giovedì 27 aprile 2017

Italia. Migranti e le domande della vergogna per ottenere asilo

"Ti hanno stuprata? E perché sei fuggita in Italia?" .. Terzo grado alle vittime di terrorismo, interrogatori a donne e ragazze che hanno subito abusi. Ecco cosa succede nelle commissioni che decidono sulle richieste di asilo.

Nigeriane vittime di tratta in una "casa sicura"

«Sei stata violentata? Perché hai cambiato paese e non sei andata a vivere in un altro quartiere. Margareth è una donna eritrea. Sta raccontando la sua storia alla commissione territoriale, una di quelle che decidono quali migranti possono restare in Italia e quali no.

Ha studiato ad Addis Abeba, dove voleva fare il meccanico. «In quel paese si può fare un lavoro da uomo», spiega. Nel 2010 sposa un etiope col matrimonio tradizionale. Ma tradizionale è pure la famiglia di lui, che la rifiuta. Per gli etiopi è, e sarà sempre una spia eritrea. Non può proseguire gli studi, né lavorare e così decide di partire e raggiungere la sorella in Sudan. Da sola. Ed è proprio a Khartum che il cognato la violenta: «Se avessi parlato mi avrebbe ucciso», dice. Ha paura di rivolgersi alla polizia e scappa in Libia.

Qui iniziano i dubbi del suo intervistatore. Perché ha lasciato il Sudan? Khartum è molto grande. Poteva semplicemente cambiare quartiere. Perché ha deciso di cambiare nazione?

Le linee guida Unhcr consigliano un tono rassicurante e domande pertinenti

Invece l’audizione per Margareth diventa un interrogatorio. «Non riesco a capire, perché ha lasciato suo marito dopo pochi mesi di matrimonio? Perché non si è sposata ufficialmente prendendo la cittadinanza etiope? Perché non conosce i motivi dell’arresto di sua madre? In Etiopia la consideravano una spia? E quindi che problema c’era?»

Margareth venne stuprata anche dal padrone di casa a Khartum, dove lavora come domestica e dai trafficanti. Il tono dell’intervista però non cambia: «Perché non è rimasta in Libia?». Margareth arriva finalmente ad Agrigento nel 2013. Un anno dopo la commissione non la riconosce come rifugiata. Consiglia solo di «fare visite mediche». Ci vorranno due anni perché il tribunale ribalti la decisione.

Si tratta di un caso isolato? Non proprio. Siamo entrati nel mondo chiuso, e finora inesplorato, delle commissioni che decidono sulle domande di asilo. Abbiamo letto centinaia di pagine di documenti ufficiali. Ed è venuta fuori una lotteria: domande da telequiz, errori di copia-incolla, una vera e propria inquisizione.

Le donne nigeriane sono quasi sempre vittime di tratta

Le aspettano interrogazioni del tipo: «Anche oggi sono morte cento persone nel Canale di Sicilia, l’altra opzione era fare la prostituta in Libia. Capisce che non ha molto senso che sia venuta in Italia solo perché glielo ha consigliato un uomo che conosceva da due mesi?»

Quelle del Corno d’Africa scappano da dittatori e guerre endemiche. Subiscono numerose violenze di ogni tipo prima di arrivare in EuropaUna donna ha visto una collega uccisa dai terroristi nel parcheggio di un supermarket. In commissione le chiedono: "Perché è venuta in Italia? Non esistono posti sicuri in Somalia?"

