Della sorte della cooperante italiana rapita a Malindi lo scorso novembre parlano due dei banditi che la sequestrarono e ora finiti in carcere.
Presto gli inquirenti italiani torneranno a Nairobi. Per il suo rapimento ancora ricercate cinque persone.
Ci sono elementi concretiper ritenere che Silvia Romano, la cooperante milanese di 23 anni, rapita in Kenya il 20 novembre 2018, fosse in vita almeno fino al giorno di Natale. La circostanzaè emersa nell'ambito del vertice che le autorità giudiziarie e investigative italiane e kenyote hanno svolto oggi a Roma. A confermare l’esistenza in vita della ragazza almeno fino a quella data sono stati due cittadini kenyoti, criminali comuni, arrestati il 26 dicembre del 2018 perché ritenuti tra gli esecutori materiali del sequestro. La ragazza, secondo quanto riferito dai due che saranno processati a Nairobi il 29 e 30 luglio prossimi, è stata poi ceduta a un’altra banda.
Nel corso del vertice, cui hanno preso parte il procuratore generale del Kenya Noordin Mohamed Haji e il pm Sergio Colaiocco, titolare del procedimento aperto a Roma, sono state ricostruite nei dettagli le fasi del sequestro avvenuto nella Contea di Kilifi: protagonista un gruppo di otto persone armate di Ak47 e granate che ha fatto irruzione nel centro commerciale di Chacama.
Silvia fu pedinata per giorni prima di essere rapita
Il rapimento sarebbe riconducibile a criminali locali che per l'operazione avevano acquistato fucili e granate e avevano seguito la giovane nei giorni precedenti. Silvia Romano, che è stata portata via senza cellulare e senza passaporto, fu caricata su una moto che si è diretta verso una boscaglia nei pressi del fiume Tana. Degli otto banditi che presero parte al rapimento, cinque sono attualmente ricercati, mentre i due che saranno processati a breve sono finiti in manette il giorno di Santo Stefano. Un terzo elemento fermato dalla polizia è un cittadino somalo di 35 anni trovato in possesso di una delle armi utilizzate in quel blitz in cui rimasero feriti anche due minori, ha ammesso le sue responsabilità.
A breve nuova missione dei Ros in Kenya
Una squadra dei carabinieri del Ros tornerà a breve a Nairobi. La nuova missione, dopo quella svolta già nello scorso mese di aprile, è stata definita oggi nell'ambito del vertice organizzato a Roma tra le autorità inquirenti e investigative italiane e kenyote.
I carabinieri, su delega del pm Sergio Colaiocco, partiranno per il Kenya per acquisire nuovo materiale probatorio raccolto dalle autorità locali che sono al lavoro per catturare cinque degli otto elementi della banda di sequestratori. E sempre nell'ambito dell’incontro di oggi, le autorità giudiziarie italiane si sono impegnate a garantire, tramite la Guardia di Finanza, un supporto investigativo alla magistratura del Kenya impegnata a indagare su un caso di corruzione collegato alla costruzione di tre dighe il cui appalto era stato vinto da una ditta romagnola.
I giudici della Corte penale internazionale hanno ritenuto l’ex warlord filorwandese responsabile di diciotto capi d’accusa per crimini di guerra e contro l’umanità compiuti nella Repubblica democratica del Congo, con la complicità del Rwanda.
L’ex signore della guerra congolese, Bosco Ntaganda, tristemente noto come “Terminator”, è stato giudicato colpevole dalla Corte penale internazionale (Cpi) per 18 capi d’accusa relativi a crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Tra questi spiccano: esecuzioni sommarie, stupri di massa, schiavitù sessuale, mutilazioni, trasferimento forzato della popolazione civile e arruolamento di bambini soldato. Il tribunale dell’Aia ha stabilito che l’entità della condanna che dovrà scontare in carcere, sarà determinata in una successiva udienza.
