lunedì 26 febbraio 2018

Strade del Sesso. Friuli, La Napoleonica e la Ferrata dove la prostituzione non c'è più

Friuli e Udine, un esempio positivo di come si può vincere la prostituzione e la mafia nigeriana.


Negli anni '90 e fino ai primissimi anni duemila la Ferrata e la Napoleonica, due strade della pianura friulana alle porte di Udine, erano piene zeppe di ragazze nigeriane costrette a prostituirsi, di giorno da quelle parti, e poi di notte nella città di Udine.

La "Ferrata" (strada provinciale 95) è una strada dritta, talmente dritta che per i primi 30 chilometri è perfino senza una curva, parte dal comune di Basiliano (zona Udine Sud) e porta fino a Portogruaro. Ai tempi del fascismo era una ferrovia costruita da Mussolini per permettere ai tedeschi di portare i deportati nei campi di concentramento di Germania e Polonia senza passare per la città di Udine. Nel secondo dopoguerra quella ex-ferrovia è diventata una strada, una provinciale che oggi taglia la pianura friulana.

La "Napoleonica" è invece la via percorsa (forse addirittura costruita) dalle truppe di Napoleone quando è venuto in Friuli a firmare il famoso trattato di Campoformido, comune a sud di Udine (era il 1797), quando la Repubblica di Venezia, sconfitta, fu ceduta all'allora Impero Austro-Ungarico. Oggi è classificata come strada regionale, la numero 252, e da Codroipo arriva fino alla città stellata di Palmanova.

Ad un certo punto le due strade si incrociano, sono dunque tra di loro vicine, e come dicevo fino a 15 anni fa erano popolate di giorno da un brulicare di giovani nigeriane che offrivano il loro corpo per 10-20.000 lire di allora. Tra il 1996 e il 1997 su quelle strade c'ero anch'io. Il mio "posto" era all'altezza di un paesino che si chiama Pozzecco.



Poi, tra il 1998 e il 1999, hanno iniziato ad arrivare anche le ragazze albanesi che facevano pagare le prestazioni sessuali molto di più di quelle nigeriane. Era il segno inequivocabile che anche la "mafia albanese" era arrivata in Friuli. Non ho mai capito se nel tentativo di soppiantare la "mafia nigeriana" che già c'era da parecchi anni, oppure in accordo con la "mafia nigeriana" stessa.

Sta di fatto che le forze dell'ordine, tutte, polizia, carabinieri e perfino la guardia di finanza hanno iniziato a fare "retate", non una ogni tanto, ma due, tre, quattro, ogni settimana, un'azione continuata per mesi e mesi, forse più di un anno. Di giorno sulla Napoleonica e sulla Ferrata e di notte in città. C'erano momenti di pausa perché le ragazze sparivano per un po', ma tempo una settimana dieci giorni e le ragazze ritornavano, e allora riprendevano anche le "retate". Fu una lotta.

Le ragazze, allora tutte senza documenti, venivano prese e portate in Questura, veniva loro consegnato il "foglio di via", alcune portate nei centri fuori dal Friuli per essere rimpatriate, altre ancora riportate direttamente in Nigeria.

Si calcola che tra la fine degli anni '90 e i primissimi anni duemila solo a Udine ci fossero 2-300 ragazze nigeriane che si prostituivano, un calcolo per difetto perché la Caritas udinese all'epoca calcolò che le nigeriane erano almeno il doppio di quello fornito dalle autorità di polizia e dal prefetto.

Le ragazze che venivano rilasciate con il "foglio di via" ovviamente tornavano a prostituirsi, quelle portate via o rimpatriate venivano subito sostituite da altre, magari più giovani. È per questo che l'azione delle forze dell'ordine doveva essere continuativa. La "mafia nigeriana" doveva sentirsi con il fiato sul collo, doveva sapere che Udine NON era una "piazza" sicura per i loro affari, perché non poteva contare più sulle "ragazze"

Fu fatta un'azione anche contro i "clienti". Venivano segnalati, altri denunciati per sfruttamento quando venivano "beccati" con le ragazze in macchina. Erano tempi duri per i così detti "papagiro locali" (italiani che frequentano prostitute), o per i "taxisti del sesso", quelli che portano le ragazze sul luogo di lavoro e magari vanno a riprenderle alla sera in cambio di una sveltina. Chi veniva fermato con una ragazza nigeriana in macchina lungo la Ferrata o la Napoleonica, oppure in città rischiava grosso.