I profughi dell’Africa occidentale si lasciano alle spalle epidemie e conflitti inter-etnici. Per loro la diffidenza è fortissima. C’è chi si sente dire: «Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola». Oppure: "Se tua moglie vive ancora lì, allora il tuo paese è sicuro"

Frenk ha visto il fratello morire sotto i colpi dei ribelli in Mali. Fuggito dal colpo di Stato, ha superato nell’ordine i militari a caccia di disertori, il deserto algerino, il mare che lo separava dall’Europa. È un sopravvissuto. Ma non aveva previsto l’ultimo ostacolo, i quiz della commissione. «Come si chiama lo stadio di Goa?», «Non lo so». «E il ponte sul fiume», «Non lo so». «E il fiume?», «Niger»

Il commissario si fida sempre meno. «Quali sono i nomi dei paesi che ha incontrato per andare in Algeria?», «Non so, erano località piccolissime». Arriva il diniego, soltanto «i positivi segnali di integrazione» lo salvano dall'espulsione e gli consegnano un permesso temporaneo.

L’errore copia-incolla

Gambia, agosto 2013. Un uomo denuncia alla polizia che il fratellastro (un militare) ha violentato la sorella. In quel paese non è facile denunciare un militare. E infatti non gli credono. Gli amici del fratello lo minacciano di morte. Senza parenti e protezione, scappa in Senegal, Mauritania, Mali e Algeria. Infine riesce a imbarcarsi dalla Libia all’Italia.

Ma la sua odissea non è finita. Per un «clamoroso errore di copia-incolla nella stesura della motivazione», la commissione territoriale gli nega l’asilo. Infatti nel testo si parla di un cittadino del Bangladesh. Hanno "incollato" la motivazione di un altro.

Il giudice, dopo dieci mesi, concede lo status di rifugiato e riconosce: «La grave situazione in cui versa il Gambia». Nel complesso, tre anni bruciati a scappare e aspettare.

Le domande si basano spesso sulla credibilità del soggetto intervistato. La Convenzione di Ginevra parla invece dell’oggetto, cioè il fondato timore di subire una persecuzione in patria. Da poco si sta imponendo un nuovo criterio, quello dei «positivi segnali di integrazione». Un concetto non definito dal diritto e spesso arbitrario.

Prendiamo il caso di Gladis, che si salva dall'espulsione per un paio di parole dette in italiano. In un’ora spiega che il padre faceva politica in Costa d’Avorio, nel paese devastato dalla guerra, che è stato ucciso dai sostenitori dell’ex presidente, che tornare lì significa rischiare la vita perché ci sono aree in conflitto di cui non si parla.

La commissione non le crede. Citando qualche sito web, dice che la guerra è finita. Il destino sembra segnato. Tra lei e l’espulsione c’è solo un’ultima domanda. Frequenta corsi? Questa volta non risponde nel dialetto bambara, ma in italiano. È la sua salvezza. Tutto il resto viene rigettato, ma i «positivi segnali d’integrazione» gli valgono un permesso umanitario.


L’integrazione è un criterio soggettivo, e piace sempre più sia ai tribunali che alle commissioni. Jennifer, per esempio, pur scappando dalla guerra ucraina vive in una bella casa («un appartamento idoneo») e la madre ormai parla italiano. Ha anche fatto politica nel suo paese rischiando la pelle, ma questo non è preso in considerazione.

Alcune risposte sono decisive. Per esempio, quelle alla domanda-chiave: «Cosa teme tornando al suo paese?». Un nigeriano un fuga da Boko Haram risponde: «Non so cosa potrebbe accadermi» e così si auto-condanna all'espulsione.

Poi ci sono decisioni che sembrano già prese. Lo schema è questo: se la tua storia è credibile, allora il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è pericoloso, allora la tua storia è contraddittoria. Ci sono commissioni che hanno considerato paesi sicuri anche la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi e la Costa d’Avorio in guerra civile.

C’è poi chi ama le domande di controllo. Sono quelle che servono a capire se l’intervistato sta mentendo. Ma possono diventare un tribunale delle scelte personali: «Perché è andato a vivere da solo?». Oppure: «Se suo padre era benestante, perché non l’ha fatta studiare?» E ancora: «Hai avuto altre donne prima di tua moglie?»