Chi è stato Bosco Ntaganda
Il quarantacinquenne Ntaganda, di etnia tutsi, è stato accusato di aver diretto e pianificato il massacro di civili compiuto dai suoi soldati nella regione dell'Ituri, nell’est della Repubblica democratica del Congo, tra il 2002 e il 2003. All'epoca, l’imputato era al comando delle operazioni militari delle Forze patriottiche per la liberazione del Congo (Fplc), l’ala armata del gruppo ribelle che rispondeva all'altisonante nome di Unione dei patrioti congolesi (Upc), ma non era niente altro che una delle numerose sanguinarie milizie attive da anni nel paese.
La carriera militare dell’ex capo ribelle è iniziata nel 1990, quando, ad appena 17 anni, si unì al Fronte patriottico rwandese (Fpr), oggi al potere a Kigali (Rwanda). Da allora, ha fatto parte di diversi gruppi armati e nel gennaio 2008, dopo la cattura dell’ex generale filorwandese Laurent Nkunda in Rwanda (che sarebbe stato tradito proprio da Ntaganda), è diventato il leader dei ribelli tutsi del Cndp (Congresso nazionale per la difesa del popolo). Il 23 marzo 2009 ha firmato un accordo di pace con il governo di Kinshasa e, nonostante si fosse macchiato di efferati crimini, venne integrato con il grado di generale insieme a tutti i suoi uomini, nei ranghi dell’esercito regolare congolese.
Nell'aprile del 2012, esasperato dalle promesse non mantenute dell’allora presidente congolese Joseph Kabila, insieme a circa altri 700 soldati a lui fedeli disertò, tornando sulle colline del Nord Kivu dove creò il nuovo gruppo M23 (richiamandosi proprio agli accordi del 23 marzo 2009) che nel giro di qualche mese riuscì a prendere Goma, capitale della provincia del Nord Kivu e città strategica del Congo orientale.
Il processo
Nel corso delle udienze cominciate il 2 settembre 2015, le decine di testimoni, tra cui un elevato numero di ex bambini soldato, hanno fornito ai pubblici ministeri orribili particolari sul trattamento riservato alle vittime delle violenze dell’Upc. I giudici hanno anche accertato che Ntaganda uccise personalmente un sacerdote cattolico. Gli attacchi della milizia paramilitare, composta principalmente da uomini di etnia Hema, presero di mira specifici gruppi etnici come Lendu, Bira e Nande.
Gli attivisti per i diritti umani hanno accolto favorevolmente la decisione della corte. «Coltiviamo la speranza che il verdetto di oggi offra qualche consolazione alle migliaia di persone colpite dai crimini di Ntaganda e spiani loro la strada per ottenere finalmente giustizia», ha twittato Amnesty International.
Mentre le organizzazioni congolesi che hanno raccolto le prove per contribuire a garantire la condanna di Ntaganda, hanno detto che altri sospetti criminali godono ancora di impunità e che numerose atrocità continuano a essere commesse nella Repubblica Democratica del Congo.
Bosco Ntaganda era rimasto in libertà per sette annidopo che nel 2006 la Corte dell'Aja aveva spiccato il mandato di arresto nei suoi confronti, suscitando l’irritazione dei giudici del Tribunale internazionale per le sue frequenti apparizioni in pubblico.
La paura di essere ucciso dai suoi stessi uomini
Poi, con una mossa a sorpresa, nel marzo 2013, si è consegnato all'ambasciata degli Stati Uniti a Kigali, in Rwanda. I motivi all'origine della resa di Ntaganda, potrebbero essere riconducibili alle guerre intestine che minarono l’M23 e sancirono la sconfitta della fazione guidata dall'ex signore della guerra, che per evitare di essere eliminato nella faida interna si rifugiò all'interno dell’ambasciata americana in Rwanda. Da dove chiederà di essere estradato all'Aia per rispondere delle accuse formulate nei suoi confronti.
Bosco Ntaganda è uno dei cinque ex signori della guerra congolesiche sono comparsi dinanzi ai giudici della Cpi, istituita nel luglio 2002 per giudicare i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e i genocidi, in qualunque posto e in qualunque momento siano stati commessi.
