L'altra sera in via Sant’Anastasio a Trieste aggredita sessualmente da un profugo afghano richiedente asilo, la nostra amica nigeriana Patricia di 23 anni. In cella l'aggressore.
Patricia, 23 anni
L’ha seguita per qualche centinaio di metri e poi, approfittando dell’oscurità, l’ha aggredita. Il profugo afgano di trent'anni, arrestato l’altra notte, dovrà rispondere di violenza sessuale su una nigeriana di ventitré anni, regolarmente residente in Italia. Il fatto è avvenuto in via Sant’Anastasio, nei pressi di via Udine, non distante dalla struttura di accoglienza per migranti di via Gozzi dove era alloggiato l’afgano.
La nostra amica Patricia, che lavora come cameriera in bar-pizzeria in centro a Trieste, è stata soccorsa da una volante della polizia che proprio in quel momento stava perlustrando la zona. L'aggressore è un richiedente asilo, come è stato accertato in un momento successivo dai registri della Questura. È a Trieste da circa un mese mezzo.
La dinamica di quanto accaduto è apparsa subito chiara alle forze dell’ordine. La giovane stava rincasando quando lo straniero si è accorto della sua presenza. Non appena l’ha notata, ha cominciato a guardarla con insistenza fintanto che la nigeriana ha raggiunto un punto della strada lontano da possibili occhi indiscreti. L’ora era tarda, non c’erano passanti in strada. E l’afgano, dopo qualche apprezzamento verbale, non ci ha pensato troppo ad avventarsi sulla povera Patricia.
L’ha percossa selvaggiamente nel tentativo di toccarle le parti intime per abusare di lei. Ma la ragazza ha reagito provando a difendersi con tutte le sue forze. Urlava e implorava aiuto, divincolandosi per scappare dalla morsa del trentenne. Grida che hanno insospettito gli agenti a bordo della volante, intervenuti immediatamente per bloccare l’aggressore. La giovane è stata soccorsa dai sanitari del 118 e trasportata in ospedale dove i medici le hanno riscontrato varie contusioni al viso guaribili in una decina di giorni.
L'uomo è stato arrestato per violenza sessuale e, dopo gli accertamenti, è stato portato al carcere di via Coroneo, dove si trova tutt'ora. L’identità dell’afgano, proprio perché richiedente asilo, era nota alla Questura.
Il caso ha innescato non poche polemiche politichetra la nuova giunta cittadina (di centro-destra) e la giunta regionale (di centro-sinistra) in materia di immigrazione. Al di là delle polemiche è indubbio che a Trieste e anche in altre città del Friuli i casi di violenza ai danni donne e altri reati da parte di immigrati sono aumentati. Anche lo scorso mese, proprio a Trieste, un'altra ragazza era stata aggredita sessualmente da un immigrato (islamico) ospite di un centro di accoglienza.
Il Friuli è considerato la porta del nord-est per i profughi provenienti dalla rotta balcanica. Ingressi clandestini non massicci, ma continui ogni giorno, sia dalla Slovenia che dall'Austria. Tutti islamici provenienti prevalentemente da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan.
Foundation for Africa offre a Patricia e alla comunità dei nigeriani di Trieste tutta la solidarietà più assoluta.
Le giovani venivano acquistate in Ungheria per poi finire in appartamenti di Nuoro dove erano costrette a prostituirsi.
Sfruttavano giovani ragazze ungheresi costringendole a vendere il proprio corpo a facoltosi professionisti in varia appartamenti a Nuoro. I due arrestati avrebbero gestito e organizzato un vasto giro di prostituzione ma la Polizia ha posto fine alla loro attività.
Battute all'asta come bestiame, era il destino di alcune ragazze ungheresi fra i 20 e i 30 anni liberate dalla Squadra mobile nuorese. Venivano acquistate a circa 250mila euro ciascuna da un'organizzazione di trafficanti di esseri umani e poi costrette a prostituirsi a Nuoro.
In manette una coppia residente a Olbia, Salvatore Cualbu, 37 anni, già noto per precedenti per reati contro la persona, e la sua compagna ungherese Erzsebet Holecko, 36 anni, si erano di recente trasferiti in Gallura, dopo che la polizia aveva cominciato a stringere il cerchio attorno a loro.
