martedì 31 maggio 2016

Crimini contro l'umanità e stupro, condannato l'ex presidente del Ciad Habré

Crimini contro l’umanità e stupro, ergastolo per l’ex dittatore del Ciad. Hissène Habré giudicato da un tribunale speciale in Senegal. È la prima volta nella storia dell'Africa che un ex Capo di Stato viene condannato dagli stessi africani.

Hissène Habré, ex Presidente del Ciad
L’ex presidente-dittatore del Ciad Hissène Habré è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità e stupro. A giudicarlo un tribunale speciale africano a Dakar in Senegal. È la prima volta nella storia dell’Africa che un politico di alto rango viene giudicato da giudici tutti africani e che il processo si sia svolto in un Paese del Continente Nero, invece che a L’Aja presso il Tribunale penale internazionale.

Il processo in Senegal un caso senza precedenti. La sentenza è arrivata dopo 25 anni. Il "Pinochet d'Africa", considerato il principale responsabile per la scomparsa di 40 mila persone tra il 1982 e il 1990, non ha mai riconosciuto il tribunale. La difesa sosteneva che non fosse a conoscenza delle uccisioni e delle violenze, ma le carte trovate negli archivi hanno convinto i giudici che lui fosse sempre al corrente di quanto avveniva.

Ci sono voluti venticinque anni di ricorsi, battaglie legali, testimonianze penose e documenti atroci, ma alla fine le vittime di Hissène Habré possono avere giustizia. Il Tribunale straordinario istituito in Senegal con il sostegno dell'Unione Africana ha condannato all'ergastolo quello che era soprannominato il "Pinochet d'Africa", considerato dalla Commissione di verità per il Ciad il massimo responsabile per la scomparsa di 40 mila persone fra il 1982 e il 1990.

Colpevole di crimini contro l'umanità, rapimento, schiavitù forzata e violenza sessuale. Dopo la sentenza, a Dakar, vittime e familiari si sono abbracciati. Per il segretario di Stato Usa John Kerry, "la sentenza è una pietra miliare nella battaglia contro le impunità per gli abusi"

Nel 2001 sotto il pavimento del quartier generale della polizia ciadiana sono stati scoperti gli archivi della sicurezza, con i casi di oltre dodicimila vittime. E dopo aver assistito al racconto degli orrori, che vanno dalla pratica del "waterboarding" alle scosse elettriche, dall'uso di polveri urticanti nelle parti intime ai gas negli occhi, i giudici hanno esaminato una robusta mole di documenti che chiamavano in causa senza ombra di dubbio la presidenza del Paese. "L'ex dittatore era costantemente informato di quello che succedeva"

L'attacco sistematico su ogni forma di opposizione, con libertà di stupro e sparizioni di massa, era talmente radicato che lasciava uno spazio enorme anche a errori giudiziari. Fra questi c'era anche l'arresto il 12 luglio del 1985 di Clement Abaifouta, colpevole di aver vinto una borsa per studiare in Germania. Oggi Abaifouta ha 55 anni e ha raccontato all'agenzia Irin News che, più che la sete di vendetta, cova una grande curiosità: "Vorrei solo chiedergli: perché mi ha fatto arrestare". Il giovane era stato trattenuto due settimane nel quartier generale del famigerato Dipartimento di documentazione e sicurezza, la polizia politica del regime. Poi, lo studente era stato portato in carcere, dove è rimasto per quattro anni senza nemmeno parlare con i familiari o con un legale, con in più il compito penoso di seppellire i compagni di detenzione quando non sopravvivevano alle torture.

L'ex-dittatore, sempre sostenuto dalla Francia, fu costretto a fuggire in Senegal nel 1990 a seguito di un colpo di stato dell'attuale presidente ciadiano, Idriss Déby. Habre ha governato lo Stato africano dal 1982 al 1990. nel 2005 un tribunale belga aveva emesso un mandato di cattura internazionale. Da allora sette anni di limbo fino all'ordine del Tribunale penale Internazionale ad iniziare il processo in Senegal, pena l’estradizione in Olanda.