Nel luglio 2012, la Corte ha condannato a 14 anni di carcere il fondatore dell’Upc, Thomas Lubanga, per la coscrizione forzata di bambini soldato, mentre negli anni recenti ha prosciolto diversi imputati. Tuttavia, alcuni paesi africani hanno ripetutamente accusato l’istituzione internazionale di concentrare la propria azione solo sugli africani, mentre crimini di guerra e contro l'umanità vengono compiuto in continuazione ovunque, soprattutto in Asia e in Medio-Oriente.
La Nigeria era il grande assente dall'accordo. Ma ha firmato in occasione del vertice UA (Unione Africana) a Niamey. Alla nuova area, la più grande al mondo, hanno così aderito 54 dei 55 paesi membri dell'UA, resta fuori solamente l'Eritrea.
Il presidente nigeriano Muhammadu Buhari mentre firma il trattato AfCFTA
Anche la Nigeria e il Benin hanno firmato l'adesione alla nuova Area di libero scambio continentale. L'intesa è stata siglata dai rispettivi presidenti, Muhammadu Buhari e Patrice Talon, in occasione del summit straordinario dell'Unione africana a Niamey, in Niger.
Alla nuova area hanno così aderito 54 dei 55 paesi membri dell'UA, con la sola eccezione dell'Eritrea. Il lancio della nuova Area di libero scambio continentale arriva dopo 17 anni di duri negoziati. L'iniziativa darà luogo alla più grande area di libero scambio del mondo e, secondo le attese degli esperti, dovrebbe significare una crescita del 60% dell'interscambio tra i paesi del continente entro il 2022. La Nigeria, maggiore economia africana, ha annunciato solo la settimana scorsa l'intenzione di aderire al patto dopo essersi ritirata a sorpresa dai colloqui lo scorso anno.
È un successo soprattutto del presidente del Rwanda, Paul Kagame, vero e proprio padre politico del mercato comune africano. Quando da presidente dell’Unione africana, il 21 marzo 2018 assicurava sull’entrata in vigore dell’accordo nei tempi previsti, in molti avevano storto il naso tacciando il presidente di troppo ottimismo.
A oltre un anno dalla firma della Dichiarazione di Kigali l’area di libero scambio continentale africana (AfCFTA, nell’acronimo inglese di African Continental Free Trade Agreement) è oggi divenuta realtà. Questo è stato possibile grazie al lavoro compiuto da parte di 22 paesi, la metà dei 44 stati fondatori (poi saliti a 54).
A Niamey, in Niger, è scattato il lancio della “fase operativa”. Da qui inizierà il periodo transitorio in cui i singoli governi dovranno costruire i protocolli e le regole necessarie al funzionamento effettivo dell’area di libero scambio, ad oggi, esistente solo sulla carta.
L’obiettivo è ambizioso. Promuovere il commercio interno che oggi rappresenta solo il 17% delle esportazioni dei paesi africani, troppo poco se comparato con il 59% dei paesi dell’Asia e il 69% dell’Europa. Così facendo, sperano i sostenitori dell’AfCFTA, si potrà arrivare a quella “industrializzazione” del continente, con annessa crescita dell’occupazione, che rappresenta uno degli obiettivi dell’Agenda 2063 dell’Unione africana. Anche se non mancano le voci critiche di chi vede nel processo di liberalizzazione un rischio per le economie più deboli non in grado di reggere la concorrenza.
Secondo la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, la crescita del mercato interno favorirà lo sviluppo dei comparti agricolo e manifatturiero che oggi rappresentano la parte più consistente del commercio interno. Questo sarà possibile grazie alla creazione di un mercato di 1,2 miliardi di persone, del valore di 2,5 trilioni di dollari.
Il trattato costitutivo prevede l’abolizione del 90% delle linee tariffarie, ma lascia ai singoli governi la possibilità di indicare un 7% di prodotti sensibili (che verranno liberalizzati in tempi più lunghi) e di escludere dal processo il 3% delle categorie merceologiche. Questo per tutelare, almeno in una prima fase, i settori più delicati dell’industria nazionale.
Secondo quanto riportato dall'African Economic Outlook 2019 i benefici dell’AfCFTA in termini di reddito reale possono oscillare tra i 2,8 miliardi e i 100 miliardi di dollari. Una forbice davvero notevole che dipenderà da quale risposta verrà data a queste sfide.
Tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione. Operazione Hope and Destiny della polizia di Stato, nove persone in carcere. Intimidazioni e violenza per convincere giovani ragazze nigeriane a prostituirsi.
Nella mattinata di oggi (9 luglio), all'esito di un'attività di indagine condotta dalla Squadra Mobile di Parma, personale della Questura di Parma, con l’ausilio del personale delle Squadre Mobili di Bologna, Reggio Emilia e Verona e del Reparto Prevenzione Crimine “Emilia Romagna Occidentale”, ha dato esecuzione all'Ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP presso il Tribunale di Bologna Francesca ZAVAGLIA su richiesta del Sost. Proc. Stefano ORSI della Procura Distrettuale Antimafia di Bologna, nei confronti di 9 cittadini nigeriani responsabili di far parte di due distinte associazioni criminali dedite alla tratta di esseri umani dalla Nigeria.
Arrestati e Indagati
Sono stati raggiunti da misura cautelare:
ANON Mabel, nata ad Irrua (Nigeria) il 18.05.1980 e residente a Bologna;
EROMOSELE Peter, nato ad Uromi (Nigeria) il 23.11.1970 e residente a Bologna;
EROMONSELE Musa Frank, nato ad Uromi (Nigeria) il 05.10.1990, domiciliato a Parma;
ANTHONY Hilda, nata a Maiduguri (Nigeria) il 24.12.1991 e residente a Parma;
Tutti gravemente indiziati di aver fatto parte, con vari ruoli e con altre persone in Nigeria, di un’associazione a delinquere finalizzata all'organizzazione dell’ingresso clandestino di donne nigeriane sul territorio italiano per far loro esercitare la prostituzione.
ADAKA Shedrack, nato ad Ijede Isoko North (Nigeria) il 13.06.1979 e residente a Parma;
OSEBHANDRE Cosmos, nato ad Uromi (Nigeria) e domiciliato a Parma in via Savani n. 7;
UWUMAHONGIE Blessing Osarumen, nata ad Urora (Nigeria) e residente a Verona;
Sono gravemente invece indiziati di aver fatto parte, con vari ruoli e con altre persone in Nigeria ed in Libia, di un’associazione a delinquere finalizzata alla tratta di donne nigeriane dalla Nigeria all'Italia attraverso la Libia per far loro esercitare, in Italia ed altri Paesi Europei, la prostituzione. Anche per questi tre è stata disposta la misura cautelare della Custodia in carcere.
OMORODION Sarah nata a Benin City (Nigeria) il 03.05.1991 e residente a Parma;
È invece indagata per il reato di cui all’art. 12 co. 3 e 3ter D.Lgs. 286/98, per aver finanziato l’ingresso clandestino in Italia di almeno tre donne nigeriane attraverso la Libia, da destinare alla prostituzione sul territorio Italiano.
MATHEW Eddy, nato in Nigeria il 15.10.1985, ivi residente, domiciliato a Parma in strada dei Mercati n. 3.
Indagato per i reati di cui all’art. 73 DPR 309/90 per aver ceduto in varie circostanze quantità imprecisate di sostanza stupefacente del tipo marijuana e per lesioni personali nei confronti di una giovane donna nigeriana che si era rifiutata di prostituirsi.
Sono tuttora in corso le ricerche di ADAKA Shedrack ed ANTHONY Hilda che si sono sottratti alla cattura.
Nel corso dell’operazione sono state, altresì, eseguite perquisizioni locali a carico dei medesimi destinatari di misura e di altri 4 soggetti, indagati in stato di libertà nell’ambito del medesimo procedimento, identificati in: E.J. classe ’80; C.K. classe ’93; O.S. classe ’90; O.T. classe ’88.
Operazione Hope and Destiny
L’attività d’indagine ha avuto inizio nell'agosto del 2016, quando una giovane nigeriana, vittima di una violenta aggressione a seguito della quale aveva riportato delle lesioni guaribili con una prognosi di 15 giorni, si è presentata presso gli uffici della Squadra Mobile formalizzando denuncia/querela nei confronti di alcuni suoi connazionali, asserendo che questi, sodali ad un gruppo criminale, l’avevano fatta giungere in Italia con false promesse di un lavoro regolare per poi costringerla a prostituirsi per ripagare il debito contratto.