I due facevano arrivare in Italia le ragazze ungheresi utilizzando le amicizie e i legami di parentela che la 36enne aveva nel paese d’origine. Il giro di prostituzione era stato organizzato nel 2014. Le giovani, tutte di un’età compresa tra i 20 ai 30 anni, venivano adescate con la promessa di un bel lavoro in Sardegna e poi "comprate", per una di loro è stato accertato il pagamento di 250mila euro.
La coppia è in stato di fermo su disposizione della DDA di Cagliari per tratta di essere umani, riduzione in schiavitù e sfruttamento della prostituzione di almeno cinque donne ungheresi. L'operazione, denominata "Paprika", ha portato anche alla denuncia di due proprietari di altrettanti appartamenti del centro di Nuoro dove le ragazze erano costrette a prostituirsi.
I padroni di casa, non solo sapevano del giro di prostituzione, ma pretendevano anche canoni d'affitto maggiorati e chiedevano prestazioni sessuali in cambio. Tra i clienti del fiorente giro di prostituzione c'erano numerosi professionisti della zona (avvocati, ingegneri, impresari). Esisteva un preciso tariffario, da un minimo di 80 fino a oltre 350 euro. La cifra variava a seconda del tipo di prestazione, del tempo trascorso con ciascuna ragazza e anche dell'uso o meno del profilattico: senza, la tariffa saliva, così come erano previsti "scatti" in aumento per ogni 15 minuti in più.
In casa della coppia gli agenti della Mobile di Nuoro hanno sequestrato appunti sull'attività di sfruttamento della prostituzione, dosi di cocaina e viagra. I due risultavano nullatenenti, nonostante disponessero di un'auto Mercedes da 150mila euro e di un fuoristrada.
Le ragazze venivano comprate in Ungheria e trasferite in Sardegna, una volta arrivate nell’Isola le giovani venivano segregate e "istruite" sulle prestazioni e sulle tariffe da esigere dai clienti.
Ultimamente in seguito ai controlli da parte della Questura di Nuoro, le ragazze erano state trasferite a Olbia dove vivevano in un locale ubicato nei pressi di un canile in condizioni igienico sanitarie precarie e sotto la sorveglianza delle telecamere. Qui le facevano dormire in una stanza, una specie di prigione. Gli aguzzini abitavano a circa 500 metri e controllavano ogni singolo movimento con un sistema di videosorveglianza.
Giornalmente venivano portate da Olbia a Nuoro in due appartamenti situati tra le centrali via Ferracciu e via Magellano, dove venivano costrette a prostituirsi.
I clienti, spesso uomini facoltosi e professionisti, pagavano per le prestazioni dagli 80 ai 350 euro, il prezzo mutava dal tipo di richiesta sessuale. Di quel denaro alle giovani donne rimanevano solo pochi soldi, il resto dovevano consegnarlo alla coppia che le sfruttava.
"Quando quelli di Boko Haram vengono a chiedere alle ragazze? Chi di voi vuole fare un attentato suicida? Tutte si mettono a gridare e fanno la lotta per essere scelte come kamikaze"
Le parole di Fati, 16 anni, fanno rabbrividire. L'idea che bambine e adolescenti siano disposte a farsi saltare in aria fra civili innocenti è del tutto innaturale, per noi. Ma la sua spiegazione è ancora più sconvolgente. Quel comportamento non è dovuto al violento indottrinamento condotto senza sosta dai loro rapitori, ma è l'ultima, disperata chance per salvarsi.
"Non lo fanno perché hanno subìto il lavaggio del cervello. Soltanto vogliono farla finita con la violenza, gli stupri quotidiani e la fame che subiscono ogni giorno. E poi ci sono i bombardamenti continui, gli scontri a fuoco nella foresta. Più di quanto si possa umanamente sopportare". Farsi mettere addosso una cintura esplosiva diventa l'unica possibilità per sottrarsi a tutto questo.
