giovedì 27 giugno 2019

Amnesty International. In Eritrea la repressione varca le fronriere

Rappresentanti e sostenitori del governo dell’Eritrea minacciano e prendono di mira difensori dei diritti umani e attivisti che criticano il regime oppressivo dell’Asmara, anche se sono all'estero.


Lo ha denunciato Amnesty International, in un rapporto intitolato “Eritrea, repressione senza frontiere

La grande "ipocrisia" delle Nazioni Unite. Come è possibile che un Paese come l'Eritrea, che viola costantemente i "diritti umani" sia in patria e perfino fuori dai suoi confini nei confronti degli oppositori politici, oggi possa presiedere proprio "il Consiglio Onu dei diritti umani" ??

Noi abbiamo fatto la domanda ad ognuno di voi la risposta.

Cose così NON aiutano i Diritti Umani

Secondo Amnesty International, gli Stati in cui i difensori dei diritti umani eritrei corrono i maggiori rischi sono Kenya, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera. L’elenco delle persone prese di mira comprende il prete candidato al Nobel per la pace Mussie Zerai e l’ex direttore di BBC Africa, Martin Plaut.

Per molti difensori dei diritti umani, la fuga dall'Eritrea non ha significato una pausa dalla repressione, a causa della quale molti di loro sono morti proprio mentre cercavano di allontanarsene. Devono costantemente guardarsi le spalle e controllare ogni parola che dicono, impauriti dalla lunga mano del governo eritreo che si estende ben oltre le frontiere”. Lo ha dichiarato Joan Nyanyuki, direttrice di Amnesty International per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi laghi.

I sostenitori del partito al potere e i rappresentanti del governo eritreo impiegano tutte le tattiche per impaurire coloro che criticano l’amministrazione del presidente Isaias Afewerki e le violazioni dei diritti umani cui presiede: dalle minacce di morte alle aggressioni fisiche fino alla diffusione di notizie false.

Il rapporto, che prende in esame il periodo dal 2011 al maggio 2019, evidenzia anche l’uso dell’ala giovanile del partito al potere per “combattere i nemici all'estero”, in Europa e negli Usa, spiando gli eritrei della diaspora.

Quest’anno, ad aprile, il ministro dell’Informazione Yemane Gebre Meskel e gli ambasciatori in Giappone e in Kenya, Estifanos Afeworki e Beyene Russom, hanno scritto su Twitter post minacciosi, intimidatori e denigratori contro gli organizzatori e i partecipanti a una conferenza svoltasi a Londra dal titolo “Costruire la democrazia in Eritrea”. Nel suo tweet, il ministro Gebre Meskel ha definito gli organizzatori “collaborazionisti

E intanto in Eritrea il regime prende di mira le associazione religiose. I cattolici protestano digiunando


I vescovi cattolici eritrei hanno chiamato i loro fedeli a protestare, con preghiera e digiuno, contro la continua repressione del governo e la chiusura dei loro centri sanitari e luoghi di culto.

L'Eritrea è considerata anche "La Corea del Nord dell'Africa", di fatto una dittatura totalitaria fin dai tempi del suo distacco dall'Etiopia (1991). Un paese chiuso ma da dove fuggono almeno duemila persone al mese. Un paese dove i maschi sono costretti ad un servizio militare a vita, ovvero schiavi a vita. Prigioni per oppositori politici costruite nei sotterranei di edifici pubblici. Un paese dove tutte le libertà sono precluse e l'associazionismo, politico, religioso e culturale è vietato.
In un paese così l'Italia (ex-paese colonizzatore) continua a fare "affari"

Lunedì, due settimane dopo la chiusura forzata di circa trenta cliniche cattoliche, i soldati hanno fatto irruzione in un altro centro sanitario, tra le città di Barentu e Keren, nella campagna desertica del sud-ovest del paese. Una suora che ha opposto resistenza è stata arrestata e da allora il centro è sotto il controllo dell'esercito.

Ma i cattolici non sono i soli a soffrire questa ondata repressiva
Il giorno prima, domenica, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione in un tempio metodista di Keren, arrestando tutti i fedeli presenti. Solo una metà è stata rilasciata, gli altri sono ancora in detenzione, secondo un prete cattolico eritreo. 

Alcuni giorni prima, cinque monaci ortodossi che non avevano giurato fedeltà al patriarca nominato dal regime, erano stati presi con la forza e rinchiusi in una stazione di polizia.

