martedì 31 dicembre 2019

Buon Anno 2020

Buon Anno 2020
Diffondete la Speranza e coltivate l'Amore


"La Terra è un solo paese, siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero e fiori dello stesso giardino"

(dal messaggio della fratellanza)

Sognate in Grande
Pensate in Grande
AGITE in GRANDE
Sarà un 2020 bellissimo.

lunedì 9 dicembre 2019

Mali. Il "vietnam" dei francesi è nel Sahel che pensano a ritirare le truppe dopo l'uccisione di 13 militari

La morte di tredici soldati in un’operazione militare in Mali sta portando a un ripensamento dell’impiego delle forze armate di Parigi nel Sahel.


L'interventismo della Francia in Africa per difendere i suoi interessi nelle ex-colonie
La presenza dei militari francesi nelle ex-colonie è sempre stata massiccia e ingombrante. Una presenza diretta, ma anche indiretta attraverso missioni umanitarie internazionali, contingenti delle Nazioni Unite, forze di interposizione tra gruppi armati.

Fin dai tempi del Presidente Mitterand si difendono regimi totalitari come in Ciad, si interviene nella Repubblica Centrafricana dopo il colpo di Stato del 2013 per ripristinare lo stato di diritto, si è intervenuto in Niger per fermare il flusso dei migranti che dal Sahara meridionale si dirigono verso le coste del Mediterraneo, e si è intervenuto in Mali dopo gli attacchi dei gruppi armati jihadisti che avevano occupato il Mali settentrionale nel 2013. È intervenuta a gamba tesa in Libia nel 2011 per abbattere il regime di Gheddaffi che stava pensando di svincolare i paesi del Sahel dal giogo del franco CFA (moneta post-coloniale francese) con una nuova moneta del tutto autonoma.

I militari francesi sono morti a fine novembre nello schianto accidentale tra due elicotteri durante un blitz anti-jihad in Mali, non lontano dal confine con Niger e Burkina Faso. Questo nuovo dramma porta a 41 il numero soldati francesi morti dall'inizio della missione, nel 2013
La missione militare in Mali si sta trasformando in un Vietnam per la Francia. Durante un'operazione di “soccorso e messa in sicurezza”, secondo quanto riferito dallo stato maggiore della forze armate, tredici militari sono rimasti uccisi nello schianto tra due elicotteri. Il ministro della Difesa, Florence Parly, ha parlato di un incidente. La collisione tra i due mezzi, un Tigre e un Cougar, sarebbe dovuta alla cattiva visibilità nella zona.

Gli elicotteri volavano "a bassa quota" e "partecipavano a un'operazione di appoggio ai commando della forza Barkhane che erano entrati in contatto con gruppi armati terroristici” al confine tra Burkina Faso e Niger. Secondo la ricostruzione ufficiale da alcuni giorni i commando francesi erano impegnati sul campo e avevano intercettato un gruppo di terroristi, con moto e pickup.

Sono stati inviati dei rinforzi, gli elicotteri e una pattuglia di Mirage 2000. Il Cougar è intervenuto per coordinare le attività e garantire "l'estrazione immediata di un elemento a terra” mentre il Tigre, elicottero da combattimento, aveva una funzione di appoggio e messa in sicurezza. Ma verso le 19.40 del 25 novembre, ora di Parigi, c'è stato lo scontro fatale. Per l'esercito francese è il bilancio di vittime più grave dal 1983, quando morirono in due attentati cinquantottotto soldati.

Davanti ai deputati che hanno fatto un minuto di silenzio in onore ai caduti, il premier Edouard Philippe ha ribadito che la missione in Mali è “indispensabile” per la lotta al terrorismo nel Sahel, dove ci sono gruppi affiliati all’Isis. L'operazione “Barkhane” è stata lanciata nel 2014, in seguito all'operazione “Serval” servita a difendere il regime politico in Mali contro i ribelli.

La missione voluta all'epoca dal presidente socialista François Hollande mobilita 4500 soldati in una regione grande quanto l'Europa a cavallo tra Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania e Ciad. Con l’incidente di ieri i soldati francesi morti salgono a 46. La Francia sta combattendo la guerra più lunga e fatale degli ultimi decenni dovendo far fronte a una moltiplicarsi degli attacchi negli ultimi mesi.