Infine ci sono le sottigliezze giuridiche. Noah è al centro di una faida in Pakistan. In questo caso le linee guida delle Nazioni Unite dicono che si tratta di un rifugiato. Tuttavia, nota la commissione, non si può parlare esattamente di faida perché non è un’intera famiglia a volerlo morto ma un singolo membro.

DinieghiNel 2016 le commissioni hanno respinto il 60 per cento dei migranti arrivati in Italia. Per il senso comune è la prova che si tratta di finti profughi. Ma è davvero così?

Secondo il prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale asilo, nel 2014 il 65 per cento dei rifiutati ha presentato ricorso. E nel 75 per cento dei casi ha vinto. In tre casi su quattro la magistratura ha ribaltato le decisioni delle commissioni.

Di queste strutture, commissioni che devono decidere sullo status dei migranti, ce ne sono venti in tutta Italia. Ognuna è composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, uno di polizia, un delegato degli enti locali e uno dell'Unhcr. Poi c’è l’interprete, decisivo se il colloquio si svolge in un dialetto africano che nessuno comprende. L’intervista spesso è condotta da un solo membro, ma nel verbale non è indicato di chi si tratta. Nel 2016, circa 150 persone hanno giudicato 123.600 richiedenti.

C’è chi fa questo lavoro con preparazione e dedizione, ma le decisioni delle commissioni ribaltate dai tribunali hanno creato un contenzioso enorme. Al Tribunale di Catania, ad esempio, un giudice è stato incaricato di un preciso compito: smaltire 3.200 fascicoli di ricorsi pendenti. Alcuni risalgono al 2012. Se rispettasse la media record di quattro al giorno, finirebbe tra due anni.

Il decreto Minniti-Orlando, recentemente approvato dal Parlamento, affronta il problema dei tribunali intasati cancellando il ricorso in appello. Si potrà ricorrere solo in Cassazione entro 30 giorni. «Sono norme manifesto di nessuna utilità pratica che creano solo marginalizzazione sociale e costi per un sistema giudiziario già precario», protesta Lorenzo Trucco, presidente dell’associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione. Si crea così un «diritto processuale civile speciale» basato sulla nazionalità.

Alcune norme sembrano inoltre complicate da applicare. Per esempio, la videoregistrazione: due-tre ore di audizione da inviare ai giudici in caso di ricorso. Oppure i responsabili dei centri di accoglienza che diventano “pubblici ufficiali” e dovranno gestire le notifiche giudiziarie ai richiedenti asilo. Un’altra novità che ha già suscitato le proteste degli operatori.
(da un'inchiesta de L'Espresso)

Condividi su Facebook

mercoledì 26 aprile 2017

Il primo vaccino per la malaria sarà sperimentato in Africa

Dal 2018 sarà avviata la sperimentazione in Ghana, Nigeria, Kenya e Malawi: secondo l'OMS potrebbe salvare migliaia di vite, ma ci sono diverse complicazioni.


Il primo vaccino contro la malaria sarà utilizzato a partire dal prossimo anno in Ghana, Nord Nigeria, Kenya e Malawi. L’iniziativa è la prima su larga scala in cui è previsto l’utilizzo dell’RTS-S, un vaccino contro la malaria realizzato dall'azienda farmaceutica britannica GlaxoSmithKline (GSK) e che ha richiesto più di 25 anni di sviluppo, reso possibile in parte grazie ai finanziamenti della Bill and Melinda Gates Foundation, l’organizzazione messa in piedi dal cofondatore di Microsoft insieme con la moglie. L’RTS-S ha la capacità di rendere il sistema immunitario più reattivo al parassita che causa la malaria, malattia diffusa dal morso di alcune specie di zanzare.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che ogni anno circa 200 milioni di persone siano contagiate ed entrino in contatto con la malaria. Se trattato subito, un paziente riesce a guarire senza particolari problemi, evitandosi le complicazioni causate dalla malattia, ma in molte aree rurali dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina (dove la malattia è più diffusa) è spesso impossibile ricevere cure adeguate.