Ragazze che hanno iniziato ad avere paura per se stesse, sapevano che se continuavano a prostituirsi da quelle parti, dopo due, tre, o più fogli di via sarebbero tornate inevitabilmente in Nigeria. Il rimpatrio forzato per una ragazza nigeriana è un fallimento di fronte a se stessa e di fronte alle sua famiglia. Ho notizia di alcune ragazze rimpatriate che si sono perfino suicidate per la vergogna e per il rifiuto delle loro famiglie di ri-accoglierle in casa.

Ma tutto questo non era ancora abbastanza. Si doveva fare anche tutta un'azione di "intelligence", capire dove le ragazze abitavano, come sono arrivate a Udine, chi le ha portate e soprattutto chi le costringeva a prostituirsi.

Alcune ragazze nigeriane portate in questura hanno iniziato a fare le prime ammissioni, le prime confessioni, e perfino le prime denunce. Molte all'epoca, hanno preferito la via della protezione sociale piuttosto che il rischio concreto del rimpatrio.

Sono iniziati così a Udine e nell'interland, anche i blitz nelle case e negli appartamenti delle "mamam" dove venivano alloggiate 3, 5 e anche più ragazze. Ci furono arresti, molti arresti, i giornali locali erano pieni di queste notizie quasi con cadenza quotidiana.

Un colpo duro per quello che i nigeriani, allora come adesso, chiamano semplicemente "business". Un business fatto sulla pelle di ragazze arrivate dalla Nigeria spesso con l'inganno, tenute sotto controllo perché non conoscono l'italiano, non conoscono le leggi italiane, non si fidano di nessuno, che paradossalmente si fidano solo dei loro connazionali che le stanno sfruttando.

Le "mamam" che ospitano le ragazze sono l'ultimo anello della mafia nigeriana, quello operativo, quello che gestisce e deve far "lavorare" le ragazze. Sono donne integrate nella società civile, spesso hanno una famiglia e perfino hanno un lavoro regolare. Quasi sempre loro stesse sono state "sfruttate" in passato, e nella loro logica perversa ritengono che sia perfino giusto far passare alle nuove ragazze quello che loro stesse hanno passato.

Oggi si calcola che almeno una ragazza nigeriana su venti-trenta sia a rischio di diventare a sua volta una "mamam" in futuro, per queste donne è come elevarsi socialmente, possono tornare in Nigeria a testa alta, dove vanno a reclutare nuove ragazze esibendo la loro ricchezza, i loro bei vestiti, il loro nuovo status sociale.

Il raggiungimento della consapevolezza e quella zona grigia tra lecito e illecito da debellare. Quel vedere ma far finta di niente, quel sapere ma non denunciare. Fin dall'inizio degli anni duemila a Udine fu fatto un lavoro capillare all'interno della comunità nigeriana, coinvolgendo associazioni di volontariato, Caritas, le stesse forze di polizia, le istituzioni comunali, provinciali e regionali. Furono coinvolte persone in vista tra la comunità nigeriana, come per esempio i pastori pentecostali, gli african shop e altri punti di ritrovo dei nigeriani.

L'obiettivo era quello di affermare che a Udine non viene tollerato lo sfruttamento, che a Udine la "mafia nigeriana" non era la benvenuta, ma soprattutto l'obiettivo è stato quello di creare all'interno della stessa comunità nigeriana la consapevolezza che quel tipo di "business" non era giusto, non era etico, e non poteva essere tollerato. Obiettivo raggiunto, direi.