Durante il G7 di Biarritz, Macron aveva sottolineato l’aggravarsi della situazione e aveva lanciato insieme ad Angela Merkel un appello per aumentare gli sforzi della comunità internazionale nella lotta al terrorismo nella regione del Sahel.

Parigi ci sta ripensando. In Francia si è aperto un dibattito
La morte di tredici soldati in un’operazione militare in Mali sta portando a un ripensamento dell’impiego delle forze armate di Parigi nel Sahel. Parlando al vertice della Nato che si è appena concluso vicino a Londra, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato che sarà avviato un ridimensionamento dell’operazione militare del suo Paese contro i militanti islamisti.

Attualmente, Parigi ha sul terreno 4.500 uomini, 260 veicoli pesanti, 360 veicoli logistici, 210 veicoli blindati leggeri. Dispone inoltre di un appoggio aereo di sette velivoli d’attacco Mirage 2000, di una decina di aerei di trasporto tattico e strategico e di tre droni. Questa forza, secondo il capo di Stato transalpino, è particolarmente gravosa in termini economici. Ma è anche molto rischiosa e mette a rischio molte vite umane. Per questo motivo Macron ha chiesto un maggiore sostegno internazionale alla missione (che la Francia sta guidando da cinque anni).

Macron ha inoltre chiesto un maggiore impegno da parte del gruppo G5 Sahel, l’alleanza dei cinque Paesi della regione: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, e ha invitato i leader delle cinque nazioni a un vertice il 16 dicembre nel Sud della Francia.

I contingenti militari africani saranno in grado di contenere la minaccia jihadista? La risposta è decisamente no, e i recenti attacchi in Burkina Faso e in Mali hanno infatti messo in evidenza la carenza di addestramento e di mezzi dei reparti africani che, troppo spesso, si sono lasciati sopraffare dai miliziani.


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martedì 3 dicembre 2019

Burkina Faso. Continuano gli assalti dei gruppi di matrice islamica-integralista

L'ennesima azione terroristica contro un luogo di culto cristiano nell'area di Foutouri, già presa di mira in passato dai jihadisti, 14 morti e decine di feriti


La violenza jihadista è tornata a colpire in una chiesa in Burkina Faso, uno dei Paesi più poveri dell'Africa, da anni teatro di attacchi delle milizie fondamentaliste spesso provenienti dai Paesi vicini. Almeno 14 persone, tra le quali diversi bambini, sono morte e altre sono rimaste ferite nell'assalto a una chiesa protestante durante una funzione domenicale.

L'attacco è avvenuto nella zona di Foutouri, già presa di mira in passato da terroristi legati ad al Qaeda e all'Isis. "Una chiesa protestante è stata attaccata ad Hantoukoura, nel dipartimento di Fouturi, vicino alla frontiera con il Niger lo scorso 28 novembre, causando 14 morti e numerosi feriti"

Secondo alcune fonti la strage è stata perpetrata da una decina di uomini armati che hanno colpito anche il celebrante, oltre a diversi bambini presenti alla funzione. Subito dopo le forze di sicurezza hanno lanciato una caccia all'uomo per individuare i membri del commando, fuggiti in motocicletta.

In Burkina Faso gli attacchi armati di matrice jihadista a luoghi di culto cristiani sono sempre più frequenti
Le forze di sicurezza stentano ad averne ragione per mancanza di uomini e mezzi. Nella scorsa primavera i raid contro i cristiani sono stati quasi quotidiani: tra il 29 aprile e il 26 maggio, quindi in meno di un mese, almeno 20 persone erano morte in azioni attribuite ai gruppi jihadisti militanti Ansar-ul-Islam e JNIM (Group in Support of Islam and Muslims).

Uccisi anche diversi imam, in una spirale di violenza progressivamente intensificata da quattro anni a questa parte, spesso alimentata da milizie provenienti dai Paesi confinanti. Ed è del 6 novembre l'attacco a un convoglio di una società canadese in cui 37 persone hanno pero la vita e 60 sono rimaste ferite.
(La Repubblica)



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Cara di Bari-Palese, base operativa di due clan della mafia nigeriana, i Vikings e gli Eiye. 32 arresti

Sono accusati di riduzione in schiavitùsfruttamento della prostituzione, tratta, pestaggi, estorsioni e accattonaggio davanti ai supermercati.


