A causa della guerra civile scoppiata nel 2013, dopo appena due anni e mezzo dall'indipendenza, il corpo legislativo del paese è rimasto carente in molti settori. Inoltre è debolissima la capacità, e la volontà, di far rispettare le leggi esistenti, mentre la corruzione tra i funzionari governativi è rampante.

Per di più, la popolazione ha perso gran parte delle fonti di sostentamento, le reti familiari e sociali di supporto e può contare in modo molto limitato sulla protezione delle istituzioni e della legge. Questo genere di situazione è terreno fertilissimo per i trafficanti che possono agire quasi indisturbati, anche perché il prevalere di enormi problemi sociali interni tende a convogliare tutta l’attenzione delle istituzioni nazionali ed internazionali.

Secondo il rapporto le reti di trafficanti più attive nel paese sono gestite da somali e pescano tra i migranti presenti, provenienti in grandissima maggioranza dai paesi del Corno e dell’Africa orientale. Secondo stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni risalenti al 2017, i migranti presenti in Sud Sudan sarebbero 845mila. Moltissimi di loro sono irregolari.

L’emergere del problema è testimoniato anche dal forum tenutosi a Juba l’anno scorso, in occasione della giornata internazionale delle migrazioni, il 18 dicembre. La discussione si è svolta nel quadro di riferimento del Better migration management programme (Programma per una migliore gestione della migrazione), pure finanziato dal Trust Fund europeo e dalla cooperazione tedesca.

In quell'occasione Edmund Yakani, direttore dell’ong sud sudanese Cepo, ben conosciuta per il suo lavoro di advocacy, ha detto che il traffico di esseri umani è un problema reale in Sud Sudan, ma nessuno ne vuole parlare. E ha aggiunto che è necessario mettere in campo azioni continue ed efficaci per proteggere le persone più vulnerabili che più facilmente potrebbero cadere nelle mani dei trafficanti.

Ma il traffico può essere battuto. E già nel titolo si individua una strada, con ogni probabilità la strada maestra: intercettare i flussi finanziari illegali e con loro i responsabili delle transazioni. Si può pensare che Juba sia un porto particolarmente sicuro per i trafficanti, anche perché nel paese corrono fiumi di denaro frutto di attività illecite.

Basti pensare alla pervasiva corruzione ma anche alla facilità con cui si possono riciclare denari sporchi, investendoli in diversi settori chiave, quale quello immobiliare e del materiale da costruzione, o dell’importazione, più o meno legale, di carburante, tutti saldamente controllati proprio da somali.



Articolo a cura di
Maris Davis


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mercoledì 7 agosto 2019

Metaponto, incendio in un capannone di braccianti. Muore migrante nigeriana

Lo stabile è l'ex complesso industriale "La Felandina", che da anni ospita immigrati che lavorano come braccianti nei campi. La struttura era da tempo in condizioni precarie. Il sindaco: "Abbiamo da tre mesi una ordinanza di sgombero degli immobili, occupati da circa 500 persone, ma i tempi della burocrazia sono quelli che sono"


Della necessità di sgomberare al più presto il complesso industriale "La Feladina", ritenuto insicuro e malsano, era stato interessato anche il ministro dell'interno, ma da Salvini nessuna risposta. Forse il ministro "della sicurezza" preferisce occuparsi di altro, o magari preferisce sgomberare solo gli Sprar e i luoghi dove ci sono migranti che studiano e lavorano regolarmente, e avviati al percorso dell'integrazione.


Aveva 28 anni e due figli piccoli
È morta una migrante nigeriana in un incendio scoppiato in un capannone in provincia di Matera. Lo stabile è l’ex complesso industriale “La Felandina”, situato a Metaponto di Bernalda, che ospita stabilmente diversi immigrati che lavorano come braccianti nei campi della zona.

Hanno regolare permesso di soggiorno e lavorano nei campi della zona per pochi euro all'ora, quasi sempre sfruttati dai caporali 

Si tratta di una struttura in cui uomini e donne vivono da anni in condizioni precarie e nel quale le fiamme hanno iniziato a divampare nella mattinata di oggi per cause ancora da accertare, ma non si tratterebbe di rogo doloso. Una prima ipotesi è che l’incendio sia scaturito dall'esplosione di una delle bombole di gas presenti nel capannone. Il sindaco di Bernalda è intervenuto dicendo che da tre mesi è pronta un’ordinanza per lo sgombero dello stabile, per il cui stato l’amministrazione locale ha chiesto aiuto anche al governo.

La vittima è una donna nigeriana il cui corpo al momento non è ancora stato recuperato perché si trova in una posizione rischiosa a causa delle presenza di bombole di gas. I media locali riportano che le condizioni della struttura erano talmente malandate da far pensare che fosse “solo questione di tempo” prima che avvenisse qualche incidente, mentre sui social network gli utenti commentano l’accaduto riferendosi a “La Felandina” chiamandola “il ghetto

Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco, che hanno spento le fiamme nell'arco di 4 ore, mentre per ricostruire la dinamica dell’incidente sono state avviate delle indagini. Nel mentre i migranti sono stati radunati all'esterno della struttura in attesa di recuperare le proprie cose.

Il sindaco di Bernalda, Domenico Tataranno, ha commentato così la morte della donna: “Prima di tutto viene il dolore che è priorità in una situazione complessa come questa, legata a un problema mondiale come quello dei migranti, che è gestito in primis dagli amministratori locali con pochi mezzi e tanti problemi da affrontare

Abbiamo da tre mesi una ordinanza di sgombero degli immobili, occupati da circa 500 persone, ma i tempi della burocrazia sono quelli che sono. Occorre trovare delle alternative. Abbiamo scritto a tutti: al governo, alle istituzioni locali, ma il problema è ancora qui. Attendiamo anche che il Demanio, proprietario degli immobili, provveda a murare gli accessi ai capannoni della ex Felandina

Anche la Cgil Basilicata, tramite il suo segretario regionale, Angelo Summa, si è espressa sulla vicenda. “È inaccettabile che per la risoluzione di una questione aperta sul tema della sicurezza dei braccianti stranieri sul territorio lucano, si debba attendere il verificarsi dell’ennesima tragedia con la perdita di una vita umana”. Il sindacato ha quindi chiestoa Regione, Prefettura, Provincia di intervenire in coordinamento per attuare il già approvato e finanziato progetto di accoglienza nella provincia di Matera e in particolare nel Metapontino che permetterebbe di liberare il centro abusivo della Felandina e le relative condizioni disumane a cui sono sottoposti i lavoratori migranti, condizioni che hanno portato via una vita umana proprio questa mattina, nel terribile incendio. Inoltre chiediamo alla magistratura di fare luce sulle responsabilità di chi doveva vigilare e non ha fatto nulla per evitare la tragedia
(La Gazzetta del Mezzogiorno)


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