"Se ti mettono la cintura, c'è qualche possibilità che incontri dei soldati e che tu possa gridare Ho addosso una bomba, aiutatemi!. Se sei fortunata, vengono a rimuoverla. Allora sei libera"
Fati, 16 anni, (assieme alla sorellina) per 5 mesi
prigioniera di Boko Haram. Oggi vive assieme alla mamma
nel campo profughi di Manawao, in Camerun
Fatiracconta queste cose di fronte a una telecamera della CNN che la riprenda da dietro, per proteggere la sua identità. Proviene da Gulak, villaggio nello Stato di Adamawa, nel nord-est della Nigeria, la regione funestata dalle scorrerie di Boko Haram, che qui contende aspramente al governo federale il controllo del territorio. A due ore di macchina da qui c'è Chibok, la città in cui nell'aprile 2014 vennero rapite oltre 270 studentesse, episodio che diede vita alla campagna globale #BringBackOurGirls.
"Un giorno, nel nostro villaggio due uomini hanno seguito me e mia cugina fino a casa. Si sono presentati ai miei genitori dicendo che volevano sposare me e mia cugina. Abbiamo tentato di opporci, dicendo che eravamo troppo giovani per sposarci, ma quando hanno tirato fuori le armi abbiamo capito tutto. Erano gente di Boko Haram. Non abbiamo avuto scelta e siamo dovute partire con loro"
La ragazza, ancora quattordicenne, dovette acconsentire a un "matrimonio forzato" con uno dei due rapitori e seguirlo nella foresta, dove i guerriglieri jihadisti conducono la loro lotta contro le forze regolari di Nigeria e Camerun. Racconta di avere conosciuto lì anche diverse delle studentesse rapite a Chibok e mai più liberate. "Tutte le ragazze piangevano ed erano terrorizzate. E loro ci violentavano, tutte quante"
Per salvarsi Fati non ha dovuto passare per la roulette della cintura esplosiva. Un giorno, nell'ottobre 2015, la pattuglia dei suoi rapitori è stata intercettata dai militari camerunesi, nella zona di confine con la Nigeria. I miliziani di Boko Haram sono stati arrestati e lei è stata mandata al campo profughi di Minawao, in Camerun. Il suo rapimento è durato 5 mesi.
A Minawao, Fati è stata riunita a sua mamma Mariam e alla sorellina, di appena 8 mesi. Ogni giorno viene a trovarla un'assistente sociale di ALDEPA(Action Local pour Le Développement Participatif et Autogéré), un'organizzazione non governativa locale sostenuta dall'UNICEF.
Nel 2015 Boko Haram ha utilizzato minorenni in ben 44 attentati suicidi, 11 volte di più rispetto all'anno precedente. In tre quarti dei casi, le vittime erano bambine o ragazze. Con 21 attentati sul suo territorio, il Camerun ha superato addirittura la Nigeria per numero di episodi.
Boko Haram, escalation di attentati suicidi con bambini. Secondo i nuovi dati resi pubblici dall'UNICEF, il numero di bambini coinvolti in attacchi suicidi in Nigeria, Camerun, Ciad e Niger è drasticamente aumentato nell'ultimo anno, passando dai 4 casi del 2014 ai 44 del 2015. Oltre il 75% delle vittime sono ragazze.
A due anni dal rapimento di oltre 200 ragazze a Chibok, il rapporto "Beyond Chibok" mostra trend allarmanti in 4 paesi colpiti dalle azioni terroristiche del gruppo Boko Haram. Tra gennaio 2014 e febbraio 2016, il più alto numero di attacchi suicidi che hanno coinvolto bambini è stato registrato in Camerun (21), seguito da Nigeria (17) e Ciad (2).
Negli ultimi due anni, circa un quinto delle persone che si sono fatte esplodere erano minorenni. Nel 2015 i bambini sono stati utilizzati nel 50% degli attacchi kamikaze in Camerun, in 1 attentato su 8 avvenuto in Ciad e in 1 su 7 in Nigeria.
L'anno scorso gli attentati suicidi con esplosivo di Boko Haram si sono espansi per la prima volta al di fuori dei confini nigeriani. La frequenza degli attentati è aumentata da 32 nel 2014 a 151 lo scorso anno. Nel 2015, 89 di questi attacchi sono avvenuti in Nigeria, 39 in Camerun, 16 in Ciad e 7 in Niger.
"Deve essere chiaro che questi bambini sono vittime, non esecutori consapevoli" sottolinea Manuel Fontaine, direttore UNICEF per l’Africa Centrale e Occidentale. "Ingannare i bambini e costringerli ad atti suicidi è una delle forme più orribili di violenze perpetrate in Nigeria e nei paesi vicini"
"Beyond Chibok" è un rapporto che analizza l’impatto che il conflitto ha sui bambini nei 4 paesi colpiti da Boko Haram:
Circa 1,3 milioni di bambini sono stati sfollati.