Misure cautelari eseguite in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria, Lazio, Abruzzo, Marche, Emilia Romagna, Veneto e all'estero, in Germania, Francia, Olanda e Malta. La procura: "No strumentalizzazioni. Alcuni hanno commesso reati, altri hanno collaborato con la giustizia"

Associazione per delinquere, tratta, riduzione in schiavitù, estorsione, rapina, lesioni, violenza sessuale e sfruttamento della prostituzione. Sono le accuse rivolte a vario titolo alle 32 persone arrestate al termine dell’indagine della Squadra mobile di Bari, coordinata dalla procura antimafia del capoluogo pugliese, su due gang nigeriane che agivano come articolazioni dei clan Vikings e Eiye. Il quartier generale delle due organizzazioni era nel Cara di Bari-Palese (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) e poi nel quartiere Libertà.

Arresti in 4 Paesi europei
Le misure cautelari sono state eseguite in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria, Lazio, Abruzzo, Marche, Emilia Romagna, Veneto e all'estero, in Germania, Francia, Olanda e Malta. L’indagine, coordinata dalle PM della Dda di Bari Simona Filoni e Lidia Giorgio, ha accertato che diversi episodi di aggressioni avvenuti negli ultimi anni all'interno del centro di accoglienza.

Con la criminalità organizzata locale erano scesi a patti e tra loro si tolleravano
Violenza sessuale su connazionali, risse e accoltellamenti sarebbero riconducibili alle attività delle gang, ritenute vere e proprie associazioni per delinquere di stampo mafioso con suddivisione gerarchica dei ruoli, rituali di affiliazione, ricorso alla violenza e alla intimidazione. Tra le principali fonti di guadagno dei gruppi criminali nigeriani presenti a Bari e documentate in questa inchiesta ci sono lo sfruttamento della prostituzione e l’accattonaggio davanti ai supermercati.

La procura: “No a strumentalizzazioni”
Non si facciano strumentalizzazioni su questa vicenda. I nigeriani che sono stati arrestati sono persone che hanno commesso reati, esattamente come facciamo con tutte le persone di qualsiasi colore, razza e Paese", ha spiegato il procuratore aggiunto Francesco Giannella. “Poi ci sono tanti nigeriani che hanno chiesto aiuto nelle forme previste dalla legge, chiedendo cioè che lo Stato italiano intervenisse per riportare l’ordine e la giustizia

In conferenza stampa il procuratore Giuseppe Volpe ha anche evidenziato chenormalmente c’è una certa diffidenza nei confronti degli extracomunitari che fanno ingresso nel nostro Paese, ma così come ci sono extracomunitari che delinquono, ci sono quelli che collaborano con la giustizia. Le vittime dei reati sono anch'esse cittadini nigeriani che hanno collaborato. Questo aspetto lo voglio valorizzare perché spesso con le popolazioni autoctone abbiamo difficoltà ad ottenere collaborazione. In questo processo ci sono state tante denunce e riconoscimenti

La nascita dell’inchiesta
Le indagini sono partite infatti dalle denunce presentate, sul finire del 2016, da due cittadini nigeriani, ospiti del Cara di Bari, che hanno dichiarato di essere stati vittime di pestaggi, rapine e ripetuti tentativi di condizionamento.

Violenze sessuali e stupri (anche di gruppo) sulle ragazze che non accettavano di prostituirsi

I dettagli contenuti nelle denunce hanno permesso di comprendere che molte delle violenze commesse non erano casi isolati, ma si inserivano in un contesto di scontri tra le due principali gang criminali presenti. Entrambe hanno reclutato nuovi adepti attraverso riti cruenti di iniziazione consistenti in ‘prove di coraggio’, per tentare di prevalere l’una sull'altra e hanno commesso violenze, rappresaglie e punizioni fisiche, violenze sessuali e stupri (anche di gruppo) sulle ragazze che non accettavano di prostituirsi.

I metodi punitivi
Entrambe le compagini si sono connotate per la solidità del vincolo associativo, la programmazione di reati di varia natura e per un capillare e costante controllo da parte dei capi per il rispetto dei ruoli e delle regole, con l’applicazione di metodi punitivi violenti ogni qualvolta si rendesse necessario per ristabilire gli equilibri compromessi.