Per approfondire cos'è la "zona grigia" il mio articolo
Quella zona grigia della mafia nigeriana di cui nessuno parla
- leggi -

Quello che è stato fatto a Udine poi si è esteso a tutta la Regione Friuli, soprattutto a Trieste, dove la mafia nigeriana era allora ben radicata.

Ci sono voluti alcuni anni, un lavoro costante di tutti, dal volontariato alle istituzioni. Oggi possiamo dire che in tutto il Friuli non c'è nemmeno una nigeriana costretta a prostituirsi, anzi Udine è diventato un luogo dove le ragazze vengono proprio per scampare allo sfruttamento perché è la stessa comunità nigeriana che le aiuta, vanno a scuola, imparano l'italiano, alcune frequentano l'Università della città (come feci anch'io tra il 1997 e il 1999), il tutto in un regime di protezione e di consapevolezza civile che impedisce ai mafiosi nigeriani di mettere radici.

La Ferrata e la Napoleonica oggi sono due strade assolutamente normali e Udine è una città liberata dalla "mafia nigeriana". C'è una numerosa comunità nigeriana ben integrata, che lavora, che studia e che cresce con le seconde e terze generazioni fianco a fianco con i friulani e a volte perfino li sposano. Io stessa ho sposato un friulano, altre mie amiche hanno sposato dei friulani.

Io questo lo chiamo "modello Friuli due", il primo fu quello della ricostruzione post-terremoto, un modello che potrebbe essere esportato ovunque in Italia dove la mafia nigeriana è oggi presente.

Ci vuole però il coinvolgimento di tutti, delle forze dell'ordine, delle autorità politiche e della società civile, del volontariato, sentire che le istituzioni pubbliche ti appoggiano, e il coinvolgimento concreto e attivo della stessa comunità nigeriana.

Bisogna capire che la sola attività di repressione potrà dare dei risultati nel breve periodo, ma difficilmente li darà nel medio e lungo periodo. Ci vogliono anni e un lavoro paziente che coinvolga TUTTI.

Una strada può essere lunga o corta, ma se non fai il primo passo sarà infinita




Articolo di
Maris Davis

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domenica 25 febbraio 2018

Donna dell'Anno 2018. Contro prostituzione, tratta e mutilazioni genitali

Ecco le tre donne finaliste. Si chiamano Waris, Margarita, Isoke.

Isoke Aikpitanyi, Margarita Meira e Waris Dirie

Lottano contro l'infibulazione, la prostituzione, la tratta. Per salvare altre donne dalla violenza che loro hanno subìto. Sono le 3 finaliste del Premio “Donna dell'anno”, che sarà assegnato il 14 marzo.

C'è Waris, che ha subìto l'infibulazione a 5 anni e oggi lotta per impedire che altre bambine siano vittime di mutilazioni genitali. Margarita, che ha dovuto sopportare il rapimento e la morte della figlia 17enne e adesso combatte contro la tratta di esseri umani. Ed infine Isoke, che è stata costretta a prostituirsi e ora aiuta le donne a liberarsi dallo sfruttamento sessuale.

Sono loro le 3 finaliste del Premio internazionale “La donna dell'anno. Il riconoscimento promosso dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta compie 20 anni e il tema di questa edizione 2018 è quanto mai importante: «Diciamo no alla violenza in ogni sua forma»

Le finaliste
Waris, Margarita e Isoke hanno storie diversissime, ma unite da un filo comune di dolore e coraggio. Hanno vissuto la violenza sulla propria pelle, eppure hanno trovato la forza di reagire e diventare voce di delle donne maltrattate, abusate, perseguitate, private di ogni diritto fino a quello più sacro della vita. Queste sono le loro storie.

Waris Dirie, 53 anni, dalla Somalia
Nata in Somalia da una famiglia di nomadi, a 5 anni Waris deve affrontare l'infibulazione e 13 anni un matrimonio combinato con un uomo anziano. Ma lei scappa attraversando il deserto da sola, fino ad arrivare a Londra.