La circostanza che aveva determinato la donna a sporgere denuncia era certamente da individuare nella violenta aggressione, i cui responsabili sono stati successivamente identificati in EROMONSELE Musa Frank e MATHEW Eddy, che avevano agito al fine di punire la donna per la sua fuga dall’appartamento in cui era stata collocata per esercitare il meretricio.
La giovane, di fronte agli agenti della Squadra Mobile, dopo un primo momento di ritrosia, ha spiegato di esser giunta in Italia nell'aprile del 2016, in quanto un uomo conosciuto nella città di Lagos (tale Godfrey), le avrebbe prospettato la possibilità di un trasferimento in Italia dove, grazie ad una donna da lui conosciuta, avrebbe potuto continuare gli studi interrotti in Nigeria e trovare un lavoro.
La ragazza avrebbe accettato la proposta e sarebbe stato lo stesso Godfrey a procurarle i documenti per il viaggio (passaporto e visto di ingresso), nonché i biglietti aerei per il volo con destinazione Bologna. Accolta in aeroporto da un uomo, poi identificato EROMOSELE Peter, la giovane è stata condotta in un’abitazione della città Felsinea dove ha conosciuto ANON Mabel che, dopo averle detto che aveva un debito con lei di 45.000 €, immediatamente le ha requisito il passaporto e, senza giri di parole, le ha detto che l’avrebbe ripagato prostituendosi per lei nella città di Parma, minacciandola che, se avesse chiamato la polizia, avrebbe fatto ammazzare i suoi genitori in Nigeria.
La giovane, dunque, è stata condotta da EROMOSELE Peter in un appartamento in via Corso Corsi a Parma ed affidata alla “vigilanza” ed al “controllo” del fratello di Peter – EROMONSELE Musa Frank, e della compagna di quest’ultimo ANTHONY Hilda, la quale svolgeva anch’essa l’attività di meretricio ed era stata introdotta nell’organizzazione capeggiata da ANON Mabel, proprio per svolgere il ruolo di controllo sulle “sue” ragazze (come riscontrato dalla successiva attività tecnica). Continuando nel racconto, la giovane ha spiegato che, intimorita dalle minacce di ANON Mabel e dal controllo esercitato su di lei da ANTHONY Hilda ed EROMONSELE Musa Frank, è stata costretta a prostituirsi nell’appartamento di via CORSO CORSI fino al mese di agosto, dando tutto il ricavato ad ANTHONY Hilda che, a sua volta lo consegnava ad ANON Mabel ed EROMOSELE Peter tramite accrediti postepay o personalmente quando i due passavano da Parma. Ad agosto, la giovane, stanca delle angherie subite, insieme ad un’altra giovane nelle sue stesse condizioni, è scappata dall’appartamento, rifugiandosi presso un “presunto” amico nigeriano conosciuto a Parma (identificato in ADAKA Shedrack); tuttavia, è stata presto rintracciata da EROMONSELE Musa Frank che, con l’appoggio di MATHEW Eddy, le ha fatto capire quanto fosse difficile sottrarsi al giogo dell’organizzazione. Dopo pochi giorni, la giovane si è nuovamente presentata negli Uffici della Squadra Mobile, spiegando che aveva iniziato a ricevere delle telefonate minatorie dalla Nigeria da una persona che lei riteneva vicina a GODFREY con cui le intimavano di restituire quanto dovuto ad ANON Mabel.
I primi accertamenti svolti dal personale della Squadra Mobile, hanno permesso di riscontrare pienamente le parole della giovane e di identificare compiutamente i soggetti da lei indicati; Contestualmente, gli approfondimenti svolti sul conto dello stesso ADAKA Shedrack, hanno consentito, sin da subito di ipotizzare che il suo vero scopo, lungi dall’essere quello di affrancare la giovane dal giogo del gruppo di ANON Mabel e renderla libera, fosse quello di “sottrarre” una risorsa alla stessa e farla “propria” garantendo, per sé, una fonte di guadagno.
