venerdì 27 aprile 2018

Proteste in tutta la Spagna. Fu uno stupro di gruppo, ma i giudici derubricano il reato a semplice abuso

La sentenza in Spagna: “Stupro di gruppo? No è solo abuso”. La procura fa ricorso, governo contro i giudici. Proteste da Madrid a Barcellona.


I cinque sivigliani avevano aggredito una ragazza durante la festa di San Fermin, a Pamplona, nel 2016. Sono stati condannati a 9 anni di carcere per “abuso sessuale” e assolti dall'accusa di “aggressione sessuale, per l’assenza di violenza e intimidazione. Il ministro della giustizia: "Siamo con le vittime". E chiede una eventuale revisione del codice penale del 1995. In migliaia si riversano nelle piazze di tutto il paese per protestare.

La Procura generale della Repubblica di Navarra ha annunciato che presenterà ricorso contro la sentenza che ieri ha condannato solo per ‘abuso’ e non aggressione sessuale i cinque sivigliani membri del branco che due anni fa hanno stuprato una ragazza alla festa di San Firmin a Pamplona.

I cinque, di età compresa fra 27 e 29 anni, sono stati condannati a 9 anni di carcere per “abuso sessuale” e assolti dall'accusa di “aggressione sessuale” (la procura chiedeva 20 anni), per l’assenza di violenza e intimidazione. E uno dei tre giudici della Navarra si era addirittura pronunciato per l’assoluzione completa.

Secondo i giudici la ragazza, da sola contro cinque energumeni, non si era ribellata abbastanza

Una sentenza che ha scosso la Spagna e che ha portato in piazza migliaia di persone, da Barcellona a Siviglia. Migliaia i post online con l’hashtag #YoTeCreo. E anche il governo si è scagliato contro la sentenza e “dalla parte delle vittime”: il ministro della Giustizia Rafael Catalá ha chiesto a una commissione del dicastero di rivedere ed eventualmente attualizzare i reati di tipo sessuale inclusi nel codice penale aggiornato al 1995.


Le proteste. Ieri cortei si erano tenuti a Barcellona, nella capitale Madrid e anche in altre città della Spagna, compresa Siviglia, città natale dei cinque. Oggi i manifestanti si sono radunati di nuovo davanti alla Corte di Pamplona che ha emesso la sentenza, gridando ‘Non è abuso sessuale, è stupro’, e tenendo cartelli sui quali si leggeva ‘Palazzo di ingiustizia’. Altre proteste sono in programma in città per domani 28 aprile, secondo quanto ha annunciato il Movimento delle donne di Pamplona. L’indignazione per il verdetto segue l’ondata di movimenti di protesta femministi avviati nel mondo con la campagna #MeToo contro molestie e aggressioni sessuali.

La vicenda. I cinque avevano anche filmato tutto con gli smartphone, vantandosi poi dei fatti su un gruppo WhatsApp, in cui si riferivano a loro stessi con la parola La Manada, cioè “il branco”.

In Spagna il reato di “abuso sessuale” implica che non ci sono state “violenza o intimidazione“; ed è stata evitata l’accusa di aggressione sessuale, che comprende i casi di stupro. I giudici del tribunale di Pamplona, nella regione di Navarra nel nord del Paese, hanno condannato i cinque a nove anni di carcere e hanno stabilito che sarà vietato loro di avvicinarsi a meno di 500 metri dalla vittima e contattarla, per 15 anni; dovranno inoltre versarle, insieme, un indennizzo di 50mila euro.

La pena inflitta è di gran lunga inferiore rispetto a quanto avrebbe voluto la procura, che aveva chiesto 22 anni e 10 mesi di reclusione contro ognuno dei membri del gruppo e 100mila euro di risarcimento in totale. La decisione ha scatenato un’ondata di proteste e centinaia di persone si sono raccolte davanti al tribunale gridando ‘È stupro, non abuso’. ‘Ti crediamo, sorella’, si leggeva su alcuni cartelloni portati al sit-in, nelle immagini mandate in onda dalle tv spagnole.