Qui, scoperta dal fotografo Terence Donovan, diventa una modella di successo. Posa per il Calendario Pirelli, recita nel film 007 Zona pericolo. Ma non può dimenticare la sua vita precedente. Decide di raccontare della la mutilazione genitale, prima in un'intervista poi nella biografia Fiori nel deserto, tradotta in 51 lingue. Dal volume prende nome la fondazione che Waris crea nel 2002, la Desert Flower Foundation. Obiettivo: informare e sensibilizzare sull'infibulazione, aiutare le donne che l'hanno subìta e impedire che vi siano altre vittime.


Waris lo fa anche con un altro libro, Figlie del dolore, dove racconta: «Mi sveglio in un bagno di sudore. È molto presto, non sono ancora le sei. Provo a richiudere gli occhi, ma vedo ancora quelle immagini angoscianti: una miserabile stanza d'albergo, piccola e con la carta da parati ingiallita. Una bambina stesa sul letto, di dieci, dodici anni al massimo. Nuda. Quattro donne circondano il letto e la tengono giù. La bambina ha le gambe spalancate, e una vecchia le siede davanti con un bisturi in mano. Le lenzuola sono zuppe di sangue. La bambina grida con quanto fiato ha in gola. Continua a urlare. Grida da strappare il cuore. Sono state quelle urla a svegliarmi. E anche adesso sembrano riecheggiare nella mia camera»

All'epoca molti ignorano che questa pratica sia una realtà anche in Europa, ma l'associazione di Waris conduce un'indagine che porta l'Ue a inserire, per la prima volta, la lotta contro la mutilazione genitale femminile nel suo programma. Oggi intervista poi nella biografia Fiori nel deserto, tradotta in 51 lingue. Dal volume prende nome la fondazione che Waris crea nel 2002, la Desert Flower Foundation ha 10 sedi, dalla Germania al Gibuti, dall'Inghilterra alla Sierra Leone. Proprio qui, dal 2014, 1.000 ragazze sono state salvate e avviate allo studio.

Margarita Meira, 68 anni, dall'Argentina
Nel 1991 Margarita vive il dolore più atroce che una madre possa vivere: sua figlia Susi, 17 anni, viene rapita all'uscita da scuola. La tratta di esseri umani all'epoca non era un reato contemplato dal codice penale argentino, la polizia le ripete che la ragazza è andata via di casa spontaneamente. Ma lei continua a cercarla con un terribile presentimento: «Poliziotti, ufficiali giudiziari, politici... Erano loro i carnefici di mia figlia e di tante altre ragazze»

Dopo 4 anni, la verità: Susi viene ritrovata morta in uno dei 1.200 “prostibulos”, bordelli illegali, di Buenos Aires. Era stata seviziata, drogata, costretta a prostituirsi.

Margarita non può più salvare Susi, ma può impedire che ad altre ragazze succeda ciò che è successo a sua figlia. A Constitución, uno dei quartieri più pericolosi di Buenos Aires, fonda Madres victimas de trata. Un'associazione autogestita che offre sostegno alle vittime di tratta e alle loro famiglie: con psicologi, avvocati e investigatori (tutti volontari), aiuta i genitori a denunciare i rapimenti, cerca le giovani sparite, assiste quelle che vengono ritrovate.

Oggi Margarita ospita le ragazze fuggite dai loro sfruttatori a casa sua, ma il suo obiettivo è costruire un vero centro di accoglienza per le sopravvissute alla tratta, affinché possano contare su un alloggio sicuro e un sostegno fisico, psicologico e legale durante il periodo di recupero.

Isoke Aikpitanyi, 38 anni, dalla Nigeria
La famiglia di Isoke, a Benin City, è numerosa e povera: lei deve aiutare a mantenerla vendendo con la madre frutta e verdura. Per questo, quando le viene offerta la possibilità di andare a lavorare in Europa, accetta, convinta di poter finalmente migliorare la propria vita e quella dei suoi. A 20 anni arriva a Torino, ma non trova ciò che aveva sognato. Ad aspettarla c'è una “mamam”, una delle protettrici che gestiscono la prostituzione nigeriana in Italia. Isoke finisce sulla strada: notte e giorno, sette giorni su sette, incinta o subito dopo un aborto.