Questa ipotesi investigativa, supportata anche dagli esiti delle prime attività tecniche, ha trovato un ulteriore riscontro nei primi mesi del 2017, quando una seconda ragazza nigeriana ha sporto, presso il Comando della Polizia Locale, una denuncia per maltrattamenti e violenza sessuale a carico dell’uomo.
La giovane, risentita dal personale della Polizia di Stato, ha raccontato tutta la sua storia, descrivendo con puntualità il viaggio che, attraverso il deserto del Sahara ed il mar Mediterraneo, l’aveva condotta nel settembre del 2015 sulle coste italiane, per poi esser collocata presso il CARA di Verona. La ragazza ha spiegato che giunta in Libia, per il tramite di una sua amica che aveva fatto insieme a lei il viaggio dalla Nigeria, ha parlato per la prima volta con ADAKA Shedrack, il quale le avrebbe prospettato la possibilità di lavorare come cameriera presso il suo ristorante in Italia, offrendosi di pagarle il viaggio.
Accettata la proposta ed affidatasi all’organizzazione di ADAKA Shedrack, la giovane è stata alloggiata, prima, presso il “ghetto” di Adams nella città di Sebha e, successivamente, presso il “ghetto” di Osas a Tripoli, dove sarebbe rimasta per alcuni giorni prima di essere caricata, insieme ad altre 300 persone, nella stiva di un barcone che l’avrebbe condotta sull’isola di Lampedusa. Dopo due mesi di permanenza presso il CARA di Verona, la giovane ha raggiunto a Parma il suo “benefattore” ed è solo in quel momento che ha scoperto che non vi era alcun ristorante presso cui lavorare, che aveva contratto un debito di 40.000,00 € per il viaggio e che per ripagarlo, si sarebbe dovuta prostituire. Continuando nel suo racconto, la giovane ha spiegato che ADAKA Shedrack, in alternativa al pagamento, le avrebbe chiesto di sposarlo e, ricevuto il suo rifiuto, l’avrebbe stuprata e rinchiusa in una camera da cui sarebbe uscita solo dopo alcuni giorni per partire, insieme ad una tale Angel (poi identificata in O.S. classe ’90) alla volta di Losanna (CH), dove è stata costretta a prostituirsi fino al marzo 2016 consegnando l’intero ricavato ad ADAKA Shedrack, per il tramite della sua madame.
Rientrata in Italia, sotto la minaccia continua di ADAKA Shedrack e dei suoi accoliti, la giovane è stata costretta ancora a prostituirsi a Parma e nella città di Verona fino a quando ha deciso di denunciare il suo aguzzino, cercando rifugio presso quello che sarebbe poi diventato il suo compagno: a partire da questo momento, sono iniziate le minacce verso i suoi familiari a Benin City.
Anche le parole di questa seconda ragazza, sono state riscontrate dai primi accertamenti e la successiva articolata attività investigativa, ha consentito di individuare l’esistenza di due distinti sodalizi criminali composti da cittadini nigeriani, accomunati in gran parte dei casi da vincoli di parentela, dediti alla tratta di giovani donne, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e allo sfruttamento della prostituzione: Il gruppo “Bolognese” facente capo ad ANON Mabel ed al marito EROMOSELE Peter e quello “Parmigiano” al cui vertice si attestava ADAKA Shedrack.