I due gruppi, Eiye e Vikings, hanno dimostrato di possedere una struttura rudimentale quanto ai mezzi adoperati, ma solidissima dal punto di vista della ideologia, della organizzazione e dei reati da perseguire, senza cercare in alcun modo aderenze con le mafie locali, dando prova, quanto allo sfruttamento della prostituzione, secondo gli inquirenti, di supremazia anche nei confronti delle bande composte da albanesi e rumeni.



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lunedì 2 dicembre 2019

Riciclaggio e tratta. Sgominata banda di nigeriani operativa tra Marche e Abruzzo

Vasta operazione della polizia di Stato di Teramo denominata "The Travelers". Arrestati otto nigeriani, uno è ricercato. In meno di un anno oltre cento viaggi per portare il denaro frutto dello sfruttamento della prostituzione in Nigeria. 7,5 i milioni di euro riciclati.


Mafia nigeriana, sistema nazionale di riciclaggio e prostituzione
La Polizia di Stato di Teramo ha eseguito una vasta operazione, denominata "The Travelers", nei confronti di cittadini nigeriani accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla commissione dell'illecita intermediazione finanziaria, auto-riciclaggio e riciclaggio tras-nazionale, tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione.

Le indagini degli investigatori della Squadra mobile con la collaborazione del Reparto prevenzione crimine "Abruzzo" di Pescara e delle Squadre mobili di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia dell'Aquila, hanno accertato "l'esistenza di un'associazione a delinquere, con basi operative nelle province di Teramo, Ascoli Piceno, Fermo e Macerata, composta tutta da cittadini nigeriani dedita al riciclaggio ed all'auto-riciclaggio verso la Nigeria, attraverso viaggi in aereo, di ingenti somme di denaro, abilmente occultate all'interno dei bagagli al seguito, provenienti dallo sfruttamento sessuale di giovani nigeriane e da ulteriori attività illecite"

Dall'inchiesta è emersa l'esistenza di "un sistema capillarmente diffuso su tutto il territorio nazionale che costituisce un meccanismo strutturato e transazionale di raccolta del risparmio o di riciclaggio ed auto-riciclaggio attraverso il meccanismo dell'hawala"

"Hawala", un sistema per inviare denaro che non lascia tracce
L’illecito trasporto di denaro veniva svolto dietro un compenso pari ad una percentuale della somma che il committente vuole far recapitare in Nigeria, percentuale che diminuisce al crescere della somma consegnata. Si è accertato come il denaro che il committente vuole far arrivare in Nigeria viene anticipato al destinatario su base fiduciaria dall’havaladar, che si trova in Nigeria, e che ne rientrerà in possesso solo dopo che l’havaladar, che opera in Italia, gli porterà fisicamente il denaro raccolto in questo paese dagli ordinanti.

Nello specifico all'interno della predetta associazione criminale alcuni dei membri svolgono il ruolo di collettori ossia di coloro che ricevono dai committenti dapprima l’incarico (principalmente tramite contatto telefonico o sms) e poi materialmente il denaro che si intende inviare in Nigeria. Il collettore successivamente, anche a brevissima distanza di tempo (generalmente tramite sms o messaggio whatsapp) fornisce al committente un codice identificativo numerico o alfa numerico che servirà al destinatario in Nigeria per poter ritirare subito il denaro (in “naira”, valuta nigeriana) dal corrispondente in Nigeria dell’associazione.

Vi sono poi membri dell’associazione con lo specifico ruolo di corrieri, ossia di coloro che provvedono a ritirare materialmente le somme di denaro consegnate dai committenti per il loro trasporto in Nigeria con viaggi aerei. Tale denaro, una volta giunti a destinazione viene consegnato al gestore dell’Ufficio in Nigeria (gestito da un familiare o da un fiduciario) che si è occupato della preventiva consegna al destinatario.

In Nigeria non solo il denaro derivante dallo sfruttamento della prostituzione, ma un vero e proprio business al servizio della comunità nigeriana
Gli appartenenti al sodalizio trasportano abitualmente in Nigeria, sempre per via aerea, non solo il denaro frutto dello sfruttamento sessuale, ma anche somme di denaro (di provenienza più o meno illecita) consegnato loro da numerosi connazionali, dimoranti nelle Marche ed in Abruzzo, il tutto in violazione delle norme in materia di raccolta del risparmio e di intermediazione finanziaria. Il meccanismo è consolidato su scala nazionale e comporta il trasferimento illecito di imponenti somme dall'Italia verso la Nigeria.