Subisce ogni genere di violenza e, quando tenta di scappare, viene quasi uccisa.
 «Non mi interessava più se riuscivo a vivere o morivo. L’importante era essere libera» ricorda oggi.

Quando, dopo anni, riesce a fuggire, fa un'altra scelta di coraggio: aiutare le ragazze come lei. Con il sostegno di un uomo italiano, che poi diventerà suo marito, fonda l’Associazione vittime della tratta. Inizia ad accogliere alcune nigeriane ad Aosta, nella “casa di Isoke”. Presto nascono altre case in Piemonte, Lombardia, Liguria. E lei denuncia l'orrendo sfruttamento in 3 libri - Le ragazze di Benin City, 500 storie vere, Spada, sangue, pane e seme - e nel docufilm Le figlie di Mami Wata.

Grazie alla sua determinazione ha assicurato una via di uscita a migliaia di giovani nigeriane destinate a prostituirsi o a essere usate come fattrici di bimbi. E ha costruito una rete di ex vittime che assistono le nuove vittime della tratta. Quest'anno ha un'altro, importante sfida davanti a sé: tornare in Nigeria, dopo 18 anni, per fermare quei viaggi della speranza che per tante si trasformano in un incubo.
(Leggi la biografia di Isoke nel sito di Foundation for Africa)

Il voto online per designare la "Donna dell'Anno 2018"
Fra le tre finaliste, il 14 marzo 2018 a Saint-Vincent la giuria proclamerà la vincitrice del 20° Premio internazionale “La donna dell’anno”, che riceverà 20.000 euro.

E fino al quel giorno tutti possono partecipare, scegliendo la tua candidata sul sito del Consiglio regionale della Valle d'Aosta: la più votata dal pubblico online vincerà il Premio Popolarità di 15.000 euro. Alla seconda classificata andranno 10.000 euro. Somme che dovranno essere spese interamente per la realizzazione o il completamento dei progetti. E durante la cerimonia di premiazione, "Donna Moderna" assegnerà una targa speciale a una delle tre finaliste.

Per votare la "Donna dell'Anno 2018"




Articolo curato da
Maris Davis

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Terremoto, una serie di scosse in Friuli

Forte scossa di terremoto a Nord-Est mentre irrompe il Burian. Un po' di paura in Friuli.

Una serie di scosse ravvicinate si stanno registrando questa mattina in Friuli, intorno all'area di Forni di Sotto (Udine). La prima, di magnitudo 3.9, è stata registrata dal Centro di Ricerche sismologiche alle 9:16. A questa ne sono seguite altre due di magnitudo 1.1 e 2.4 nei minuti successivi. Il sisma è stato avvertito distintamente in un'area molto estesa, fino in Veneto.

Al momento non si registrano né danni, né feriti, ma le scosse hanno causato un po' di paura nella popolazione, anche in considerazione del terremoto del 1976, che devastò il Friuli. Decine sono state le telefonate giunte ai centralini delle Forze dell'ordine e dei centri di soccorso.

La scossa è stata avvertita distintamente nel capoluogo del Friuli, Udine, dove non si segnalano però momenti di panico.

Accertamenti sono in corso nell'area più vicina all'epicentro da parte dei vigili del fuoco e dei carabinieri di Tolmezzo; anche in questo caso, non si registrano né danni né feriti. Indagini in tal senso continuano nelle frazioni più isolate.

La scossa avvertita questa mattina alle 9.16 nell'area tra Forni di Sotto e Forni di Sopra, in provincia di Udine, ha registrato una magnitudo di 3.9 ed è avvenuta a una profondità di 9,2 chilometri. Lo precisa la Protezione Civile del Friuli Venezia Giulia in una nota diffusa poco dopo la scossa.
(Ansa)


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Vertice UE-G5 Sahel per fermare immigrazione e tratta

Bruxelles rinnova l’impegno per la cooperazione internazionale in Africa.