Diffusione della malaria del mondo
Solo nel 2015 a causa della malaria si stima che siano morte circa 430mila persone in tutto il mondo. La prima forma di prevenzione passa attraverso il controllo delle popolazioni di zanzare, per ridurre sensibilmente il loro numero in prossimità delle zone più popolate. Un vaccino davvero efficace somministrato su ampia scala potrebbe contribuire a far diminuire i casi di malaria, ma finora il suo sviluppo è stato complesso nonostante l’interesse e gli enormi investimenti di molte aziende farmaceutiche e centri di ricerca, pubblici e privati.

Secondo l’OMS, il nuovo vaccino contro la malaria ha le potenzialità per salvare decine di migliaia di vite ogni anno, ma ci sono dubbi sul fatto che possa essere utilizzato efficacemente in alcune delle parti più povere del mondo. Per essere efficace e offrire una copertura sufficiente, il vaccino deve essere somministrato quattro volte: una al mese per tre mesi e una quarta dopo 18 mesi. In un ambiente controllato. come una clinica, la somministrazione può essere effettuata con i giusti intervalli di tempo senza particolari problemi, ma le cose cambiano notevolmente in contesti più difficili da tenere sotto controllo, come quelli dei remoti villaggi africani. Monitorare i pazienti, assicurarsi che si presentino per tutte e quattro le somministrazioni e che seguano le indicazioni dei medici è molto difficile, sia per motivi pratici sia culturali. Le popolazioni spesso non hanno idea di quali siano le effettive cause della malaria, né i sistemi più appropriati per trattarla.



Sono proprio queste incertezze ad avere spinto l’OMS ad avviare tre progetti pilota negli stati africani del Ghana, del Kenya, Nord Nigeria e del Malawi. Medici e ricercatori cercheranno, per quanto possibile, di mantenere un ambiente controllato sul campo e di verificare l’efficacia dei vaccini, valutando eventuali reazioni avverse al farmaco. Il progetto interesserà circa 750mila bambini tra i 5 e i 17 mesi: metà di loro riceverà il vaccino per verificarne l’efficacia, mentre il resto farà da gruppo di controllo.

L’RTS-S è un passo avanti importante, ma non definitivo. Nei test clinici condotti finora ha consentito di prevenire circa 4 su 10 contagi da malaria. È una media piuttosto bassa se confrontata con vaccini per altre malattie, che arrivano a offrire una copertura di oltre il 98 per cento. In compenso, l’RTS-S rende di un terzo meno probabili i casi di malaria più gravi, riducendo le necessità di ricovero per i bambini che contraggono la malattia e che soffrono di complicazioni, talvolta letali.

Il problema è che per ottenere questi risultati è essenziale che ogni paziente riceva tutte e quattro le dosi e con gli intervalli di tempo previsti dai ricercatori

I governi di Kenya, Ghana, Nigeria e Malawi decideranno autonomamente come gestire i progetti pilota per le vaccinazioni, ma ci sarà comunque un coordinamento da parte dell’OMS e di altre organizzazioni sanitarie.

Altre aziende farmaceutiche sono al lavoro per produrre un loro vaccino, ma per ora non hanno ottenuto risultati così incoraggianti. Molto dipende dall'approccio che viene seguito per debellare i parassiti: alcuni ricercatori si concentrano sulle proteine che si trovano sulla superficie di ogni parassita, e che potrebbero dare la chiave per fermarlo, altri cercano di innescare particolari reazioni nel sistema immunitario per rendere innocui i parassiti. Altre tecniche passano attraverso sistemi per far diminuire la popolazione di zanzare, il vettore della malattia.

Nei prossimi anni nel Burkina Faso sarà condotto un esperimento su larga scala, e con pochi precedenti, per introdurre zanzare geneticamente modificate allo scopo di ridurre la popolazione di questi insetti.