Nelle scorse settimane sono ricominciati anche gli arresti di fedeli delle chiese pentecostali, proibite all’inizio degli anni 2000.

Due anni fa, la violenta chiusura di una scuola musulmana privata ad Asmara, aveva provocato una protesta popolare senza precedenti nella capitale. Diversi funzionari avevano trascorso mesi in prigione e il fondatore della scuola era morto in custodia.

In questi giorni, i vescovi cattolici dell'Eritrea hanno chiamato tutti i fedeli a tre settimane di digiuno e preghiera fino al 12 luglio, in memoria, dicono, di Neemia, una figura dell'Antico Testamento che, alla corte del re della Persia, si mise in lutto quando venne a conoscenza dello stato di desolazione che regnava a Gerusalemme.

I vescovi cattolici eritrei sono abituati a dichiarazioni ritenute ostili allo stato-partito e al suo apparato di sicurezza che controlla strettamente una società turbata dall'assenza di libertà e dalla continua fuga di giovani.

Questa improvvisa repressione contro le comunità religiose è spiegata innanzitutto dal fatto che queste, specialmente la Chiesa cattolica in un paese ancora prevalentemente ortodosso e musulmano, costituiscono l'unica "società civile", oltre a fornire importanti servizi di supporto alla popolazione, come la cura o l'istruzione primaria.
(Radio France International)


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Repubblica Centrafricana. L'Unione Europea stanzia 18 milioni di euro per aiuti umanitari

L'Unione europea ha annunciato lunedì lo stanziamento di 18 milioni di euro in aiuti umanitari per la Repubblica Centrafricana.


Il denaro sarà finalizzato all'assistenza delle persone colpite dal conflitto, alla prevenzione della violenza attraverso sostegno medico, psicologico e legale alle vittime di violenza e violazioni dei diritti umani, alla lotta contro la crisi alimentare e la malnutrizione e, infine, all'assistenza a circa 592mila centrafricani, ora rifugiati nei paesi limitrofi.

Il quadro della situazione umanitaria nella Repubblica Centrafricana non ha registrato significativi miglioramenti, nonostante gli sforzi compiuti dal governo, con il sostegno dei partner internazionali, per mettere fine al conflitto scoppiato nel 2013. Nonostante la firma di accordi di pace, gruppi armati che in genere sostengono di difendere un gruppo etnico o religioso, controllano ancora parte del territorio, spesso combattendo per l'accesso alla ricchezza mineraria del paese.

Più della metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria e un quarto della popolazione è sfollato internamente. Nel paese circa 1,8 milioni di persone soffrono di una grave mancanza di cibo e quasi il 38% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica. Allo stesso modo, due terzi della popolazione non ha accesso all'assistenza sanitaria, e ai servizi sociali di base.
(Anadolu)


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Zimbabwe. Abolito l'uso di valute straniere per rafforzare il dollaro rtgs

Il dollaro statunitense e tutte le altre valute estere come il Rand sudafricano, usate dagli zimbabweani per un decennio, "non avranno più corso legale". Lo ha annunciato ieri il governo di Emmerson Mnangagwa, precisando che da ora sarà il dollaro Rtgs la moneta legale e commerciale del paese.


I "Real time gross transfer dollars" sono stati introdotti lo scorso febbraio nel tentativo di arginare il peggioramento della crisi economica e monetaria, ma il valore della valuta, finora utilizzata insieme ad altre monete estere, è crollato drasticamente da allora (50% in meno sul mercato nero), aggravando ulteriormente la situazione. Ad aprile l’inflazione aveva superato il picco del 66% e il prezzo del pane era raddoppiato in 24 ore.

Il paese non ha avuto una sua valuta dal 2009, quando ha abbandonato il dollaro dello Zimbabwe a causa dell'iperinflazione che aveva raggiunto i "500 miliardi percento"

Questa nuova manovra del ministero delle Finanze è vista come un disperato tentativo di fermare la spirale discendente del dollaro Rtgs rispetto alle altre valute, forzandone l’utilizzo. Il mese scorso lo Zimbabwe ha firmato un importante accordo con il Fondo monetario internazionale, accettando di smettere di prendere in prestito denaro dalla banca centrale per pagare i suoi conti.
(Financial Times)


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Il cinico Salvini contro la forza della tranquillità di Karola

La spocchia, l’arroganza, i muscoli, le minacce contro la logica, la fermezza, la determinazione.