Nel vertice europeo sul Sahel sono intervenuti il Presidente del Consiglio Gentiloni, il Presidente francese Macron e la Cancelliera tedesca Merkel. Come specificato nella loro dichiarazione congiunta, «solo con la cooperazione con i paesi africani l’Europa può contrastare il terrorismo e le cause dei fenomeni migratori»

Al termine del vertice organizzato nella capitale belga, i rappresentanti di Italia, Francia e Germania hanno presentato gli obiettivi da raggiungere nel continente africano. «Continueremo l’offensiva per sradicare il terrorismo jihadista nel Sahel». Regione interessata attualmente da «traffici di droga, di esseri umani e di armi», e che l’Europa vorrebbe far ritornare un’area «di passaggio, di cultura e di scambi»

Rafforzare la stabilità e la sicurezza nella regione attraverso lo stanziamento di più risorse per contribuire anche allo sviluppo del Sahel, la zona dell'Africa divenuta il crocevia dei flussi migratori da Sud verso l'Europa. Questi, in sintesi, gli obiettivi della conferenza di alto livello a cui molti capi di Stato e di governo, tra cui Paolo Gentiloni, hanno partecipato ieri a a Bruxelles prima della riunione informale dei 27 leader Ue.

All'incontro erano presenti anche i vertici del G5 Sahel, ovvero Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger. L'Ue e i suoi Paesi membri sono i principali sostenitori dell'assistenza finanziaria finalizzata alla sviluppo della regione con un impegno stimato, per il periodo 2014-2020, in otto miliardi di euro. Circa 843 milioni sono stati mobilitati nel trust found costituito dall'Ue per fare fronte ai flussi dell'immigrazione irregolare.

Nell'ambito degli obiettivi della conferenza, rientra il rafforzamento del contributo internazionale in favore della forza militare comune del G5 Sahel. Ai 250 milioni di euro già mobilitati, si sono aggiunti nuovi finanziamenti da parte dell'Ue e dei singoli Paesi che hanno consentito di superare la soglia dei 300 milioni.

L'Italia è in prima fila nelle iniziative avviate verso il Sahel, zona che ritiene di interesse strategico. Roma ha quindi deciso di inviare fino a 470 uomini nella regione per collaborare con il G5 Sahel nell'ambito di uno sforzo internazionale congiunto per la stabilizzazione dell'area.

Gentiloni: 'Battere posizioni populiste e anti-europee'. Dichiarazione con Merkel e Macron dopo vertice su Sahel. La conferenza sul Sahel è stata "molto importante per confermare l'impegno comune Ue in Africa perché solo con la cooperazione con questi paesi e con il loro sviluppo potremo contrastare il terrorismo e le cause dei fenomeni migratori. Questo è il modo migliore per lavorare insieme e battere le posizioni populiste e anti-europee". Così il premier Paolo Gentiloni in una dichiarazione congiunta con Merkel e Macron.

Al termine della conferenza Ue-Unione africana a sostegno del G5 del Sahel, Gentiloni ha spiegato che è stato confermato il ruolo fondamentale dell'Ue e il suo impegno in quella zona particolarmente fragile.

"Oggi c'è una grande domanda di Europa, e per un Paese come l'Italia significa anche impegno a lungo termine per contrastare i rischi del terrorismo e le cause profonde dei fenomeni migratori, perché solo dalla cooperazione con questi Paesi e dal loro sviluppo potremo contrastare il terrorismo e le cause dei fenomeni migratori. In Italia lo facciamo con il lavoro sulla stabilizzare della Libia e con i risultati ottenuti nella diminuzione dei flussi migratori incontrollati. Tutto ciò, ha concluso, è il modo in cui la Ue lavora insieme ed è il modo migliore per battere le forze populiste e anti-europee"


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sabato 24 febbraio 2018

Il Papa incontra Rebecca, la cristiana rapita da Boko Haram

A Roma anche il marito e la figlia minore di Asia Bibi, pakistana in carcere dal 2009 per blasfemia. Mentre Rebecca è una giovane nigeriana rapita nel 2014 e schiavizzata per due anni da Boko Haram.