Hissène Habré durante il processo a Dakar
Sette mesi di processo e 93 testimoni in aula, mentre l’ex Presidente Habre assisteva avvolto nel suo turbante bianco e indossando occhiali da sole per non far trasparire il suo sguardo. Durante il dibattimento il dittatore africano non ha mai risposto alle domande dei giudici e tramite i suoi avvocati ha negato le accuse mossegli.

Al momento della lettura del verdetto in aula, alcune delle vittime presenti hanno intonato canti di gioia e ululati in segno di festa. I legali di Habre avranno adesso 15 giorni di tempo per appellare un verdetto che sembra difficile da ribaltare.

È allo studio anche un risarcimento per le vittime che hanno testimoniato durante il processo, ma anche per coloro che sono stati danneggiati dalle violenze commesse da Habre e dalla Documentation and Security Directorate, la polizia segreta che ha bagnato di sangue il Ciad dal 1982 al 1990.

Aver potuto portare Habré alla sbarra significa che la mobilitazione delle vittime può creare le condizioni politiche perché un dittatore o un torturatore vengano portati davanti alla giustizia, ovunque siano. Questo deve essere di ispirazione per tutte le vittime e i sopravvissuti anche in altri Paesi africani. E dunque il verdetto manda un messaggio potente. "Stanno arrivando alla fine i giorni in cui i tiranni d'Africa potevano brutalizzare i popoli, spogliare le loro proprietà e fuggire all'estero per condurre una vita di lusso"

La condanna di Habre è un segnale anche per la Francia, che pur di controllare le economie delle sue ex colonie in Africa, non ha mai esitato a sostenere dittatori e regimi totalitari come quelli del Ciad, del Benin, del Burkina Faso, della Repubblica Centrafricana, del Mali, del Niger soprattutto negli anni '80 e '90, e che anche oggi non esita a mandare il suo esercito non appena qualcuno dei suoi "protetti" nel Sub-Sahara si trova in difficoltà.
(la Repubblica)

lunedì 30 maggio 2016

Atroce femminicidio, Sara è stata bruciata viva. Confessa il suo ex fidanzato

Sara è stata bruciata viva, il suo ex ha confessato. "Chiedeva aiuto, ma nessuno si è fermato. Poteva essere salvata".

Sara Di Pierantonio
Roma, Vincenzo Paduano è accusato di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e stalking. Durante lʼinterrogatorio ha pianto: "Non sopportavo fosse finita". Vincenzo Paduano, 27 anni, ha confessato l'omicidio della sua ex fidanzata, Sara Di Pietrantonio, la 22enne trovata morta carbonizzata domenica all'alba alla Magliana, a Roma. "È stata bruciata viva", hanno detto gli inquirenti. Il 27enne, di professione guardia giurata, dovrà rispondere di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e stalking. "Sara ha chiesto aiuto a diversi automobilisti di passaggio, ma nessuno si è fermato"

Speronata per essere bloccata. A risultare determinanti per l'inchiesta sono state le telecamere di sorveglianza. Mentre era al lavoro nel quartiere Eur, Paduano ha lasciato il posto di servizio ed è andato sotto casa del ragazzo che Sara aveva cominciato a frequentare quando la loro storia si era conclusa. Ha aspettato che la ragazza salutasse il giovane e quando lei si è allontanata in auto, l'ha inseguita. Sara inizialmente non si è accorta di essere seguita, ha mandato un messaggio alla madre comunicandolo che di lì a poco sarebbe arrivata a casa.