È questo il duello di queste ore tra Matteo Salvini e la comandante della Sea Watch, Carola Rakete, 31 anni che da sette lavora al timone di una nave. È di nazionalità tedesca e dopo 14 giorni al largo di Lampedusa ha deciso di forzare il blocco con i 42 naufraghi a bordo, tutti migranti africani fuggiti dalle carceri libiche che tutto volevano fuorché ritornare nell'inferno del paese magrebino.

“Ho deciso di entrare in porto. So cosa rischio ma i naufraghi sono allo stremo”


Salvini quando ha saputo che la Sea Watch stava facendo rotta verso Lampedusa è andato su tutte le furie. L’ha chiamata “Sbruffoncella che vuole fare politica sulla pelle dei migranti

Ma Carola Rakete è tutt’altro che una sbruffoncella. Parla cinque lingue e a 23 anni era già al timone di una nave rompighiaccio.

La cosa che stona di più è che a “sbruffoncella” Salvini ha aggiunto che “vuole fare politica sulla pelle di qualche migrante”. Ma questo è esattamente ciò che ha fatto lui che ha costruito intere campagne elettorali sul tema immigrazione con accenti, peraltro, pesantemente minacciosi tipo: “È finita la pacchia

Carola ha invece detto di se stessa: “La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, a 23 anni mi sono laureata. Sono Bianca, tedesca, nata in un paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito il bisogno, l’obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità

Comunque vada questa vicenda Carola ha già vinto. Ha sconfitto il capitano spocchioso e arrogante che la minaccia.

La grande ipocrisia salviniana
E mentre la cattiveria di un ministro si accanisce contro 42 persone che in Libia hanno subito ogni sorta di torture impedendo il loro sbarco a Lampedusa, solo questa mattina sono arrivati su un barchino 12 persone facendosi beffe della Guardia Costiera e della Guardia di Finanzia.

Ieri erano sbarcati in 92, nei giorni precedenti, sempre all'insaputa di Salvini e sempre a Lampedusa oltre 200. Gli sbarchi sono continui, ma lui, il cattivo Salvini, continua ad accanirsi contro 42 persone prigioniere su un nave.

E come se non bastasse in queste ore, in preda al livore rabbioso, Salvini ha paventato la costruzione di un muro a Trieste al confine con la Slovenja, proprio su quel confine che fu il simbolo della divisione del mondo in due blocchi. Orribile, semplicemente orribile.




Articolo di
Maris Davis


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mercoledì 26 giugno 2019

Kenya, alla ricerca di Adam, il quarto uomo che ideò il rapimento di Silvia Romano

A Nairobi sulla difficile vicenda di Silvia Romano, rapita in Kenya il 20 novembre, la polizia è in evidente difficoltà.


A parlare con diversi investigatori si ha l’impressione che tutti sappiano chi sono i rapitori, ma che pochi siano a conoscenza dei mandanti.

Secondo notizie raccolte nella capitale keniota, accusati del rapimento, o di aver aiutato i rapitori, dovrebbero essere tre persone (il condizionale è d’obbligo da quelle parti): Ibrahim, un somalo che ha ottenuto la cittadinanza e il passaporto kenioti illegalmente; Gababa, un keniota di etnia orma e Moses Luari Chende, un giriama, l’etnia che sta sulla costa, che abita nel villaggio di Kwamwanza. Fuori su cauzione la moglie di uno dei rapitori, Elizabeth Kasena, del villaggio di Ghaba, accanto a Chakama, arrestata anche lei pochi giorni dopo il rapimento di Silvia. “La donna è finita in manette perché dal suo telefono sono partite chiamate ai numeri dei rapitori"

Moses Luari Chende invece è accusato di aver partecipato alla logistica del sequestro. Ha aiutato i banditi. Nei giorni immediatamente successivi al 20 novembre, "ha portato cibo e altri generi di prima necessità a quelli che avevano prelevato la giovane volontaria italiana”. Moses è anche lui uscito dalla galera dopo aver pagato una cauzione. Un personaggio che graviterebbe nel mondo del bracconaggio e i suoi “colleghi” non se la sarebbero sentita di abbandonarlo nelle mani della polizia e così le hanno pagato la cauzione.