Circa 1.800 scuole sono chiuse, perché danneggiate, saccheggiate, bruciate o utilizzate come rifugi per gli sfollati.
Oltre 5.000 bambini sono rimasti orfani o separati dai loro genitori.
L’utilizzo deliberato di bambini in attentati con esplosivo ha creato un’atmosfera di paura e diffidenza che sta avendo conseguenze devastanti per le ragazze sopravvissute alla prigionia e alla violenza sessuale di Boko Haram nel Nord-est della Nigeria.
Profughi e sfollati nigeriani
Chi è evaso o è stato rilasciato da un gruppo armato viene spesso visto come una potenziale minaccia per la sicurezza, come ha evidenziato la recente indagine "Bad Blood" condotta da UNICEF e dall'ONG International Alert. Anche i bambini nati a seguito di una violenza sessuale subita dai miliziani subiscono stigma e discriminazione nei villaggi, nelle comunità ospitanti e nei campi per sfollati.
"Gli attacchi suicidicon impiego di bambini stanno diventando sempre più frequenti. Molte comunità cominciano a vedere i bambini come una minaccia per la propria sicurezza. La diffidenza nei confronti dei bambini può avere conseguenze tragiche. Come può una comunità ricostruirsi se rifiuta i propri fratelli, le proprie sorelle, figli e madri?"
L’UNICEF aiuta le comunità e le famiglie in Nigeria, Ciad, Camerun e Niger a combattere lo stigma rivolto a chi è sopravvissuto alle violenze e fornire un ambiente sicuro a chi era stato rapito. Insieme alle organizzazioni partner, l’UNICEF garantisce a questi bambini acqua potabile, servizi igienici, cure mediche, istruzione (anche attraverso la creazione di spazi temporanei per l’apprendimento), sostegno psicologico e distribuzione di alimenti terapeutici per quelli affetti da malnutrizione.
Purtroppo gli interventi scontano ancora un grave problema di finanziamenti. Per quest’anno, l’UNICEF ha ricevuto solo l’11% dei 97 milioni di dollari necessari per la risposta a questa crisi umanitaria.
Ancora violenza nel Paese reduce di due anni di lotta interna. Presa d'assalto dai militari fedeli al presidente Salva Kiir la residenza del vice-presidente Riek Machar.
Intensi combattimenti sono ripresi a Juba, la capitale del Sud Sudan, nei pressi delle caserme della città e vicino ad una base dell'Onu, tra i soldati fedeli al presidente Salva Kiir e la guardia del vice-presidenteRiek Machar, dopo il riacutizzarsi, negli ultimi giorni, delle tensioni tra le opposte fazioni, che va avanti da anni.
In un tweet, la missione Onu a Juba parla di scontri a fuoco con armi pesanti nell'area dell'Un House (UNMISS missione ONU presente in Sud Sudan) "Colpi e raffiche di arma da fuoco sono in corso, dalle 08:25 circa, nei pressi dell'area dell'Un House"
Di nuovo in guerra. Le forze di sicurezza fedeli al presidente hanno attaccato la residenza del vice-presidente, Riek Machar, al momento non presente in Sud Sudan. Ma la situazione è tornata presto calma. Il Sud Sudan "è di nuovo in guerra", ha annunciato alla BBC un portavoce di Machar.
Le forze fedeli al vice-presidente hanno dichiarato che le loro postazioni nella capitale Juba sono state attaccate dalle truppe governative. Il colonnello William Gatjiath, portavoce militare di Machar, ha dichiarato che il presidente Kiir "non è serio sull'accordo di pace". Il governo non ha replicato a queste affermazioni, ma ha dichiarato che "centinaia" di soldati di Machar sono morti domenica e che truppe fedeli al vice-presidente stanno avanzando verso Juba provenienti da varie direzioni.
La condanna ONU. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha "condannato con forza" gli scontri a Juba e ha costituito una commissione d'inchiesta per indagare sugli episodi di violenza e adottare misure opportune per porre fine ai combattimenti e ridurre le tensioni.