"Non è possibile immaginare un mondo sano finché in Africa, e ovunque nel mondo, resteranno ancora enormi sacche di povertà e di malattia. Solo facendo diventare anche in Africa malattie come la malaria un ricordo di un lontano passato, così come è oggi in Europa, possiamo creare le condizioni per dare alle popolazioni più emarginate dalla povertà, possibilità di crescita e di stabilità"



Articolo a cura di
Maris Davis

Condividi su Facebook

giovedì 20 aprile 2017

Il petrolio della Nigeria porta ENI e Shell in tribunale

Ugborodo, Nigeria - Concessione Opl 245
Un grande giacimento di petrolio al largo della Nigeria è al centro di uno scandalo finanziario che si svolge tra il paese africano, il Regno Unito, i Paesi Bassi e ormai anche l’Italia. È noto con la sigla Opl 245 e si trova al limite meridionale del delta del fiume Niger, in mare, tra i 1.700 e i duemila metri di profondità. Racchiude circa nove miliardi di barili di petrolio greggio, abbastanza da farne il più grande giacimento noto in Africa.

Nel 2011 l’italiana ENI e l’anglo-olandese Royal Dutch Shell hanno acquistato la concessione dell’intero blocco pagandola 1,3 miliardi di dollari. Ma quei soldi non sono andati nelle casse dello stato nigeriano, se non in minima parte. E ora quel contratto è oggetto di indagini giudiziarie in Nigeria, in Italia e nei Paesi Bassi.

La storia della licenza Opl 245 rivela qualcosa su una delle industrie più opache al mondo, quella dell’estrazione petrolifera in Nigeria. Protagonisti sono un ex ministro del petrolio nigeriano, accusato di aver sottratto i soldi versati dalle compagnie petrolifere; una ditta di facciata, la Malabu oil and gas, dietro a cui si nasconde lo stesso ex ministro; alcuni intermediari di varie nazionalità, affaristi, un paio di ex agenti del controspionaggio britannico.

Transazioni sotto inchiesta
E alcuni tra i massimi dirigenti dell’Eni e della Shell, da più parti accusati di sapere benissimo con chi avevano a che fare e dove sarebbero finiti i loro pagamenti. Le due aziende hanno sempre respinto l’accusa. L’Eni sostiene di aver avuto solo regolari transazioni con il governo nigeriano. La procura di Milano non ne è convinta: l’8 febbraio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio di undici persone, tra cui l’attuale amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore, Paolo Scaroni, e il faccendiere Luigi Bisignani, oltre all’Eni e la Shell come entità giuridiche.

Guardato in prospettiva, lo scandalo del giacimento nigeriano è l’ennesimo esempio di come le risorse naturali del paese africano siano servite ad arricchire una piccola élite di affaristi locali, con la complicità più o meno chiara di imprese occidentali, a scapito dei comuni cittadini e dello sviluppo della nazione. Forse però bisogna fare un passo indietro.

L’ex ministro e i faccendieri
Lo scandalo Olp 245 è emerso alla fine del 2012, quando due intermediari d’affari che avevano lavorato per la Malabu, un nigeriano e un russo, si sono separatamente rivolti a due tribunali di arbitrato a Londra. In particolare, tale Emeka Obi reclamava 214 milioni di dollari a titolo di commissione per il contratto concluso con l’Eni e la Shell. La corte commerciale di Londra ha condotto la sua istruttoria, chiamando a deporre diversi testimoni, che hanno poco a poco delineato cosa stava dietro al contratto per il giacimento più ricco della Nigeria.