Tuttavia, al di là delle espressioni “Bolognese” e “Parmigiano” utilizzate esclusivamente per distinguerli, entrambi i gruppi - in cui il GIP ha rinvenuto i crismi dell’associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. – si caratterizzavano per una struttura transnazionale e per una rete di contatti nel Nord Italia ed in altri paesi europei che consentiva loro di gestire i propri interessi fuori dalle due città in cui le figure apicali avevano fissato la propria sede. Ed invero, la prima organizzazione, che si strutturava principalmente intorno alle tre figure di ANON Mabel e del marito EROMOSELE Peter (i quali, in Italia, nell'interesse comune del gruppo, gestivano, rispettivamente, lo sfruttamento della prostituzione delle giovani connazionali fatte giungere dalla Nigeria e lo spaccio di stupefacenti, nonché i rapporti con gli interlocutori e i “clienti” del sodalizio) e di Godfrey (figura apicale del gruppo), aveva sicuramente ramificazioni, oltre che a Parma, a Catania, in Toscana, a Torino ed appoggi in Olanda; Mentre, la seconda organizzazione, facente capo ad ADAKA Shedrack e che si avvaleva, tra gli altri, dell’apporto di tale ADAKA Godwin dimorante in Nigeria (il quale curava gli aspetti finanziari e la selezione delle ragazze) e di tale OSAS (che gestiva un cosiddetto “ghetto” a Tripoli dove le ragazze attendevano la partenza dalle coste libiche) aveva propri contatti a Verona, a Losanna (CH) ed a Montpellier (FR) dove avviava alla prostituzione le proprie donne.
La “principale” attività criminale del c.d. gruppo “bolognese”, al cui vertice si collocavano GODFREY ed i coniugi ANON Mabel ed EROMOSELE Peter, era senza dubbio il finanziamento e l’organizzazione dei viaggi dalla Nigeria per consentire l’ingresso clandestino in Europa di loro connazionali, sia uomini che donne; alcune di queste donne, con l’apporto di EROMONSELE Peter ed ANTHONY Hilda, venivano avviate alla prostituzione e gestite “in proprio” dall’organizzazione, mentre altre venivano “consegnate” a connazionali già stabilitisi in Italia che le “commissionavano” e le “selezionavano” in base all’età ed alla provenienza geografica.
Un’organizzazione ben rodata che si avvaleva del “più sicuro” vettore aereo per il viaggio verso l’Italia e che garantiva ai propri “clienti” il disbrigo delle pratiche burocratiche quali l’ottenimento di un passaporto, il rilascio del visto, la provvista economica ed il valido alloggio in Italia da dimostrare ai controlli in frontiera.
Quegli stessi passaporti creati con false generalità, venivano recuperati dopo l’arrivo in Italia e riutilizzati per il viaggio di altri clandestini. Il prezzo complessivo del “servizio” richiesto ai “committenti” era di 7/9000 € per gli uomini e 10/12000 mila euro per le donne, con la clausola che per le donne era possibile un pagamento dilazionato nel tempo, mentre per gli uomini era necessario pagare la metà del prezzo pattuito prima della partenza e saldare al loro arrivo in Italia. Naturalmente, queste erano le cifre che l’organizzazione pretendeva dai propri clienti i quali, a loro volta, avrebbero preteso dalla “propria gente” un pagamento di una somma non inferiore ai 45/50000 € per potersi affrancare dal loro controllo.
Lo spaccio di sostanze stupefacenti
Il traffico di stupefacenti era un’attività sicuramente collaterale rispetto al “cuore” del contesto criminale emerso dall'attività investigativa, ma rappresentava al tempo stesso un “collante” che accomunava ed univa tutti i protagonisti “italiani” del gruppo “bolognese”. Da MATHEW Eddy, attualmente in carcere in espiazione di un definitivo per traffico di sostanze stupefacenti, il quale si riforniva di stupefacente anche da EROMONSELE Musa Frank, fino a ANTHONY Hilda che si procacciava la marijuana da cedere ai propri clienti. Tuttavia, la figura di spicco nell’ambito del traffico di droga, era senz’altro quella di EROMOSELE Peter. Questi infatti, che nelle attività di sfruttamento della prostituzione e del favoreggiamento della immigrazione, svolgeva un ruolo ancillare rispetto alla moglie ANON Mabel, nel settore del traffico di stupefacenti, rappresentava la figura apicale del gruppo capace di intessere rapporti con connazionali in Olanda per l’acquisto di cocaina.