Elizabeth Kesena è uscita dal carcere su cauzione dopo pochi giorni. Avevano fissato l’ammontare a 50 mila scellini (più o meno 500 euro) ma poi l’importo è sceso a 30 mila (300 euro). A Chakama una famiglia vive per un mese con 2 mila scellini, cioè una ventina di euro. Cinquecento o anche 300 euro sono una cifra abbastanza consistente.

Soprattutto l’arresto di Elizabeth ha destato parecchio stupore tra lo staff di Africa Milele, l’organizzazione per cui Silvia lavorava, perché, oltre ad essere stata in passato la ragazza e la sua famiglia, beneficiaria dei progetti della Onlus, aveva con Silvia un rapporto quotidiano, la ragazza italiana infatti andava a mangiare ogni giorno al Chakama Cafe dove Elizabeth lavorava.

Notizie su Moses sono invece più difficili da reperire, chi ha fornito la sua foto e ha cercato di avere maggiori dettagli teme qualche ritorsione, ma è certo che anche se la polizia kenyana riferisce del loro stato di arresto attuale, i due giovani sono invece liberi e rientrati nell’area di Chakama.

Racconta un altro ispettore della polizia keniota: “Con le nostre indagini abbiamo accertato che i tre ubbidivano agli ordini di un capo, un certo Adan, l’uomo che ha pianificato il sequestro. Adan è stato per ben tre volte a Chakama e ha dormito nella guest house Togo, di fronte a quella dove abitava Silvia. Testimoni ci hanno raccontato che non aveva molto da fare e ci siamo convinti che fosse andato lì per controllare la situazione. Abbiamo messo assieme i dati dei tre con quelli di Adan e abbiamo visto che c’erano evidenti connessioni. Adan è ricercato, ma è sparito

Anche l’attacco (la fase del rapimento), racconta l’ispettore, è stato anomalo: “Non sono stati usati mitra kalashnikov o armi lunghe, ma solo pistole e una granata lanciata a terra. Le persone sono state ferite per le schegge. Per questo abbiamo subito escluso il terrorismo internazionale di matrice somala

Le indagini degli investigatori del Kenya non si concentrano però solo nell'entroterra di Malindi, Chakama e i villaggi vicini. Sotto osservazione anche il lavoro che Silvia aveva fatto all’orfanotrofio di Likoni di Davide Ciarrapica e del suo socio Rama Hamisi Bindo (figlio di un potente politico locale), l’Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre.

Come sappiamo Davide Ciarrapica, un 31enne italiano e che in Italia deve scontare 6 anni di reclusione per violenza e lesioni, è considerato il "fidanzato" di Silvia. Conosciuto in Kenya durante il primo viaggio (estate 2018) e che in seguito la stessa Silvia aveva iniziato a sospettare riguardo proprio alla sua "gestione" dei bambini dell'orfanotrofio.

Racconta un’amica di Silvia: “Durante il suo primo viaggio in Kenya, Silvia era stata nel villaggio di Davide e all'inizio era contenta. Poi i loro rapporti si erano guastati. Silvia mi telefonava la sera molto costernata perché lui la trattava male e la insultava. Quasi ogni sera andava a ballare, tornava ubriaco portandosi dietro una ragazza diversa. Urlava come un pazzo ed era attaccato ai soldi. Le aveva anche chiesto di pagare di tasca sua un viaggio che era stato organizzato per i ragazzi del Centro. Quando Silvia è stata portata in ospedale per una piccola operazione alla spalla, lui l’ha mandata sola e non l’ha neanche accompagnata. Lei c’è rimasta molto male. La trattava con un certo disprezzo. L’ultima volta, il 5 novembre, Silvia è tornata nel Centro ma solo per salutare i bambini ed i suoi amici”. Ed era stata accolta con freddezza e disappunto.

Siccome questo Davide è un italiano ormai "smascherato" per essere quel balordo che è in realtà, ci chiediamo come mai le autorità italiane NON hanno ancora chiesto la sua estradizione dal Kenya, non solo perché risulta essere pesantemente coinvolto nella vicenda di Silvia Romano, ma anche e soprattutto perché in Italia lo attende la galera.
(Africa Express)

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lunedì 24 giugno 2019

Repubblica Centrafricana. Un terzo della popolazione soffre di carenza alimentare acuta

Nella Repubblica Centrafricana più di 1,8 milioni di persone, su una popolazione di meno di 5 milioni, stanno soffrendo una carenza alimentare acuta.