Pochi istanti dopo, Paduano l'ha affiancata e speronata, costringendola a fermarsi. Entrato nell'auto della giovane, ha tirato fuori una bottiglietta e ha cosparso Sara e il veicolo di alcol. La studentessa è uscita ed è fuggita a piedi mentre lui dava fuoco all'auto. Ha provato a scappare e in un ultimo disperato tentativo ha chiesto aiuto alle auto, almeno due, che passavano in strada. Nessuno si è fermato. Paduano l'ha raggiunta e le ha dato fuoco. Poi è rientrato in auto ed è tornato a lavoro, come se nulla fosse.

La confessione. Gli inquirenti avevano concentrato fin da subito le indagini sull'ex fidanzato di Sara. È stato interrogato, poi fermato. Infine, "messo di fronte all'evidenza dei fatti, ha provato a negare anche i dati certi, e poi alla fine ha ammesso di aver ucciso Sara"

Le lacrime durante l'interrogatorio. Ha pianto, ammettendo quel che aveva fatto. Ha cercato di spiegare. Vincenzo Paduano nel corso della tarda serata di domenica ha parlato con gli inquirenti: "Un po' di tempo fa ci eravamo lasciati, ma io non sopportavo che fosse finita. Lei stava con un altro". Il loro era certamente un rapporto contrassegnato da una serie di vessazioni psicologiche ed espressioni di possessività. La relazione tra Vincenzo e Sara andava avanti da oltre due anni con diverse volte in cui i due si sono lasciati e ripresi. Da qualche settimana poi la ragazza aveva intrecciato un nuovo rapporto. Questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Lei aveva paura ma non aveva denunciato. A raccontare l'ultimo periodo di Sara Di Pietrantonio ci hanno pensato gli amici. Tutti concordi nel riferire che Sara era cambiata da quando aveva lasciato, aveva paura. Qualcuno ipotizza anche episodi di stalking che però non risultano essere mai stati denunciati.

"Se qualcuno si fosse fermato, Sara sarebbe ancora viva. Ci vuole coraggio, se si vedono cose strane è dovere chiamare il 113"

"Ragazze denuncino persecuzioni e minacce". Maria Monteleone, sostituto procuratore di Roma, ha poi lanciato un appello: "Invito le ragazze a denunciare e a non tenere nascoste condotte persecutorie e minacce e invito caldamente chi si imbatte in una ragazza che chiede aiuto, anche di notte, a non essere indifferente, a non voltarsi dall'altra parte, ma a fermarsi. Speriamo che una morte così orribile non sia inutile"

"Mai vista una cosa tanto atroce. In tanti anni di servizio non ho mai visto una cosa tanto atroce". Lo ha detto Luigi Silipo, capo della squadra mobile romana, commentando l'omicidio di Sara.

Il reo confesso è a Regina Coeli. Vincenzo Paduano, reo confesso dell'omicidio di Sara Di Pietrantonio, ora si trova nel carcere di Regina Coeli.

Quello di Sara è il 40° femminicidio del 2016
(TgCom24)

Nessuno può salvarti se non tu stesso, e vale la pena di salvarti.
È una guerra non facile da vincere,
ma se c'è qualcosa che vale la pena vincere è questa.
Pensaci su, pensa al fatto di salvare il tuo io.
(dalla bacheca facebook di Sara)

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giovedì 26 maggio 2016

Gara di solidarietà per la piccola nigeriana salvata a Lampedusa

Si chiama Favour e ha nove mesi la bimba nigeriana salvata a Lampedusa. Il medico: "Se potessi l'adotterei". Gara di solidarietà per accogliere la piccola nigeriana. Il responsabile dell'ambulatorio, protagonista del film "Fuocoammare", racconta: "Chiamano da tutta Italia, supplicano di potere crescere quella bambina"

La piccola Favour in braccio al medico di Lampedusa
L'immagine della bimba nigeriana di 9 mesi che ha perso la madre durante la traversata dalla Libia ha commosso decine di famiglie italiane che chiamano l'ambulatorio di Lampedusa per sapere se possono adottarla. La piccola si chiama Favour e nelle foto sta in braccio a Pietro Bartolo, il medico responsabile del pronto soccorso dell'isola diventato celebre dopo il documentario "Fuocoammare" di Gianfranco Rosi, Orso d'oro a Berlino.