Solo nel corso dei controlli effettuati con la collaborazione della Polizia di Frontiera e dell’Ufficio delle Dogane presso l’aeroporto di Fiumicino, sui “corrieri” dell’associazione prima che si imbarcassero per voli diretti in Nigeria, gli stessi sono stati trovati in possesso di oltre 400.000 euro. Nel corso dell’indagine (meno di un anno) i corrieri indagati si sono complessivamente recati in Nigeria circa 100 volte per trasportare illecitamente i soldi consegnatigli dai committenti ne consegue che secondo una stima indicativa la somma illecitamente trasportata in Nigeria corrisponde a 7 milioni 500 mila euro.

Proporzionando queste cifre al fenomeno nazionale si ricava un flusso impressionante di denaro (in parte proveniente dallo sfruttamento sessuale delle giovani donne vittime di tratta, ma anche da altri gravi reati posti in essere da tali sodalizi) che viene trasferito in Nigeria al di fuori dei canali finanziari tradizionali per essere poi immesso nel paese africano in circuiti bancari locali per giungere, ormai ripulito, nelle mani delle organizzazioni criminali che li utilizzeranno per successive attività illecite o per investimenti "leciti"

Gli arresti
Degli otto arrestati due stavano per imbarcarsi a Roma Fiumicino su un volo per tornare in Nigeria, un terzo complice è stato bloccato sull'autostrada A24, al casello di Teramo, Una delle persone sottoposte a custodia cautelare si è resa irreperibile e ora è attivamente ricercata su tutto il territorio nazionale

Sono dunque otto su nove le misure di custodia cautelare in carcere eseguite per associazione a delinquere eseguite fra Marche e Abruzzo dalla Squadra mobile di Teramo nell'ambito dell'operazione coordinata dalla DDA dell'Aquila. Gli arrestati sono 4 uomini e 4 donne fra i 24 e i 42 anni. Sono accusati di far parte di un'organizzazione specializzata nell'illecita intermediazione finanziaria, auto-riciclaggio e riciclaggio transnazionale e nella tratta di esseri umani, in particolare di connazionali da sfruttare sessualmente in Italia.

Facendo la spola in aereo tra l'Italia e la Nigeria, i componenti della banda trasportavano non solo il denaro ricavato dalla prostituzione, ma anche somme consegnate da connazionali che si erano trasferiti nelle Marche e in Abruzzo.

Le banconote in mazzette arrotolate venivano nascoste nelle valige. I 'corrieri' finiti nei controlli all'aeroporto di Fiumicino sono stati trovati in possesso di oltre 400mila euro e, in totale, in meno di un anno, erano tornati in Nigeria almeno un centinaio di volte per trasportare illecitamente il denaro.

Si stima che il denaro contante trasportato illecitamente in Nigeria abbia raggiunto la ragguardevole somma di sette milioni e mezzo di euro in meno di un anno





Articolo a cura di
Maris Davis


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domenica 1 dicembre 2019

Ciao Nadia, volevo solo dirti che colui che ti uccise due anni fa si è impiccato

Ma tu questo lo avrai già saputo. Gli angeli che ti stanno abbracciando nei prati azzurri del cielo dove ora ti trovi te lo avranno già riferito.


Udine, si suicida dopo la sentenza di condanna a 30 anni per femminicidio emessa dalla Corte d'Appello di Trieste.

Nel luglio 2017 aveva ucciso la fidanzata, Nadia Orlando. Per una notte intera aveva vagato con il suo corpo senza vita prima di consegnarsi ai poliziotti. Era ai domiciliari con il braccialetto elettronico, in attesa del pronunciamento del Tribunale che quasi certamente lo avrebbe riportarlo in carcere.

La condanna a 30 anni
Francesco Mazzega, condannato a 30 anni per la morte di Nadia Orlando, si è suicidato impiccandosi ad un albero nel giardino di casa. Il primo agosto del 2017 aveva ucciso la fidanzata e si era consegnato alla polizia dopo aver vagato per tutta la notte con il suo cadavere in macchina. Mazzega, 38 anni, si è impiccato nel giardino della sua abitazione a Muzzana del Turgnano in provincia di Udine, dove era ai domiciliari con il braccialetto elettronico. Il suo corpo è stato ritrovato nella mattinata di oggi.