La denuncia arriva dall’ultima valutazione della Integrated Food Security Phase Classification (Classificazione della fase di sicurezza alimentare integrata), uno sforzo congiunto di otto ong internazionali e delle Nazioni Unite per valutare il grado di carenza nutrizionale nella popolazione.

La guerra civile in Centrafrica, scoppiata nel dicembre 2013, continua a gravare pesantemente sui suoi abitanti. Inoltre, il paese è nel mezzo della cosiddetta ‘stagione magra’, che va da maggio ad agosto. Questo è il periodo tra due raccolti, quando le persone hanno esaurito le loro scorte alimentari e la fame è particolarmente acuta. Il Programma alimentare mondiale (Pam) denuncia che quasi due milioni di persone faticano a trovare un pasto al giorno.

Il portavoce del Pam, Herve Verhoosel, prevede anche che la crisi non sarà finita al termine della ‘stagione magra’. «Quasi 1,35 milioni di persone, quasi il 30% della popolazione, saranno in grave insicurezza alimentare acuta, tra cui circa 275mila persone saranno in emergenza durante il periodo della raccolta, vale a dire settembre e ottobre»

Un quinto della popolazione ha abbandonato i luoghi d'origine
Integrated Food Security Phase
Download
Le Nazioni Unite riferiscono che oltre mezzo milione di rifugiati sono scappati nei paesi vicini per sfuggire alle devastazioni della guerra e che quasi 700mila sono gli sfollati interni.

La firma di un fragile accordo di pace a febbraio aveva dato la speranza che la crisi nel paese sarebbe presto finita presto. Le condizioni di sicurezza restano tuttavia instabili e gli attacchi armati continuano con ferocia in molte parti del paese controllate da milizie che non hanno firmato l'accordo.

La continua insicurezza ostacola le operazioni umanitarie e rende difficile, se non impossibile, fornire cibo e altri aiuti cruciali ai civili.
(VoA News)


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Etiopia, sventato un tentativo di Colpo di Stato

Il primo ministro etiopico Abiy Ahmed è apparso sabato sera alla televisione di stato in divisa militare annunciando che era appena stato sventato un colpo di Stato.

L’azione si è svolta in due momenti. Nello stato settentrionale Amhara, precisamente nel capoluogo Bahir Dar, sono stati uccisi il presidente Ambachew Mekonnen e un suo consigliere, mentre il procuratore generale è stato ferito. Alcune ore dopo ad Addis Abeba il capo di stato maggiore dell’esercito Seare Mekonnen è stato ucciso a casa sua insieme ad un suo assistente, il generale maggiore Gizae Aberra, da una guardia del corpo.

Secondo l’ufficio del primo ministro, il fallito colpo di stato era stato orchestrato dal capo dei servizi di sicurezza dello stato Amhara, generale Asamnew Tsige, amnistiato e rilasciato dal carcere l’anno scorso. Vi si trovava dal 2009, perché giudicato colpevole di un altro tentato di colpo di stato, organizzato dal gruppo di opposizione armata Ginbot 7.

Dal momento del tentato golpe, attorno alle 8,30 di sabato sera, internet è stato gradualmente chiuso in tutto il paese. Difficili erano state le comunicazioni sulla rete anche nei giorni precedenti.

Il presidente dello stato Amhara sarebbe stato ucciso durante una riunione in cui si stava discutendo di come bloccare il reclutamento di milizie su base etnica da parte del generale golpista, Asamnew Tsige.

In un video diffuso la scorsa settimana attraverso Facebook, il generale chiedeva agli Amhara di prepararsi a combattere contro altri gruppi etnici. Secondo testimoni sul posto, sabato sera a Bahir Dar ci sono state almeno quattro ore di sparatorie e diverse strade sono state chiuse. Secondo l’ambasciata americana, spari si sono sentiti anche ad Addis Abeba, in un quartiere prossimo all’aeroporto internazionale di Bole.

Il generale di brigata Tefera Mamo, capo delle forze speciali nello stato Amhara, ha dichiarato alla televisione di stato che la maggior parte dei golpisti è stata arrestata. Nessuna notizia però ha fornito sulla sorte di Asamnew Tsige, ritenuto il responsabile dell’azione.
(Reuters)


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venerdì 21 giugno 2019

Quello che Salvini non vi dirà mai. Gli sbarchi "beffa" continuano a Lampedusa e in Sicilia

Due giorni fa uno sbarco-beffa a Lampedusa. In 45 approdano sull'isola e poi fanno perdere le loro tracce.