Tutto è cominciato quando, nel 1998, l’allora ministro del petrolio nigeriano Dan Etete ha dato il blocco 245 in concessione alla Malabu oil and gas. Allora non era ben chiaro chi fosse dietro all’azienda, sconosciuta, senza esperienza di industria petrolifera né dipendenti, costituita solo pochi giorni prima di ricevere la concessione. Ormai invece è chiarissimo, ed è lo stesso Etete: in pratica si era regalato uno dei giacimenti più redditizi del paese (la Malabu pagò solo due milioni di dollari per quella concessione che invece vale miliardi)

La Nigeria era governata allora da un militare, il generale Sani Abacha. In seguito il presidente Goodluck Jonathan, suo successore, ha urlato allo scandalo e ha tolto la concessione alla Malabu. La Shell allora ha acquistato parte della concessione, e ha cominciato le esplorazioni. Poi la Malabu ha vinto un ricorso e rivendicato la concessione.

I due ex agenti dell’Mi6 che hanno trattato con Etete (ex-ministro nigeriano) durante ‘grandi pranzi con molto champagne ghiacciato’, lo descrivono come uno che ‘ha fiutato il denaro

La controversia legale tra la Shell e la Malabu su chi avesse diritto su quel giacimento si è trascinata per anni. È allora che Shell ha assunto due ex agenti dell’Mi6, il controspionaggio britannico (oggi Sis), perché aiutassero a trattare con Etete e con il governo nigeriano per sbloccare la situazione.

Dan Etete è una figura in sé sconcertante. Il consorzio di giornalisti investigativi africani Sahara Reporters ha ricostruito in modo dettagliato come questo signore, oggi di 72 anni, abbia saputo usare il suo mandato di ministro del petrolio tra il 1995 e il 1999 per costruire un sistema di società anonime che gli hanno permesso di “ripulire” centinaia di milioni di dollari estorti a varie compagnie petrolifere, trasferendoli su conti bancari all'estero (pare che abbia aperto conti intestati a familiari dell'allora presidente Abacha)

Tutto questo con l’aiuto dell’avvocato ginevrino Richard Granier-Deferre, grande esperto di manovre finanziarie. Nel 2007 Etete è stato condannato in Francia per riciclaggio di denaro. I due ex agenti dell’Mi6 che hanno trattato con lui durante “grandi pranzi con molto champagne ghiacciato”, lo descrivono come uno che “ha fiutato il denaro”: così scriveranno in alcune e-mail ora agli atti delle indagini svolte dalla procura dell'Aja, nei Paesi Bassi.

Bodo, Nigeria
La Shell si è resa conto molto presto di dover trovare un accordo per “liquidare” la Malabu e l’ingombrante personaggio che ci stava dietro. La Malabu intanto aveva incaricato l’ex diplomatico russo Ednan Agaev di cercare nuovi investitori; questo ha tirato dentro il nigeriano Emeka Obi. Pare che sia stato Obi a farsi mediatore con l’Eni, già titolare del blocco petrolifero adiacente (l’Opl 244)

Comunque sia, la compagnia italiana è entrata in gioco nel 2010, con l’ipotesi di acquisire la concessione a metà con la Shell. “Previa ovviamente la chiusura di tutti i contenziosi” con la Malabu, come si poteva leggere sul sito della compagnia italiana. Nel maggio 2011 il governo nigeriano ha infine assegnato all’Eni e alla Shell una nuova licenza, “libera da qualsiasi onere o disputa

L’intermediario Agaev ha dichiarato che l’intera operazione è stata una transazione ‘sesso sicuro

Cosa ha convinto la Malabu a rinunciare alle sue pretese? L’indagine del tribunale commerciale di Londra ha ormai chiarito che l’Eni e la Shell hanno versato la somma stipulata per la concessione su un conto fiduciario del governo nigeriano presso la banca J.P. Morgan nel Regno Unito, ma quello è stato solo un transito: 1,1 miliardi di dollari sono poi stati trasferiti sui conti della Malabu, dove sono stati “ripuliti” e distribuiti in varie tangenti. Nella sua deposizione a Londra, nel 2013, Etete è stato candido: ha detto che personalmente aveva avuto 250 milioni di dollari.