Dopo la sentenza di conferma della pena a 30 anni di carcere, l'uomo era tornato a casa dei genitori, a Muzzana del Turgnano, con il braccialetto elettronico. Sono stati i parenti a trovarlo, hanno chiamato i soccorsi e i sanitari del 118, arrivati subito, hanno tentato di rianimarlo per 40 minuti.

Venerdì scorso in appello era stata confermata la condanna a 30 anni per l'omicidio di Nadia Orlando, di Vidulis di Dignano (Udine). La ragazza aveva 21 anni quando fu uccisa a pochi passi da casa. Dopo l'omicidio, Mazzega vagò con il cadavere di Nadia in auto per tutta la notte. La ragazza voleva porre fine alla loro relazione.

Il perdono tardivo
"Non merito il perdono, ho paura anche a chiederlo vista la gravità di quanto fatto", aveva detto Francesco Mazzega venerdì in aula in una dichiarazione spontanea davanti ai giudici della Corte d'Assise d'Appello di Trieste e ai familiari di Nadia Orlando. Mazzega aveva sempre sostenuto di non riuscire a capacitarsi di quanto successo e di non sapere come poteva essere accaduto.

Il pentimento postumo di Mazzega, tuttavia, è in contrasto con quanto avevano dichiarato dopo l'omicidio persone vicine alla famiglia di Nadia. Secondo un parente, il padre della ragazza era molto preoccupato per il comportamento del fidanzato della figlia, definito possessivo e geloso. Come in altri casi di femminicidio, dunque, prima della tragedia c'erano stati segnali di atteggiamenti violenti e prevaricatori da parte dell'omicida.



Cara Nadia, da lassù veglia su questo mondo pieno di uomini vigliacchi che vogliono noi donne sottomesse ai loro voleri.
Nel mentre la giustizia terrena stava facendo il suo percorso, è intervenuta la giustizia divina che ha posto fine, in modo definitivo, a quello che è stato il tuo dramma.
E io so che tu, ora ci stai guardando felice.





Articolo di
Maris Davis


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lunedì 18 novembre 2019

Sud Sudan. L'acqua ha inghiottito interi villaggi, un milione le persone colpite

Un report di Amref dal Paese più giovane dell'Africa. Si stima che siano circa 908 mila le persone colpite dalle alluvioni e ora in stato di bisogno. Tra loro almeno 490 mila bambin


Un una nazione già martoriata da anni di guerra civile si è abbattuta una vera e propria catastrofe. In Sud Sudan è stato dichiarato lo stato di emergenza a causa di violente inondazioni che hanno sommerso il Paese. Si stima che siano circa 908 mila le persone colpite dalle alluvioni e ora in stato di bisogno; tra loro almeno 490 mila bambini. L’acqua ha inghiottito interi villaggi, compresi centri sanitari e scuole. Anche l’erogazione di servizi sanitari di base è al momento sospesa: in diverse aree del Paese sono operative solo il 10% delle strutture sanitarie.

Alla metà della popolazione manca cibo
Questo ennesimo dramma sta avvenendo in un Paese già in crisi: prima di questa catastrofe si contavano oltre 7,2 milioni di persone in stato di necessità, bisognose di assistenza umanitaria. Il 54% delle persone in Sud Sudan vive ancora in condizioni di grave insicurezza alimentare. Amref è presente nell'area del Sud Sudan dal 1972 con l’obiettivo di rafforzare il sistema sanitario del Paese. "Anno dopo anno, abbiamo ampliato il ventaglio dei nostri progetti e degli interventi a favore della popolazione sud-sudanese".

Il sostegno ai progetti di aiuto
"Le alluvioni hanno risparmiato le aree di intervento dei nostri progetti, ma gli effetti nel lungo periodo non mettono da parte nessuno. È fondamentale continuare a investire in questi progetti proprio per permettere alla popolazione sud sudanese di non perdere la fiducia nella possibilità di vivere una vita migliore. Le persone salvate oggi meritano un domani degno di essere chiamato futuro".

E sullo sfondo dei disastri naturali, la guerra
La prima guerra civile in Sudan nasce in un momento in cui in tutto il continente africano i diffusi fermenti indipendentisti sgretolavano (o almeno si illudevano di sgretolare) i regimi coloniali. Il conflitto interno al Paese (da sempre agitato dal contrasto fra il Nord arabo e il Sud a prevalenza etnico-culturale sub-sahariana, animista e cristiana) ha luogo dal 1955 al 1972. In guerra entrano il governo centrale del Sudan e i separatisti del Sud, che chiedono con forza una maggiore autonomia regionale. A rimetterci la vita, in quei 17 anni di guerra, furono circa mezzo milione di persone, per lo più civili.