"Chiamano da tutta Italia, il telefono del nostro ambulatorio già da ieri squilla in continuazione, sono famiglie che vorrebbero adottarla, che supplicano di potere crescere quella bambina. Anch’io ci ho fatto un pensiero, se potessi l’adotterei, ma non sarà possibile perché ci vogliono dei particolari requisiti per poterla adottare ed io ormai ho sessant'anni e non credo che me l’affiderebbero" Bartolo, che ha tre figli ed è sposato con un medico, vive stabilmente a Lampedusa, e anche questa mattina è andato a controllare se la bambina ha trascorso la notte tranquilla.

La mamma di Favour, incinta, è morta per le combustioni da carburante durante la traversata. Gli scafisti l'avevano costretta a rimanere nella stiva del barcone senza aria e senza poter uscire. La bambina è rimasta sola al mondo e presto il suo caso sarà esaminato dal Tribunale per i minorenni di Palermo che potrebbe dichiararla adottabile e affidarla a una casa-famiglia siciliana.
(L'Huffington Post)

mercoledì 25 maggio 2016

Quando un "Papa Cattolico" incontra chi vuole crocifiggere gli infedeli

Bergoglio ha toccato un nuovo minimo, lunedì ha incontrato il grande Imam della moschea del Cairo Al-Azhar in Vaticano, un incontro senza precedenti tra il leader dei cattolici di tutto il mondo e la più alta autorità islamica sunnita (gli islamici più integralisti, tanto per intenderci). Papa Francesco ha abbracciato chi disse che era lecito "crocifiggere" i cristiani.

Papa Francesco ha ricevuto e abbracciato in Vaticano l’Imam della moschea Al Azhar del Cairo, Ahmad Al-Tayyeb, considerato la massima autorità religiosa dell’Islam sunnita (per quanto non esista una vera e propria gerarchia all’interno della galassia musulmana). È una scelta coraggiosa, ma che non condivido nel modo più assoluto.

Per quanto legato alla casta militare egiziana in aperta contrapposizione al movimento dei Fratelli Musulmani, l’Imam di Al Azhar resta il portavoce di un Islam la cui matrice culturale tradizionalista e letteralista è permeata dall'integralismo e dalla subalternità alla politica. Basti pensare agli elogi rivolti anche in tempi recenti ai cosiddetti "shahid" (martiri) che compiono azioni terroristiche suicide contro gli israeliani, o alla minaccia di crocifissioni e taglio delle mani rivolta contro chi non segue il vero Islam. Non è proprio il linguaggio di una pacifica autorità religiosa.

Questo Papa cattolico, che va in Grecia e si carica sull'aereo famiglie di mussulmani (anziché famiglie di cristiani), che non dice nulla (o comunque non abbastanza) dei massacri di cristiani nella mia Nigeria, delle Chiese bruciate in tutto il mondo, che si inginocchia nelle moschee. No, questo Papa NON mi piace.

Dopo morti, massacri, stupri, rapimenti, chiese e villaggi bruciati NON permetto ad un "idiota" Papa Cattolico di genuflettersi di fronte a chi ha provocato tanto orrore

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martedì 24 maggio 2016

Morta 22enne nigeriana nel bergamasco. Misteriose le cause del decesso

La notizia è stata resa pubblica dalla "Fondazione Gedama Onlus" nella sua ultima newsletter. L'associazione si occupa proprio di ragazze nigeriane costrette alla prostituzione nella zona di Bergamo, e di immigrati vittime di tratta.

Rita, così chiameremo la ragazza, si faceva trovare la sera sempre al suo solito posto dall'unità di strada dell'associazione che periodicamente offriva conforto alle ragazze nigeriane costrette a prostituirsi nel bergamasco.