L’intermediario Agaev ha dichiarato che l’intera operazione è stata una transazione “sesso sicuro”, nel senso che il conto bancario del governo ha permesso alle compagnie petrolifere di concludere la trattativa e liquidare la Malabu senza entrare in contatto.

Il filone d’inchiesta in Italia
Alla fine il tribunale di Londra nel 2013 ha riconosciuto a Obi la somma di 110 milioni per la sua intermediazione d’affari, ma la cosa più interessante di quel processo è la mole di deposizioni rimasta agli atti. “Descrivevano una serie di passaggi di denaro davvero ben congegnati. Sembra di capire che tutto il meccanismo sia saltato quando il pagamento è passato per il governo nigeriano, ed è emerso quando gli intermediari hanno avanzato le loro rivendicazioni

Gli attivisti italiani, insieme a quelli della ong britannica Corner House, hanno studiato a fondo gli atti del processo londinese. Infine hanno presentato un ponderoso esposto alla procura di Milano: da questo è partito il capitolo italiano dell’indagine, quella che ha portato alla richiesta di processare i vertici della compagnia petrolifera italiana.

Secondo l’accusa, i dirigenti delle due compagnie petrolifere sapevano che il denaro versato sarebbe passato alla società controllata dall'ex-ministro Etete e poi usato per pagare tangenti, tra gli altri all'allora presidente Goodluck Jonathan, al ministro del petrolio e a quello della giustizia. Non solo: secondo gli inquirenti milanesi, parte di quei soldi sarebbero rientrati ai dirigenti dell’Eni e della Shell.

Passaggi di denaro molto sospetti
L’indagine giudiziaria è stata complessa, e parte del lavoro è stato proprio seguire le tracce dei soldi “transitati” alla Malabu: è risultato che sono finiti in mille rivoli, a società prestanome, “lavati” e solo in parte rintracciati nelle tasche di ex-ministri e alti magistrati della Nigeria. I giornalisti di Report, la trasmissione di Rai 3, che in un servizio messo in onda il 10 aprile ricostruiscono parte dell’indagine, hanno sentito tra l’altro un ex dirigente dell’Eni, Vincenzo Armanna: parla di 50 milioni di dollari in contanti “tornati nelle disponibilità” dell’amministratore delegato della compagnia italiana, Descalzi.

L’Eni ripete di non aver mai trattato con la Malabu né con il signor Dan Etete, ma solo con il governo nigeriano. Tiene anche a precisare di aver commissionato un’indagine indipendente a uno studio di analisi finanziarie con sede a New York, e che nel marzo 2015 questo ha concluso che in quel contratto non ci sono state irregolarità né “schemi corruttivi

Una seconda verifica, chiesta di nuovo a uno studio newyorkese dopo la conclusione dell’istruttoria della procura di Milano nel novembre 2016, ha di nuovo “assolto” la compagnia italiana. Questo serve soprattutto a rassicurare gli azionisti: in effetti non più tardi di febbraio il consiglio d’amministrazione dell’Eni, di cui lo stato italiano è azionista al 30 per cento, ha ribadito la sua piena fiducia nell'amministratore delegato Claudio Descalzi, che il 13 aprile è stato riconfermato alla guida dell’azienda dall'assemblea generale degli azionisti (a cui erano presenti anche numerosi “azionisti critici”)

L’ammissione della Shell
Saranno ovviamente i tribunali a pronunciarsi. Intanto però un colpo di scena è venuto dal socio anglo-olandese. La Shell infatti ha ammesso che sì, ben prima di firmare quel contratto la società sapeva che parte del denaro versato sarebbe finito alla società Malabu legata all’ex ministro del petrolio.

L’ammissione è stata probabilmente una scelta forzata: due giorni prima due organizzazioni britanniche, Global Witness e Finance Uncovered, avevano diffuso un dossier con alcune e-mail sequestrate dagli inquirenti olandesi nel febbraio 2016 durante una perquisizione a sorpresa nel quartier generale della Shell all’Aja. Quei messaggi, del periodo 2008-2010, rendevano ormai molto difficile per la società sostenere che i suoi dirigenti non sapevano con chi avevano a che fare, e che i soldi versati per la concessione Opl 245 sarebbero finiti alla Malabu.