Sono indignata per il fatto che dopo uno stupro di gruppo tu debba anche soffrire la violenza di una giustizia patriarcale”, ha scritto su Twitter la sindaca di Barcellona, Ada Colau, in un messaggio diretto alla vittima. “Non sei sola, oggi saremo migliaia a scendere in strada per unire le nostre voci alla tua”, ha aggiunto. Anche la vice premier Soraya Saenz de Santamaria ha commentato, dicendo che nonostante tutto le sentenze dei giudici vadano rispettate, le autorità devono analizzare cosa è successo “per evitare che comportamenti del genere avvengano di nuovo in questo Paese
(Il Fatto Quotidiano)

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domenica 22 aprile 2018

25enne pakistana di Brescia uccisa dal padre perché rifiutava le nozze imposte

La giovane, 25 anni, sarebbe stata sgozzata nella città natale dove era andata a gennaio per visitare i parenti. Ma la sua morte è l'unica certezza. Per il delitto arrestati il padre e il fratello.

Sana Cheema, 25 anni

Si sarebbe rifiutata un matrimonio combinato dai familiari. Lei voleva sposare il suo fidanzato italiano.

Uccisa in Pakistan perché voleva voleva sposare un giovane italiano anche lui di origini pachistane, rifiutando lo sposo scelto per lei dalla famiglia, in Pakistan. È quanto sostengono gli amici di Sana Cheema, 25 anni, una giovane pachistana che viveva da sempre a Brescia, dove si era bene inserita: dopo gli studi, i primi contatti con il mondo del lavoro a Milano.

E poi l'amore: un ragazzo di cui non si sa molto, anche lui di origini pachistane e con cittadinanza italiana, che Sana aveva scelto e con il quale contava di sposarsi, nonostante il fermo divieto dei familiari. Un giovane che dopo aver vissuto con lei per anni a Brescia le aveva proposto di seguirlo in Germania.

Un paio di mesi fa Sana è però tornata in Pakistan, nel distretto di Gujrat dove è nata: lo faceva di tanto in tanto, per andare a ricongiungersi con i familiari per un breve periodo. Non è più tornata. In rete è stato postato dalla famiglia il video del suo funerale, celebrato secondo il rito islamico.

Morta in un incidente secondo i familiari; sgozzata dal padre e dal fratello, secondo gli amici di Brescia. I due sarebbero stati arrestati dalla polizia di Gujrat.

La comunità islamica di Brescia nega fermamente che la ragazza sia stata uccisa dal padre e dal fratello per essersi rifiutata un matrimonio imposto dai familiari, ma gli amici di Sana confermano le inquietudini di Sara per il rifiuto dei suoi familiari ad accettare il fidanzato italiano.

È un classico tra le comunità islamiche in Italia. Si induce la ragazza, che quasi sempre è solo un'adolescente, magari una figlia di seconda generazione, a rientrare nel paese di origine con una scusa, una festività o una visita per ritrovare i parenti come nel caso di Sana, e una volta lì ecco scattare la trappola. Un matrimonio bello e pronto per la figlia che a quel punto è in trappola.

Il rifiuto di Sana è un atto coraggioso, direi eroico, portato fino alle estreme conseguenze

Una libertà che le donne nel mondo islamico NON hanno mai avuto. E se, la cultura occidentale per certi islamici, è il male assoluto. E allora, io mi chiedo, per quale motivo gli islamici vengono a vivere in occidente se poi si rifiutano di accettare la cultura e le tradizioni del paese che li ospita ??

Sana, al contrario, si era ben integrata. Viveva e si vestiva all'occidentale, aveva studiato e a Brescia gestiva in proprio un'autoscuola. Per i suoi familiari tutto questo forse era troppo, e anche per questo che è stata uccisa.

Brescia, sotto shock, torna a vivere la tragica vicenda di Hina Saleem, la giovane uccisa nell'agosto del 2006 a Ponte Zanano dai familiari e sepolta nel giardino davanti a casa. Anche lei, come Sana, voleva vivere all'occidentale. Anche lei, come Sana, ha pagato con la vita l'onta alle tradizioni della famiglia.

"Hai pagato la tua voglia di libertà". Così alcuni amici bresciani di Sana Cheema, su Facebook hanno commentato e condiviso la notizia del suo assassinio. E su Twitter a commentare la tragica notizia è anche Matteo Salvini. "Quanta tristezza, quanta rabbia", scrive il leader della Lega. "In Italia NESSUNO spazio per chi viene a portare questa 'cultura'" .. e su questo (ma solo su questo) anch'io sono d'accordo con Salvini.