Il gruppo parmigiano
Al pari del gruppo “bolognese” anche il gruppo “parmigiano” aveva come proprio core business l’introduzione clandestina sul territorio nazionale di giovani connazionali da avviare alla prostituzione. A differenza dei primi, tuttavia, ADAKA Shedrack, grazie alla presenza di un suo accolito in Nigeria che selezionava le giovani e ne gestiva la partenza dalla madre patria e ad una fitta rete di rapporti con un’organizzazione criminale di stanza in Libia che gestiva la permanenza dei migranti nelle città di Sebha e Tripoli ed organizzava le traversate del Mediterraneo a bordo di fatiscenti barconi, faceva giungere la “sua gente” in Italia attraverso la pericolosissima rotta del mare.
Le parole della seconda persona offesa che ha puntualmente descritto le modalità con cui ha raggiunto l’Italia e le condotte di ADAKA Shedrack in Italia, hanno trovato puntuale riscontro nelle risultanze dell’attività indagine durante le quali è stato possibile documentare il viaggio migratorio di una seconda vittima, la quale dopo il suo arrivo in Italia ed una breve permanenza presso il CARA di Foggia, è stata condotta in Francia ed affidata al controllo di una madame che, per conto di ADAKA Shedrack, l’avrebbe avviata alla prostituzione. Nonostante le “sue ragazze” fossero lontane e sottoposte alla vigilanza di madame di fiducia che ne gestivano il lavoro non lesinando minacce e violenze, ADAKA Shedrack esercitava un controllo continuo su di loro al fine di garantirsi la loro fedeltà assoluta ed imporre, contro la loro volontà, di prostituirsi. L’uomo, per raggiungere questo obiettivo, metteva in atto una sorta di condizionamento psicologico delle giovani, alternando blandizie a violente minacce, imponendosi come unica figura di riferimento in quella terra per loro straniera, mirando a destabilizzare la psiche di queste e renderle docili alla sua autorità.
È stato inoltre accertato che il gruppo “parmigiano”, ha consentito, con le medesime modalità, l’ingresso in Italia di almeno altri 3 uomini nigeriani. Le conversazioni successive al loro arrivo in Italia, hanno evidenziato la puntuale conoscenza, da parte di ADAKA Shedrack, della macchina amministrativa italiana e del suo funzionamento, nella misura in cui indottrinava i “suoi” uomini sulle “storie” da raccontare in sede di audizione in Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, fornendo lui stesso delle storie già utilizzate da altri e cercando di veicolare l’inoltro della relativa domanda verso una provincia, anziché un’altra, al fine di evitare che la stessa “storia” fosse raccontata presso la medesima commissione.
Importanza strategica nell’ambito dell’organizzazione “Parmigiana” era, infine, rivestita dalla veronese UWUMAHONGIE Blessing Osarumen, la quale gestiva i trasferimenti di denaro tra la Nigeria e l’Italia mediante l’antichissimo sistema Hawala, garantendo così al gruppo, in tempi rapidissimi, i movimenti di fondi necessari per l’attività criminosa privi di alcuna tracciabilità.
I rituali juju
Le vittime di questo organizzatissimo traffico di esseri umani erano certamente legate ai propri carnefici con l’intimidazione, la minaccia e la violenza agite nei loro confronti e nei confronti dei loro familiari in madre patria, tuttavia, è stato possibile accertare che alcune di esse fossero state, altresì, sottoposte a rituali juju per incatenarle ad un giuramento di obbedienza nei confronti della propria madame.
È il caso della giovane nigeriana che aveva condiviso con la prima denunciante l’appartamento di via Corso Corsi che, nel corso di una conversazione con un proprio conoscente, spiegava che al suo arrivo in Italia, era stata costretta da ANTHONY Hilda a prestare un giuramento di fedeltà dinanzi ad uno stregone e che per liberarsi da questo giuramento, oltre al pagamento del debito contratto, avrebbe dovuto donare allo stregone stesso del denaro e delle stoffe preziose. Oppure il caso di una delle ragazze fatte giungere in Italia da OMORODION Sarah: nel corso di una conversazione telefonica con la sua referente nigeriana che si stava occupando del viaggio della “sua” ragazza, questa la rassicurava sull'affidabilità, dicendole che la giovane era stata sottoposta a giuramento con rito juju in cui lei era stata presentata come sua madame.