Cartello vicino agli impianti della Shell
Così è arrivata la clamorosa ammissione. “Con il tempo ci è stato chiaro che Dan Etete era coinvolto nella Malabu e che l’unico modo per risolvere l’impasse era raggiungere un accordo con Etete e la Malabu, che ci piacesse o no”, ha dichiarato un portavoce della Shell al New York Times. “Ma pensavamo che fosse una transazione legale

Resta un’ammissione senza precedenti. E l’Eni? “Non commentiamo dichiarazioni di altre parti. Però notiamo che Shell conferma di non essere stata coinvolta in alcuna condotta illecita”. E su questa linea rimane attestata la compagnia petrolifera italiana.

Anche la Nigeria vuole processare l’Eni e la Shell
Nel frattempo in Nigeria la situazione è cambiata. Nel 2015 è entrato in carica il presidente Muhammadu Buhari, eletto con un programma incentrato sulla lotta alla corruzione. Da allora la commissione per i crimini economici e finanziari, una sorta di procura anti-corruzione, ha avviato varie indagini. Una riguarda proprio il contratto Opl 245, e per la prima volta gli investigatori non chiamano in causa solo i corrotti locali ma anche le due società petrolifere europee.

La vendita di quel giacimento “è stata illegale fin dal principio sostiene Ibrahim Magu, già investigatore di polizia che oggi presiede la commissione anti-corruzione.

Per la prima volta, un governo federale nigeriano mostra una chiara volontà politica di combattere i crimini finanziari

Da quel contratto sono arrivati nelle casse dello stato nigeriano solo 210 milioni di dollari, anziché 1,3 miliardi. L'ipotesi è che il resto sia una gigantesca tangente pagata dall’Eni e dalla Shell, e che i destinatari fossero i familiari dell’allora presidente Abacha, l’ex ministro Etete, e alcuni altri personaggi entrati nell'affare.

Le compagnie petrolifere ne erano consapevoli, e ci sono le prove. Su richiesta degli inquirenti, in gennaio l’alta corte federale nigeriana aveva revocato in via cautelativa la licenza del giacimento all’Eni e all Shell, che hanno fatto ricorso (il 17 marzo di quest'anno il sequestro è stato annullato). L’indagine continua, e la commissione presieduta da Ibrahim Magu ha annunciato che chiederà un risarcimento ai responsabili: si parla di una multa di due miliardi di dollari.

Questa non è solo una storia di affaristi, finanzieri e indagini giudiziarie: in Nigeria c’è anche una società civile organizzata che si batte per fermare il saccheggio delle risorse del paese. L’organizzazione presieduta da Suraju è parte di una coalizione, la Rete della società civile contro la corruzione (Csnac nell’acronimo in inglese). Ci sono siti web e giornalisti che cercano di denunciare il malaffare. “Il clima è cambiato. Ora ci aspettiamo che siano perseguiti i responsabili della corruzione. Ma soprattutto che si definiscano codici di condotta per impedire il ripetersi futuro di affari simili

L'Eni e la Shell si nascondono dietro un dito. Che fosse un affare illegale era di dominio pubblico, a cominciare dalla concessione assegnata da Dan Etete mentre era ministro”. Il governo nigeriano ha già sanzionato la Malabu e gli individui responsabili del riciclaggio di denaro. “Le compagnie petrolifere invece dovrebbero beneficiare di un affare corrotto? No, ci aspettiamo che i responsabili siano perseguiti
(Fonte: Internazionale)

Inquinamento del Delta del Niger


Condividi la nostra Campagna Informativa
"Delta del Niger"
- clicca qui -



Articolo a cura di
Maris Davis

Condividi su Facebook