Aggiornamento .. Le ultime notizie raccontano che le autorità pakistane hanno liberato il padre e il fratello di Sana perché non ci sarebbero prove della loro colpevolezza. La comunità pakistana a Brescia insiste nell'avallare la versione della morte "accidentale" (un malore improvviso, secondo loro). Gli amici di Sana però confermano i continui litigi con la famiglia che non voleva che la loro figlia vivesse all'occidentale.

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Articolo di
Maris Davis

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domenica 8 aprile 2018

Almeno 70 morti in un attacco chimico in Siria

Gli attivisti accusano il regime di Assad di avere usato gas sui civili a Douma, città a est di Damasco, e circolano foto e video impressionanti.


Nella notte tra sabato e domenica è stato compiuto un bombardamento chimico a Douma, città alla periferia est di Damasco. Almeno 70 persone sono morte, molte dei quali bambini, secondo il gruppo di soccorso dei Caschi Bianchi. Gli attivisti antigovernativi hanno accusato il regime del presidente Bashar al Assad di esserne responsabile. Foto e video molto impressionanti diffusi sui social network mostrano decine di persone morte ammassate nelle case e nei rifugi in cui avevano cercato riparo, con gli evidenti segni di una morte per soffocamento da gas, come la schiuma bianca alla bocca. Il governo siriano ha respinto le accuse di aver compiuto un attacco chimico.

Nel pomeriggio, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato il bombardamento, attribuendone la responsabilità ad Assad, definito «animale». Trump ha detto che ci sarà «un grande prezzo da pagare», e ha accusato l’ex presidente Barack Obama di non essere intervenuto a suo tempo per fermare il dittatore siriano.


Raed al Saleh, capo dei Caschi Bianchi, ha detto ad al Jazeera che ci sono molte persone in condizioni critiche e che è probabile che il bilancio dei morti salirà. Non è ancora chiaro che tipo di gas sia stato usato. Al Saleh ha parlato di cloro, di cui Assad ha fatto largo uso negli ultimi anni, e di un altro agente più forte. Quello di questa notte sembra essere stato uno dei più gravi bombardamenti degli ultimi tempi in Siria.

Il mese scorso erano emersi nuovi sospetti di attacchi chimici del governo siriano a Ghouta orientale, l’area della periferia di Damasco dove si trova Douma, ma alcuni medici avevano sostenuto che i sintomi riscontrati nelle persone coinvolte potevano essere causati dalle sostanze emesse da un missile inesploso. L’ultimo grande attacco chimico in Siria avvenne esattamente un anno fa, a inizio aprile del 2017, quando almeno 74 persone erano morte nella provincia siriana di Idlib, anche in quel caso era stato usato un agente più potente del cloro, forse il sarin, un tipo di gas nervino che agisce rapidamente.


Douma è l’ultima città controllata dai ribelli siriani nella parte orientale di Ghouta, città sotto assedio da anni e contro cui le forze alleate di Assad hanno lanciato una violenta offensiva. Nelle ultime settimane l’esercito di Assad è avanzato riconquistando posizioni, e nei giorni scorsi sono arrivate notizie contrastanti sulla possibilità che l’ultimo gruppo di ribelli a Ghouta orientale, Jaish al Islam, avesse accettato di lasciare la città. È successo però soltanto in parte, e molti miliziani sono ancora nella città. L’agenzia di stampa siriana SANA dice che il bombardamento di sabato notte è stata una risposta proprio ad un attacco alla periferia di Damasco del gruppo.

Come ha spiegato l’analista Michael Horowitz, Ghouta è destinata a essere riconquistata da Assad, ma il punto è quando succederà. I miliziani di Jaish al Islam ancora nella città potrebbero potenzialmente tenere impegnato l’esercito siriano per mesi, impedendo al regime di schierare quei soldati altrove. Per questo, l’obiezione circolata tra i sostenitori di Assad secondo cui non avrebbe senso per il regime bombardare Douma non regge: avrebbe invece interesse a chiudere la questione il prima possibile. Secondo Horowitz, poi, le tempistiche dell’attacco potrebbero essere legate anche alle recenti dichiarazioni di Trump, che ha detto di voler far uscire presto gli Stati Uniti dalla guerra Siriana. Un’eventuale risposta americana al bombardamento, come era avvenuto in passato, sarebbe complicata da presentare pubblicamente per Trump, perché sembrerebbe una marcia indietro.