Un incubo che dura da quasi 25 anni
La storia è poi proseguita con una ritmica successione di conflitti interni, in circa 25 anni, quasi 3 milioni di persone sono morte e oltre 4 milioni di cittadini sono stati ridotti allo status di sfollati. Il conflitto tra milizie governative al Difaa (al Shaabi, in arabo) e lo SPLA, in tutto questo arco di tempo è stato causa di carestie, epidemie, povertà e fame diffusa, smantellamento di quel poco che c'era nell'ambito dei servizi sanitari e di esodi forzati di gente costretta a mollare tutto ciò che possedevano.


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sabato 16 novembre 2019

Mafia nigeriana, 11 misure cautelari a Roma. Inchiesta nata dalla denuncia di alcune ragazze

Sono accusate di aver ridotto in schiavitù moltissime ragazze nigeriane, le 11 persone destinatarie di ordinanze cautelari emesse dal Giudice per le indagini preliminari di Roma.


In carcere sono finiti otto nigeriani, altri due sono da tempo fuori dall'Italia ed un altro ancora è ricercato.

Gli investigatori della Squadra mobile romana hanno ricostruito il percorso o meglio il calvario di queste donne dalla Nigeria all'Italia.

Il viaggio
La collaborazione di alcune vittime ha consentito in particolare di disegnare le fasi del reclutamento e della partenza dai villaggi di origine. Le donne, spesso minorenni, venivano avvicinate da persone vicine al clan familiare e lusingate con promesse di facili guadagni in Europa.

Non veniva nascosta l’attività di prostituzione che sarebbe stata svolta al loro arrivo in Italia, ma ne venivano enfatizzati gli aspetti positivi: guadagni ingenti e poche o nulle le spese di viaggio e mantenimento. Dopo aver accettato, le donne venivano sottoposte ad un rito religioso (woodoo, o JuJu) con uno stregone che suggellava il patto con le divinità.

Il culto JuJu in Nigeria è molto diffuso e i patti stipulati con i “sacerdoti” di questa religione sono molto temuti dalla popolazione, non rispettarli significherebbe per le ragazze attirare su di sé e sui propri congiunti malattie, sciagure e morte. Non appena il rito era stato celebrato le ragazze venivano allontanate dalla propria famiglia, in buona sostanza venivano prese in consegna dall'organizzazione che le teneva rinchiuse in attesa della partenza.

Dalla Nigeria le donne, attraverso il Niger, per arrivare fino a ridosso delle coste libiche, dove venivano alloggiate all'interno di “connection house”, in attesa del passaggio via mare a bordo di barconi.

Ovviamente, già durante il viaggio le donne capivano che i guadagni promessi non sarebbero mai stati realizzati, ma a quel punto era impossibile tornare indietro. Il viaggio in camion o in bus veniva anticipato dalle “mamam” residenti in Italia (o in altri paesi europei).

Il costo del viaggio, da 30 a 35mila euro, doveva essere ripagato con prestazioni sessuali, un costo che in realtà alla mamam costava poco più di un decimo di quello che poi veniva richiesto alle ragazze. E anche il cibo e la permanenza nella “connection house” dovevano essere ripagati nello stesso modo. In sostanza le ragazze erano costrette a prostituirsi già in Libia, durante l'attesa di attraversare il Mediterraneo.

Durante il tragitto le donne venivano violentate e malmenate, anche per iniziare quella sorta di assoggettamento che le avrebbe rese oggetti di proprietà dell’organizzazione.

Arrivate in Italia le ragazze, dopo essere fuggite dai centri di prima accoglienza, venivano affidate alle “mamam” che continuavano l’assoggettamento psicologico e fisico: alloggio in casa con la propria “mamam”, nessuna relazione sentimentale, pagamento dell’alloggio, del vitto e dell’affitto del marciapiede dove prostituirsi.

Non c’era nessuna possibilità di ribellarsi. il rapporto era talmente stretto che le malcapitate chiamavano le “mamam” con il diminutivo di “mami”, mentre le ragazze a loro volta erano chiamate figlie.

Il passaggio di denaro
Difficile è stato ricostruire il passaggio di denaro tra questi moderni schiavisti.