La dichiarazione del Consiglio è arrivata dopo la ripresa dei combattimenti il 7 luglio. I combattimenti sono scoppiati dopo l'escalation di conflitti in altre parti del Paese nelle ultime settimane. "I membri del Consiglio di sicurezza hanno chiesto alle parti di accelerare l'attuazione di tutti gli aspetti dell'accordo, comprese le disposizioni chiave sulle misure di sicurezza di transizione, come mezzo per riportare la pace in Sud Sudan"
Conflitto civile. Il Sud Sudan ha cancellato le celebrazioni per l'anniversario dell'indipendenza a causa della crisi economica dovute a più di due anni di conflitto civile. Il Sud Sudan ha ottenuto l'indipendenza dal Sudan il 9 luglio 2011, dopo più di due decenni di guerra con il Sudan.
Il Paese fu di nuovo travolto in un conflitto nel dicembre 2013, dopo che il presidente Salva Kiir accusò il suo vice, Riek Machar, di tramare per mettere in atto un colpo di stato. Lo scontrò portò a un ciclo di omicidi di ritorsione. Il presidente Kiir e l'ex capo dei ribelli Machar hanno firmato un accordo di pace nello scorso agosto (2015), spianando la strada per la formazione del governo di transizione di unità con lo scopo di mettere fine a due anni di lotte civile, ma gli scontri cruenti di domenica scorsa stanno mettendo in discussione anche l'ennesimo accordo per una tregua.
Ban Ki Moon.Prima della riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite era già arrivato l'appello del segretario generale Ban Ki-moon a Kiir e Machar di fare quanto possibile per far cessare "questa insensata e inaccettabile violenza che ha il potenziale di far regredire i progressi fatti finora nel processo di pace". Ban, che si è detto "scioccato e inorridito dalla violenza degli scontri" e ha chiesto azioni determinate per riprendere il controllo della situazione, ha confermato che basi dell'ONU e siti di protezione dei civili sono rimasti presi nel fuoco incrociato.
Nel fine settimana, uomini armati di Boko Haram hanno ucciso 7 persone in un assalto nella città di Rann, in Nigeria, vicino al confine con il Camerun.
Un commando in sella a motociclette ha sparato contro le case, inducendo i residenti a fuggire. "Hanno fatto fuoco mentre dormivamo", ha raccontato un testimone. "Hanno portato via scorte di cibo e di farmaci dall'unica struttura sanitaria della città".
I fondamentalisti islamici sono rimasti sul posto circa due ore. I residenti si sono rifugiati in Camerun, a 28 km di distanza.
Gli agenti della Squadra mobile hanno fermato un cittadino nigeriano di 29 anni, Enoghayin Egharevba, per sfruttamento della prostituzione e riduzione in schiavitù. Dalle indagini è emerso che l’uomo ha costretto una connazionale di 24 anni a prostituirsi, minacciandola, picchiandola e facendola vivere nel terrore.
La ragazza ha ottenuto protezione attraverso il protocollo d'intesa firmato nel 2013 tra la Questura e la congregazione Figlie della Carità di San Vincenzo De Paoli di Cagliari (Art. 18, protezione sociale). Era venuta in Sardegna con la promessa di un lavoro. L'ha avuto ma non era esattamente quello che si aspettava. Quando è arrivata a Cagliari, è stata costretta con le botte e le minacce a prostituirsi. Senza possibilità di ribellarsi se non a prezzo di violenze continue.
Il registro con i guadagni delle ragazze
controllate dal nigeriano arrestato
La ragazza nigeriana, che chiameremo Beky, era partita dal paese di origine, nell'Edo State nella Nigeria del sud, il 28 marzo scorso con la promessa di una vita migliore, la possibilità di studiare e trovare un lavoro. Era rimasta in Libia quattro mesi prima di salire su un barcone alla volta dell'Italia, poi era andata a Milano, i primi di giugno. Poi a Bergamo dove il 29enne era andata a prenderla per portarla in Sardegna.
Ma una volta arrivata a Cagliari, il miraggio di una vita migliore si è trasformato in un incubo. La giovane è stata costretta a prostituirsi in viale Monastir. Veniva minacciata costantemente, picchiata quando non guadagnava abbastanza o si rifiutava di andare in strada.