Questa sera, sabato 24 febbraio, guarderanno il Colosseo illuminato di rosso per ricordare i cristiani perseguitati nel mondo. Un'iniziativa promossa da ACS (Aiuto alla Chiesa che soffre). Questa mattina sono stati ricevuti da Papa Francesco.

Il marito e la figlia minore di Asia Bibi e Rebecca Bitrus. Asia è pakistana ed in carcere dal 2009 condannata a morte per blasfemia in attesa che i giudici esaminino il suo ricorso. Rebecca ha ventotto anni, è una ragazza nigeriana cristiana rapita e schiavizzata per due anni da Boko Haram e i suoi miliziani.



Sono due simboli dei cristiani perseguitati nel mondo

In un video la storia di Rebecca e le sue parole. Il suo appello agli aguzzini: «Basta crudeltà. Convertite i vostri cuori». E alle ragazze nel suo Paese perseguitate e rapite come accadde a lei nel 2014: «Pregate ogni giorno, non smettete mai di pregare,e come è successo a me, sarete libere». Affogarono sotto i suoi occhi il figlio di un anno perché rifiutò di ripudiare la sua fede. Picchiata e stuprata, rimase incinta e scelse di tenere il bimbo. Ha perdonato chi le ha fatto tanto male: «Gesù ha perdonato chi lo ha ucciso, chi sono io per non fare lo stesso?»
(Avvenire)

La famiglia di Asia Bibi e la ragazza rapita da Boko Haram: Europa aiutaci. Incontro nella redazione di Avvenire con alcune vittime della persecuzione contro i cristiani, dal Pakistan alla Nigeria. Il loro racconto.


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La storia di Rebecca, per due anni prigioniera di Boko Haram


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giovedì 22 febbraio 2018

Nigeria. Studentesse rapite a Dapchi, 76 tratte in salvo, 2 uccise da Boko Haram

L'esercito nigeriano ha tratto in salvo 76 delle oltre 100 studentesse rapite lunedì scorso dai miliziani di Boko Haram in una scuola nel villaggio di Dapchi, nello stato nord-orientale di Yobe, e ha recuperato i corpi di altre due presumibilmente uccise dai miliziani che le volevano portare via.

Lo riferiscono fonti militari citate dall'emittente radiofonica nigeriana “Npr”, secondo cui risultano al momento disperse tra le 13 e le 23 studentesse. L’attacco è avvenuto lunedì scorso nel villaggio di Dapchi, dove miliziani armati hanno fatto irruzione nella scuola a bordo di pick-up.

Gli spari hanno attirato l’attenzione delle studentesse e delle loro insegnanti, che sono riuscite a fuggire prima che i miliziani facessero il loro ingresso nella scuola saccheggiando la struttura. Per il momento le autorità locali non hanno confermato il numero esatto delle ragazze che risultano ancora "disperse".

Purtroppo i contorni della vicenda non sono ancora del tutto chiari. La notizia del rapimento, a causa della censura dell'esercito, è trapelata solo ieri, due giorni dopo i fatti. Solo dopo che la notizia è arrivata alle agenzie di stampa, l'esercito ha provveduto a divulgare la notizia delle 76 ragazze liberate e di altre due purtroppo rimaste uccise, senza però precisare le circostanze della loro liberazione (o del loro ritrovamento).

Il presidente Muhammadu Buhari ha fatto sapere d’aver inviato sul posto i ministri degli Esteri, della Difesa e dell'Informazione per indagare sulla situazione, rifiutando però di confermare se qualcuno degli studenti fosse scomparso.

Il commissario della polizia di stato di Yobe, Sumonu Abdulmaliki, ha detto oggi che Boko Haram ha rapito anche tre persone dalla vicina Gaidam.
(The Guardian)

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