"Quella che riportiamo è una storia amara che interpella e indigna. La storia di Rita non è certamente l'unica di quelle mai raccontate di tante altre persone vittime della tratta di esseri umani e costrette poi alla prostituzione. La incontravamo in strada con la nostra unità stradale alla sera, al suo solito posto". Una giovane donna nigeriana in mano a gente criminale che, dopo averla portata in Italia, minacciando ritorsioni su di lei e sulla sua famiglia l'avevano costretta alla prostituzione di strada.

"Da qualche tempo quando passavamo in strada, non la vedevamo più al suo solito posto e avevamo il sospetto che fosse successo qualcosa. Dopo alcuni giorni le sue amiche ci hanno riferito che era morta il 6 aprile 2016"

Per raccogliere qualche informazione in più e per capire quello che davvero era accaduto i responsabili dell'associazione Gedama si sono rivolti alle parrocchie della zona e al Comune di Bergamo. Trovare informazioni per una ragazza senza documenti, straniera e che vive ai margini della società è sempre difficile.

Si è saputo poi che la ragazza era all'ospedale di Seriate (forse portata lì da qualcuno) e quindi trasferita a quello di Bergamo a causa di gravi ferite all'addome e sul seno. Ferite spiegabili solo con una violenza, ferite inferte con un attrezzo a punta, da chi, quando e dove resta un mistero. La ragazza è deceduta prima di poter spiegare l'accaduto. La domanda che ci poniamo, Rita è stata uccisa ?? E se si, da chi ?? (da un cliente o dai suoi sfruttatori).

"Si, l'abbiamo trovata al cimitero di Bergamo, sepolta da alcuni giorni. Abbiamo avuto la sensazione di una sepoltura rapida e nascosta". Dalla Nigeria alle strade italiane costretta a prostituirsi, e infine al cimitero.

Sepolta in fretta e in silenzio dalla burocrazia. Sulla lapide il suo nome vero (non quello di strada), Tope Bose Andrew, la sua data di nascita 1.4.1994 e quello della sua rinascita al cielo 6.4.2016 e la scritta di una Chiesa Pentecostale che lei frequentava, quella di San Giacomo. Lei è sepolta acconto alla tomba di un'altra ragazza nigeriana morta alcuni anni fa a 19 anni.

"Nessuno ci ha riferito del perché della sua morte, né se sulle cause sia stata aperta un'inchiesta"

"Only my God Can Give Hope" .. La morte di questa ragazza, come quella di tante ragazze che muoiono in strada ogni anno in Italia, ci addolora profondamente. Nel profondo sentiamo anche una incontenibile amarezza pensando che tutti noi, ad iniziare dalle istituzioni, stiamo facendo veramente poco per queste ragazze di strada.
(Fondazione Gedama Newsletter)


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venerdì 20 maggio 2016

Nigeria, libera un'altra ragazza di Chibok

Due giorni fa era stata ritrovata anche Amina che aveva con se una bambina di pochi mesi, probabilmente sua figlia. Per 2 anni prigioniera Boko Haram.

Si apre una breccia di speranza per la liberazione di un'altra studentessa delle oltre 200 rapite due anni fa da Boko Haram. A due giorni dal ritrovamento della 19enne Amina Ali Nkeki che vagava nella foresta di Sambisa, considerata la roccaforte dei Boko Haram, arriva infatti la notizia di un'altra studentessa che sarebbe stata liberata. Sono ancora pochissimi i dettagli ma resta la speranza che anche altre ragazze siano state rilasciate dagli integralisti islamici.

Serak Luka
la ragazza ritrovata ieri
Amina camminava in mezzo alla foresta di Sambisa, vicino al confine tra la Nigeria e il Camerun, cercando di raggiungere il villaggio di Baale. Era sotto choc e teneva in braccio una bambina di 4 mesi, sua figlia Safiya. Amina Ali è la prima delle ragazze di Chibok rapite due anni fa da Boko Haram a essere liberata. A trovarla è stato un gruppo di vigilantes che pattugliavano le aree dove Boko Haram tiene nascosti i suoi ostaggi. E dove forse si trovano da più di 760 giorni le altre 218 studentesse rapite nella notte del 14 aprile 2014. Amina è stata subito riaccompagnata a casa dalla madre, che vive nel villaggio di Mbalala, nei pressi di Chibok.