I criminali infatti non utilizzavano sistemi bancari o di money transfer, ma utilizzavano il sistema Hawala; un sistema molto semplice che non prevede reali passaggi di denaro durante la transazione. Il soggetto, che chiameremo A, avendo la necessità di trasferire del denaro al soggetto B, si avvale di un intermediario, l’hawaladar broker, che riceve il denaro e che si rivolge ad un suo referente, un altro hawaladar broker, nella località di destinazione del denaro.

Il segreto sta in un codice, una parola cifrata, un simbolo, che il primo intermediario consegna al soggetto A; questo lo comunicherà al soggetto B, che, a sua volta, lo utilizzerà con il secondo intermediario; quest’ultimo riterrà il codice comunicato, come un codice di sblocco del denaro, che verrà quindi consegnato al soggetto B, fruitore finale della intermediazione.

Il denaro, fisicamente, invece, viaggerà in modo separato attraverso dei corrieri, nascosto in valigie o con altri sistemi.
(Questura di Roma, Polizia di Stato)


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martedì 12 novembre 2019

Burkina Faso. Attacco nell'est, 37 morti

Contro il personale locale di una società mineraria canadese


Trentasette persone sono morte e altre 60 sono rimaste ferite ieri nel corso di un attacco contro un convoglio di personale locale della società mineraria canadese Semafo, in Burkina Faso: lo ha reso noto il governatore della regione dell'Est del Paese, Saidou Sanou, citato dai media internazionali.

L'attacco, ha precisato la stessa società sul proprio sito, è avvenuto sulla strada tra Fada e la miniera di Boungou, a circa 40 chilometri da quest'ultima.

Il convoglio, composto da cinque bus e scortato dal personale militare, trasportava dipendenti e fornitori locali.
(Ansa)


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Alessandria, "qui non ti siedi". Razzismo su un autobus verso una ragazzina di colore

È accaduto su un pullman. La denuncia di una consigliera comunale che posta l'accaduto su Facebook


"Alabama 1955? No, Alessandria 2019". Inizia così lo sfogo della consigliera comunale pd Vittoria Oneto, che su Facebook ha raccontato un vile episodio di razzismo a cui ha assistito mercoledì sull'autobus di linea che aveva preso per tornare a casa.
Una bimba di sette anni è stata vittima di discriminazione per il colore della sua pelle: voleva sedersi accanto a una donna che con aria stizzita le ha detto: "No qui tu non ti siedi". La consigliera comunale è intervenuta ed ha poi ottenuto che la piccola si riuscisse a sedere, tra gli sguardi silenziosi di tutti gli altri passeggeri.

Ho preso l'autobus per tornare a casa. Pochi posti a sedere. Io rimango in piedi. Salgono una mamma con due bambini. Lei si appoggia in uno spazio largo col passeggino e la bambina di circa 7 anni prova a sedersi in un posto vicino ad una signora di circa 60 anni che aveva appoggiato la sua borsa della spesa sul sedile. La signora guarda la bambina e le dice : "No no tu qui non ti siedi!" ha raccontato Oneto nel suo post, spiegando poi così il suo intervento: "Io dico alla donna di spostare la borsa e di fare sedere la bambina ma lei insiste e mi dice in modo arrogante di farmi gli affari miei". Peccato, hai trovato la persona sbagliata. La madre della piccola non dice nulla e guarda a terra.

A quel punto alzo la voce sempre di più e le intimo in malomodo di fare sedere immediatamente la bambina e di vergognarsi con tutto il fiato che avevo in gola. La signora a quel punto la fa sedere ma continua a borbottare e a guardare schifata la bambina. Tutte le persone sull'autobus mi guardano in parte compiaciute, in parte no ma nessuno osa dire nulla. Secondo voi di che colore aveva la pelle quella bambina? Sì proprio così. La consigliera conclude poi il suo sfogo raccontando tutta l'amarezza provata: "Ho pianto. Sono scesa dall'autobus e ho pianto. Per il nervoso, per la tristezza per il senso di sconfitta che ho provato e provo. Come se questi giorni non fossero già dolorosi"

È questo quello che siamo? È questo quello che vogliamo essere?
Io non voglio crederci. In poche ore il suo post ha ricevuto centinaia di commenti, attestati di stima e ringraziamento per il suo intervento a favore della bambina.
(La Repubblica)

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