Terrorizzata dal quel rito woodoo che aveva fatto prima di partire e che avrebbe portato alla morte di una zia se non avesse continuato a vendere il proprio corpo. La giovane è stata avvicinata dall'Unità di strada della Caritas, ma
inizialmente non ha raccontato cosa le stava accadendo. Solo dopo alcuni giorni, dopo essere stata picchiata ancora una volta, ha chiesto aiuto allo sportello d'ascolto della Caritas.
La segnalazione è immediatamente arrivata alla Squadra mobile che dopo una serie di verifiche ha bloccato il presunto aguzzino. Nella sua abitazione ad Assemini sono stati trovati profilattici, parrucche e tutto l'occorrente per le prostitute.
Il nigeriano arrestato non sfruttava solo Beky, è stato infatti recuperato anche un foglio di carta con i nomi delle altre ragazze nigeriane controllate dal 29enne e un quaderno con i guadagni giornalieri delle ragazze. Beky adesso si trova in una struttura protetta.
Il viaggio di Beky secondo la ricostruzione delle forze
dell'ordine, partita dalla Nigeria quest'anno in marzo
e arrivata a Cagliari lo scorso giugno
Richiedente asilo nigeriano in coma irreversibile dopo l'aggressione a sfondo razzista di due ultrà. Ormai non ci sono speranze per Emanuel, il 36enne nigeriano aggredito selvaggiamente nel pomeriggio di martedì a Fermo mentre passeggiava con la moglie Chimiary. Entrambi erano fuggiti dagli orrori di Boko Haram.
Emanuel e Chimiary
La coppia ha incontrato due ultrà, probabilmente già implicati in altri episodi di violenza legati agli ambienti di estrema destra, che hanno apostrofato la donna con un insulto razzista, "Tua moglie è una scimmia". Secondo le prime ricostruzioni, l'uomo ha reagito apostrofando a sua volta gli aggressori, quando uno dei due ha divelto un palo di una indicazione stradale e quindi i due ultrà lo hanno colpito anche con calci e pugni e poi sono fuggiti, abbandonandolo sanguinante a terra.
Trasportato già in coma all'ospedale, il richiedente asilo nigeriano è stato dichiarato in coma irreversibile. Per lui non c'è più nulla da fare, tranne il consenso per l'espianto degli organi. Sulla terribile vicenda stanno indagando i carabinieri che hanno già individuato un sospettato: si tratta di un ultras che frequenta ambienti di destra e già conosciuto alle forze dell'ordine.
Emanuel e Chimiary erano ospiti del seminario arcivescovile di Fermo e stavano attendendo l'esito della domanda di asilo in Italia dopo essere fuggiti dalla Nigeria e dal terrore di Boko Haram.
Sulla vicenda è intervenuto don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, convinto che i responsabili dell'omicidio siano due e non uno come invece sostengono gli inquirenti. Don Albanesi è anche sicuro che gli aggressori siano in qualche modo coinvolti in una trama più ampia che prende di mira le chiese di Fermo: in pochi mesi sono stati piazzati quattro ordigni in altrettanti luoghi di culto della città.
"È stata una provocazione gratuita e a freddo, ritengo che si tratti dello stesso giro di neo-nazisti che mettono le bombe davanti alle chiese" ha dichiarato il sacerdote che ha annunciato di volersi costituire parte civile nel processo per la morte di Emanuel.
Le chiese prese di mira da febbraio a maggio sono: il Duomo di Fermo, la chiesa di san Tommaso nel quartiere ad alto tasso di immigrati di Lido Tre Archi, San Michele alle Paludi e, infine, la chiesa di San Gabriele dell'Addolorata nel quartiere di Campiglione, dove l'ordigno non è esploso probabilmente per un puro caso.
Quattro anche i parroci presi di mira, tutti impegnati nel sociale e nell'assistenza a emarginati, tossicodipendenti e migranti: oltre a mons. Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, dell'Inrca e della Fondazione Caritas in veritate, alla guida di San Michele alle Paludi, tra gli altri don Luigi Traini di San Gabriele dell'Addolorata, vicino a Comunione e Liberazione e animatore del Banco alimentare.