Le giovani facevano parte delle 276 studentesse della scuola superiore di Chibok, nello Stato nord-orientale del Borno, presa d'assalto dal gruppo jihadista il 14 aprile 2014. Poche ore dopo il sequestro, decine di studentesse riuscirono a fuggire, ma di 219 non si seppe più nulla fino al mese scorso, quando un video mostrò le immagini di alcune di loro ancora in vita.

Per due di loro la sorte è stata benevola, ma forse, nella foresta, potrebbero esserci altre ragazze. Amina è stata trovata con un bambino di pochi mesi ed un uomo, arrestato, perché ritenuto il jihadista a cui Amina era stata concessa in sposa, in nome della sua fedeltà alla causa. Della seconda ragazza liberata non si conosce invece ancora l'identità. Quel che è certo è che Amina ha raccontato che alcune ragazze sono morte, ma altre sono ancora in mano ai terroristi. E non è escluso che alcune di loro siano riuscite a fuggire.

La vicenda delle studentesse di Chibok ha suscitato un'ondata di commozione internazionale che ha portato tra l'altro alla campagna "Bring Back Our Girls" sui social, alla quale hanno aderito anche Michelle Obama e la pakistana Malala Yousafzai, Premio Nobel per la pace. E i fallimenti del governo e dell'esercito su questo fronte sono stati probabilmente all'origine della sconfitta elettorale del presidente Goodluck Jonathan lo scorso anno.

Si ipotizza che Boko Haram abbia rapito molte migliaia di ragazzi e ragazze nella sua guerra di indipendenza dallo Stato centrale, in nome dell'autoproclamato Califfato islamico, che in sette anni ha provocato oltre ventimila morti. L'esercito, sostenuto anche da una coalizione multinazionale, è riuscito progressivamente a cacciare i terroristi dalle città, costringendoli a rifugiarsi nella foresta. La risposta, però, è stata il sempre più massiccio ricorso agli attentati kamikaze contro obiettivi civili.
(la Repubblica)




lunedì 16 maggio 2016

Ragazze dello Zimbabwe portate in Kuwait per diventare "schiave sessuali"

Centinaia di giovani ragazze dello Zimbabwe sono state convinte a trasferirsi in Kuwait con la promessa di un buon lavoro, ma in realtà poi utilizzate come schiave sessuali.

A denunciarlo, un’inchiesta del sito panafricano "Africa News" che ha raccolto alcune testimonianze di queste giovani. Il racconto di Sylvia "Mi hanno mentito. Quando ero in Zimbabwe mi hanno promesso uno stipendio di 600 dollari statunitensi. Ma una volta arrivata in Kuwait ho scoperto che la paga era di soli 230 euro e l’orario di lavoro era di circa 20 ore al giorno". Ma Sylvia, che è laureata ed è stata aiutata dal proprio consolato a rientrare in patria, racconta anche di violenze sessuali. "Non voglio entrare nel dettaglio. Basti sapere che sono stata costretta a fare cose che non avrei mai voluto fare".

Come Sylvia, decine di altre ragazze con buoni livelli di istruzione, ma senza lavoro, sono attirate dalla promessa di posti di lavoro ben retribuiti e sistemazioni abitative ottime in Kuwait. In realtà, appena arrivate nel piccolo Paese del Golfo, si trovano di fronte a una situazione molto diversa.

Le terribili esperienze che vivono le lasciano traumatizzate. Molte di loro hanno bisogno di assistenza psicologica. Un'altra ragazza racconta "Ciò che ho passato in Kuwait è stata l’esperienza più brutta della mia vita. Qualcosa che non ho mai sperimentato e che non vorrei mai più vivere. Adesso ho bisogno di un sostegno psicologico che mi aiuti a riprendere la mia vita e a tranquillizzarmi".