Ieri nave madre lascia barchino a 25 miglia da Lampedusa e poi fugge. Tre gommoni alla deriva con centinaia a bordo portati a terra dalla Guardia di Finanza.

Durante la notte in cento riescono ad entrare nell'isola con barchini partiti da una nave madre battente bandiera libica.

E ancora oggi, in cento sono arrivati alla spicciolata a Trieste (via terra) dalla Slovenja. Segno evidente che anche la rotta balcanica ha ripreso vigore.

Tutto questo mentre il ministro Salvini ci pontifica che Sea Watch deve restare "prigioniera" con il suo carico umano a sole poche miglia dai nuovi arrivi "beffa"

Nessuna parola del ministro sugli "sbarchi beffa". Della serie, mentre tutti i media e l'attenzione sono concentrati su 43 persone impossibilitate a sbarcare per il divieto "razzista" di un ministro, nel frattempo almeno trecento persone (in pochi giorni) sono comunque riuscite ad entrare in Italia, via terra o via mare, in barba al ministro dei "porti chiusi"

È evidente anche ai profani che ormai i "trafficanti di uomini", quelli veri e non quelli che salvano vite in mare, hanno cambiato strategia. I migranti vengono portati a 20-25 miglia dalle coste siciliane con "navi madri" e quindi caricati su barchini e gommoni, e affidati al loro destino.

Ancora migranti a Lampedusa, ma non quelli della Sea Watch
Ancora una volta portati a terra dalle motovedette italiane, mentre i 43 a bordo della Sea Watch sono al loro decimo giorno da "ostaggi" sulla nave umanitaria tedesca a cui il governo nega l'ingresso in acque territoriali semplicemente per un puro calcolo politico e propagandistico.

Gli 81 approdati nelle prime ore del mattino a Lampedusa sono entrati in acque italiane indisturbati, anzi seguiti dall'alto da un velivolo di Frontex che aveva individuato la barca su cui viaggiavano già ieri pomeriggio mentre erano a 25 miglia da Lampedusa lasciati in zona Sar maltese da un peschereccio battente bandiera libica che alcune ore dopo è stato fermato da una motovedetta della Guardia di finanza italiana. E in mattinata sono arrivati altri due barchini con 19 persone a bordo.

Il peschereccio dei trafficanti, dopo aver fatto scendere i migranti su un gommone che portava a traino, si era subito allontanato facendo ritorno verso la Libia. È un metodo collaudato, quello della nave madre, che gli scafisti libici e tunisini stanno utilizzando sempre più di frequente per portare piccole imbarcazioni con gruppi di migranti a poche miglia dalle acque italiane e facilitarne l'ingresso.

Quando i barchini entrano in acque territoriali italiane le motovedette della Guardia di finanza vanno a recuperarli e li portano a Lampedusa. Questa volta, preavvertiti da un aereo militare, i finanzieri quando il gommone è entrato in acque italiane si sono messi all'inseguimento della "nave madre" riuscendo a raggiungerlo dopo alcune ore. Adesso lo hanno sequestrato e lo stanno trainando a Lampedusa.

Tra gli 81 arrivati all'alba a Lampedusa anche 4 donne e 3 bambini. Hanno detto di essere partiti dalla spiaggia libica di Al Zwara. Vengono da Bangladesh, Algeria, Siria, Senegal, Marocco, Tunisia e Libia.

Oltre cento migranti rintracciati a Trieste
Provengono per lo più dal Pakistan, sono stati rintracciati questa mattina a Trieste e nel comune di San Dorligo della Valle (Trieste) dalle volanti della Questura e dai Carabinieri.

I gruppi sono stati individuati in diversi punti. Alcuni mentre camminavano tra piazzale Cagni, altri in un'area centrale del capoluogo, altri ancora nella frazione di Domio, nell'area carsica, vicino al confine con la Slovenia. I migranti sono stati quindi accompagnati nei centri di foto-segnalamento di Fernetti, Porto Nuovo e Questura per le operazioni di identificazione.