Per don Albanesi, convinto che i bombaroli siano "almeno due" obiettivo degli attentati è intimidire parroci e sacerdoti impegnati nel sociale, a fianco di emarginati, tossicodipendenti, migranti. Le indagini sono condotte dai carabinieri, che seguono un ampio ventaglio di ipotesi, compresa quella della volontà di colpire la chiesa in quanto istituzione.
Lo scorso gennaio Emanuel e Chimiary si erano sposati a Fermo nella chiesa di San Marco alle Paludi con il solo rito religioso, la cerimonia era stata celebrata proprio da don Albanesi. Un matrimonio che non poteva avere effetti civili poiché entrambi sono sbarcati in Italia senza documenti validi.
Il video del matrimonio
La storia dei due promessi sposi era già difficile in partenza: a due settimane dalle nozze in Nigeria avevano deciso di fuggire dalle violenze di Boko Haram dopo che le bande integraliste islamiche avevano distrutto la Chiesa del loro villaggio e nell'attentato aveva perso la vita a loro unica figlia. La donna aspettava un secondo figlio, perso in Libia a causa delle botte dei trafficanti. Poi la traversata del Canale di Sicilia e infine l'ospitalità trovata a Fermo al seminario arcivescovile. Martedì le speranze di Emanuel e Chimiary si sono interrotte per sempre.
Blitz della polizia contro traffico di migranti: 38 arresti in varie città italiane. L’inchiesta partita da un pentito. A Roma individuata la centrale finanziaria del gruppo, sequestrati 500mila euro. Il blitz scattato anche grazie alla collaborazione di un trafficante pentito che ha parlato anche di un traffico di organi. Gli schiavisti sono eritrei, etiopi e un italiano.
Le accuse a vario titolo sono per reati di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, all'esercizio abusivo dell'attività di intermediazione finanziaria, nonché di associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti.
La centrale a Roma. Individuata a Roma la centrale delle transazioni finanziarie, in un esercizio commerciale dove sono stati sequestrati 526.000 euro e 25.000 dollari in contanti, oltre a un libro mastro riportante nominativi di cittadini stranieri e utenze di riferimento.
Le dichiarazioni del pentito. Il blitz è scattato anche grazie alla collaborazione del primo trafficante di esseri umani "pentito" che da un anno collabora con la giustizia italiana. Nella sola estate del 2015 il gruppo criminale avrebbe gestito almeno sei sbarchi con i quali sono giunti a Palermo oltre 4.000 migranti, che dopo la traversata in mare vengono aiutati a fuggire dai centri di accoglienza per poi essere portati, dopo ulteriori pagamenti, a Roma o Milano, da dove proseguono il loro viaggio verso le destinazioni desiderate, principalmente la Germania, l’Olanda e la Scandinavia.
"I migranti che non possono pagarsi il viaggio consegnati agli egiziani e uccisi per prelevarne gli organi da rivendere a 15 mila dollari l’uno. Talvolta i migranti non hanno i soldi per pagare il viaggio che hanno effettuato via terra, né a chi rivolgersi per pagare il viaggio in mare, e allora mi è stato raccontato che queste persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani, che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche"
È l’aspetto più atroce che emerge dalle confessioni di Nuredin Atta Wehabrebi, il primo trafficante di esseri umani "pentito" che da un anno collabora con la giustizia italiana. Sulla base delle sue dichiarazioni, la Procura di Palermo ha ordinato il fermo di 38 persone accusate, a vario titolo, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e altri reati.
Il fatturato da milioni di euro. A parte l’accenno agli organi espiantati e venduti, di cui dice di aver saputo dai capi con cui ha lavorato in Libia, oltre che da alcuni migranti sopravvissuti, Atta Wehabrebi si è dilungato nelle sue dichiarazioni sull'organizzazione di cui ha fatto parte, che stando alle cifre ricostruite ha "fatturato" milioni di euro.
L’organizzazione opera come un vero e proprio network criminale, con diverse cellule operanti nei territori di riferimento, cui vengono attribuiti compiti specifici e determinati al fine di organizzare i viaggi e favorire così l’ingresso e la permanenza clandestina in Italia dei migranti. In un secondo momento viene organizzata la logistica per il loro allontanamento dal territorio italiano e raggiungere così la meta finale di tali viaggi, in genere un paese del Nord Europa, in cui il migrante raggiunge il suo gruppo familiare o i loro conoscenti.