Linda Masarira (twitter) esponente di un’organizzazione che tutela i diritti umani, punta il dito contro il Governo dello Zimbabwe. "Il nostro Governo deve lavorare per migliorare l’economia del nostro Paese. Solo in questo modo riuscirà a evitare che i cittadini disperati cadano nella trappola tesa loro da trafficanti senza scrupoli". Masarira ha chiesto anche che l'esecutivo si impegni a riportare a casa le ragazze che si trovano in condizioni terribili in Kuwait. "È responsabilità dei nostri ministri tutelare l’incolumità dei loro concittadini. Sono i nostri ministri a doversi occupare della questione e risolverla. Lo impone la nostra Costituzione".

Il Governo dello Zimbabwe è però rimasto in silenzio sulla questione traffico di esseri umani in Kuwait. Un portavoce ha dichiarato che "è una questione delicata". Anche se il mese scorso la polizia di Harare (la capitale dello Zimbabwe) ha arrestato un funzionario dell’ambasciata del Kuwait implicato nel traffico. No comment da parte dell’ambasciata kuwaitiana.
Ragazze dello Zimbabwe

domenica 15 maggio 2016

Ravenna, rumeno 17enne violenta una studentessa durante una festa in spiaggia

Ravenna, violenta ragazza durante una festa in spiaggia, poi lui la filma mentre lei piange. Fermato un 17enne rumeno. Il giovane, dopo la convalida del GIP del Tribunale dei Minorenni di Bologna, si trova in un istituto di custodia minorile bolognese.

L'ha invitata in spiaggia nel corso di una festa in uno stabilimento balneare di Marina di Ravenna. E una volta lì, l'ha attirata con una scusa in un luogo appartato della spiaggia. La ragazza, dopo aver respinto le pesanti "avances" del rumeno è stata immobilizzata e poi stuprata.

È l'accusa con la quale i carabinieri hanno fermato a poche ore dai fatti un 17enne romeno, in Italia da pochi mesi, che non studia e non lavora e che abita con dei parenti nel Ravennate. Vittima dell'episodio, accaduto nella notte tra sabato e domenica, una studentessa 18enne italiana, anche lei residente nel Ravennate. Il giovane, dopo la convalida del GIP del Tribunale dei Minorenni di Bologna, si trova in un istituto di custodia minorile bolognese.

La dinamica. La ragazza e un’amica anch'essa 18enne, avevano raggiunto il lungomare per partecipare a una festa. È lì che hanno incontrato il romeno e un amico, un suo connazionale pure lui minorenne, che forse già conoscevano di vista. Loro avrebbero chiesto alle due giovani di accompagnarle a riva. Giunto sull'arenile, il gruppetto si sarebbe diviso. L’amica della vittima e uno dei due ragazzi si sono allontanati andando verso la festa e lasciando gli altri da soli. È a quel punto che il giovane romeno avrebbe stuprato la ragazza. Le cui urla, un po’ confuse con la musica martellante del party, sono state sentite dall'amica. Che avrebbe voluto soccorrere la vittima senza però riuscirci perché il complice la tratteneva. Solo al termine della violenza l'ha lasciata andare.

Filmata mentre si rivestiva, in lacrime. I carabinieri della compagnia di Faenza, dopo la denuncia della madre, hanno in meno di 24 ore poi fermato il sospettato, identificato dalla stessa vittima: nel suo telefonino hanno trovato il video con cui ha ripreso gli istanti successivi alla violenza. Per il momento il fascicolo è stato aperto come violenza sessuale di gruppo: gli inquirenti vogliono capire se il secondo romeno alle prime grida della ragazza abbia ostacolato o meno l’intervento dell’amica.
(Corriere della Sera)


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