Salvini
E sul caso Sea Watch si registra una iniziativa del ministro dell'Interno Matteo Salvini che ha scritto una lettera al premier Conte chiedendogli di intervenire sul governo olandese di cui la nave batte bandiera. "La nave staziona da sette giorni al limite delle nostre acque territoriali. Non possiamo consentire a nessuno di decidere autonomamente dove e come condurre cittadini di Paesi terzi. A fronte della possibile evoluzione della situazione a bordo ritengo necessario che la perdurante efficacia del divieto di transito nel mare nazionale sia accompagnata da una energica nuova iniziativa di sensibilizzazione nei confronti delle autorità dei Paesi Bassi"

Nazioni Unite
Mentre l'Onu chiede all'Europa e all'Italia di concedere un porto sicuro alla Sea Watch, l'Unhcr ribadisce che "nessun porto in Libia può essere considerato sicuro in questo momento e che nessuna persona soccorsa nel Mar Mediterraneo dovrebbe essere riportata in quel Paese. Sono necessari sforzi rinnovati per sviluppare un approccio regionale alla gestione del soccorso nel Mediterraneo e del successivo sbarco"

E intanto, a sorpresa, a pochi giorni dalla missione americana di Salvini e dal suo incontro con il segretario di Stato Mike Pompeo, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha declassato l'Italia in relazione alle attività di contrasto al traffico di esseri umani. È quanto emerge dal rapporto diffuso dal dipartimento: l'Italia è stata portata al livello Tier 2. "Il governo dell'Italia non ha raggiunto pienamente gli standard minimi per l'eliminazione del traffico, ma sta facendo sforzi significativi per farlo. Questi includono l'aumento dei fondi per l'assistenza delle vittime e la collaborazione internazionale sulle azioni giudiziarie. Tuttavia, questi sforzi non sono stati seri e sostenuti, rispetto a quelli del periodo precedente"




Articolo a cura di
Maris Davis


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giovedì 20 giugno 2019

Nigeria. Le bambine kamikaze di Boko Haram

Rapire ragazze adolescenti per farle diventare "bombe umane", usarle come schiave sessuali, costringerle a convertirsi all'Islam, o a diventare le spose "bambine" degli stessi miliziani che le hanno rapite.


La svolta nella strategia del terrore in Nigeria si ebbe nel 2014, con il rapimento di 278 studentesse in una scuola di Chibok, nel Borno State, quel 14 aprile 2014. Il più grande rapimento di massa che la Nigeria ricordi.

Se quell'atto criminale destò sdegno e riprovazione in tutto il mondo con l'ormai famosissima campagna #BringBackOurGirls (restituiteci le nostre ragazze), le decine e decine di rapimenti successivi di ragazze, bambine e bambini che sono avvenuti durante questi ultimi 5 anni non hanno trovato nell'opinione pubblica mondiale lo stesso sdegno. Purtroppo anche all'orrore si fa l'abitudine.

Si calcola che, ad oggi, ci siano più di duemila ragazze prigioniere di Boko Haram

La strategia di Boko Haram era, ed è, sempre la stessa: assaltare villaggi, bruciare tutto, uccidere gli uomini e rapire le ragazze, ed infine fuggire, nascondersi fino al prossimo raid. Azioni rapide e mirate, ma soprattutto pianificate, e che il debole (e corrotto) esercito nigeriano NON riesce a contrastare, nonostante gli altisonanti proclami che il presidente nigeriano Buhari (mussulmano) ha fatto per farsi rieleggere anche per il secondo mandato. Proclami rimasti fine a se stessi e che non hanno sortito effetti sul campo.

La coalizione Nigeria-Niger-Camerun-Ciad
Nel 2015 Boko Haram con un'offensiva senza precedenti conquistò decine di città del nord-est della Nigeria dove proclamò lo "Stato Islamico dell'Africa Occidentale" in un territorio grande come Belgio e Olanda messi insieme.

Per contrastare questa avanzata jihadista fu organizzata la coalizione africana dei quattro eserciti, Nigeria, Niger, Ciad, e Camerun, tutti paesi già coinvolti dal terrorismo di Boko Haram.

Nei due anni successivi ci fu quindi la contro-offensiva e via via tutte le città dello Stato Islamico di Nigeria furono riportate sotto il controllo dello governo nigeriano e così vennero alla luce tutti gli orrori commessi dai miliziani durante i lunghi mesi della loro permanenza. Si parlò di fosse comuni, cadaveri a decine lasciati nelle strade, stupri e un generale terrore della popolazione imprigionata nei loro stessi villaggi.

Il grosso dei miliziani riuscì a riparare e a nascondersi nell'impenetrabile foresta di Sambisa dove nessuno dei quattro eserciti, non quello nigeriano, ha mai messo piede.

Se è vero che le città sono state liberate, è altrettanto vero che Boko Haram non è stato sconfitto, e le conseguenze di quella vittoria a metà si vedono oggi, due anni dopo, dove a presidiare quel territorio è rimasto un esercito nigeriano debole, male equipaggiato e attraversato da contrasti interni (tra ufficiali cristiani e mussulmani per esempio), scoraggiato e senza motivazioni, e certamente permeato da una corruzione storica.

Quello che si sa è che le notizie che arrivano oggi dal quadrante nord-est della Nigeria, zona di influenza di Boko Haram, sono sempre frammentarie, o arrivano in ritardo, praticamente censurate per coprire il fallimento dello Stato.

Esercito regolare che arriva sempre in ritardo, nonostante si trovi nelle vicinanze dei raid o a poche decine di chilometri e magari fosse stato preventivamente avvisato (i casi da citare sarebbero tantissimi), e le poche volte che l'esercito affronta le milizie di Boko Haram subisce sempre ingenti perdite (in vite umane), si dimostra impreparato e non adeguatamente equipaggiato per contrastare un nemico che è sempre in possesso di armi di ultima generazione (fornite non si sa da chi, o forse si sa e non si dice), in un territorio scarsamente presidiato, ormai semidistrutto e oggi alle prese con una gravissima crisi umanitaria, da dove sono fuggite 2,7 milioni di persone.


Bambine e adolescenti usate come bombe umane
Già nel 2015 noi denunciammo l'uso delle bambine per fare attentati. La stessa denuncia che facevano le organizzazioni umanitarie e le stesse Nazioni Unite, ma che non hanno trovato la necessaria indignazione nei governi occidentali e nelle opinioni pubbliche di quei paesi che oggi vengono a dirci "aiutiamoli a casa loro"

Nel 2019 sono già stati cinque le kamikaze minorenni utilizzate in attentati islamisti in Nigeria. L’ultimo attentato, quello di domenica sera a Konduga, nello Stato del Borno, vicino alla capitale Maiduguri, è stato compiuto da tre minorenni, due femmine e un maschio. I tre kamikaze si sono fatti saltare in aria fra la folla che seguiva all'aperto una partita di calcio in TV. Ci sono stati oltre trenta morti e diverse decine di feriti. Un quarta ragazza non è riuscita a farsi saltare in aria solo perché il congegno esplosivo che indossava si è inceppato.

Ma il 2019 non è stato l’anno in cui sono stati usati più baby-kamikaze. Nel 2018 furono 48, fra cui 38 ragazzine. Ancora più alto il numero nel 2017, quando vi furono 45 piccoli e 101 piccole kamikaze. Oltre all'uso dei minori come kamikaze c’è il dramma complessivo dei ragazzini usati in guerra.

Si stima che almeno 3500 minori sono stati sfruttati da miliziani armati nel Nord-est della Nigeria, dove operano i gruppi jihadisti Boko Haram e Stato Islamico in Africa occidentale (Iswa). I minori non vengono utilizzati solo come soldati in azioni propriamente militari, ma anche per altri compiti, come per esempio spie, vedette in missione preventiva nei villaggi da assaltare, e le bambine vengono sfruttate sessualmente.

I bambini e le bambine soldato
Si tratta di dati che riguardano solo il Nord-est della Nigeria, ma il fenomeno dei bambini soldato è diffuso in tutta l’Africa, nei Paesi all'interno dei quali ci sono conflitti.

Una sorta di record è detenuto dal Sud Sudan e poi dalla Repubblica Centrafricana e dal Sudan, che è l’unico Paese al mondo (quest'ultimo) che abbia tre conflitti attivi al suo interno: quello in Darfur, quello nel Sud Kordofan e quello nel Blue Nile, e oggi alle prese con un colpo di stato tutt'altro che risolto. Anche la Repubblica Democratica del Congo ha diversi conflitti interni aperti, e anche qui il fenomeno dei bambini in guerra è ampiamente diffuso.




Articolo di
Maris Davis


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