Negli ultimi giorni, comunque, migliaia di persone, tra cui molti ribelli con le loro famiglie, hanno lasciato Ghouta, grazie a degli accordi tra ribelli e la Russia, alleata di Assad nella guerra in Siria. L’ultima offensiva contro i ribelli di Ghouta è cominciata a metà febbraio, e ha provocato centinaia di morti. A Ghouta vivevano in tutto 400.000 persone, in stato di assedio dal 2013 e negli ultimi mesi in condizioni sempre più difficili a causa di carenza di cibo e medicinali. Interi quartieri delle città della zona sono stati distrutti dai bombardamenti. L’unica grande area della Siria ancora controllata dai ribelli è la provincia di Idlib, nel nord ovest del paese, dominata per lo più da gruppi jihadisti.

Un comunicato del Dipartimento di Stato americano dice che le notizie da Douma, «se confermate, sono terribili e richiedono una risposta immediata dalla comunità internazionale». Nel comunicato, gli Stati Uniti ricordano l’attacco del 2017, per il quale accusano Assad, che dicono deve essere ritenuto responsabile delle sue azioni, così come la Russia che lo sostiene.

Ghouta fu già attaccata con armi chimiche nell'agosto del 2013. Fu l’attacco che portò gli Stati Uniti molto vicini ad intervenire nel conflitto, ma ci vollero mesi a trovare conferme dell’uso di armi chimiche e infine l’amministrazione di Barack Obama si limitò ad imporre la distruzione delle altre armi chimiche in possesso di Assad. Dopo l’attacco con armi chimiche nella provincia di Idlib dell’aprile del 2017, gli Stati Uniti risposero con il lancio di 59 missili contro obiettivi militari siriani.
(Il Post)

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venerdì 6 aprile 2018

Sversamenti nel Delta del Niger. Amnesty International accusa Eni e Shell

Amnesty International è tornata ad accusare oggi i giganti petroliferi SHELL ed ENI di “gravi negligenze” nel trattare gli sversamenti di greggio in Nigeria.


In quanto le società "impiegano settimane a rispondere alle segnalazioni di sversamenti e pubblicano informazioni fuorvianti sulle cause e sulla gravità degli stessi, che possono portare a mancate compensazioni per le comunità locali"

La replica di Shell è arrivata a stretto giro: “Le accuse di Amnesty sono false, senza valore e non riescono a riconoscere il complesso ambiente in cui opera la società". L’italiana ENI ha invece rifiutato di commentare.

SHELL ed ENI, attualmente sotto processo a Milano per corruzione, sono da decenni le due compagnie petrolifere più attive nella regione del Delta del Niger, cuore estrattivo del secondo maggior produttore del continente, divenuto una delle zone ecologicamente più devastate al mondo, segnata da decenni di sversamenti che, penetrando nelle acque e nel terreno, hanno contaminato l’intero ecosistema.

Da anni le comunità locali, private delle loro naturali fonti di sostentamento, chiedono che l’ambiente venga ripulito e che vengano assegnati loro dei risarcimenti. Tuttavia, la pulizia e il relativo risarcimento sono altamente controversi. Secondo la legge nigeriana, le aziende devono visitare i siti entro 24 ore dalla segnalazione di uno sversamento ma, secondo Amnesty, in un caso ENI ha impiegato più di un anno per rispondere a una fuoriuscita nello stato di Bayelsa.

Niger Delta.  Sversamenti di petrolio documentati da Amnesty International nel solo 2018 (OilSpillMonitor)

SHELL ha riportato 1.010 fuoriuscite dal 2011, ed ENI 820 dal 2014, secondo Amnesty, secondo cui su 89 delle 1.830 segnalazioni ricevute, "ci sono ragionevoli dubbi sulla causa fornita dalle compagnie petrolifere"

Lo scorso gennaio è iniziato a Milano un altro processo civile contro ENI da parte di una comunità del Delta del Niger che nel 2010 ha visto il suo territorio inondato di petrolio dopo un’esplosione di un oleodotto. Nel 2015, la comunità di Bodo ha negoziato con SHELL in tribunale a Londra una compensazione di 55 milioni di sterline per i danni subiti.
(Reuters)


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Interland di Torino, lite tra prostitute nigeriane. Botte per paura del "woodoo"

Sei "lucciole" nigeriane hanno picchiato a sangue una giovane "collega" di 27 anni perché convinte che praticasse riti woodoo per danneggiarle. "Ci fa perdere i clienti"

Non piaceva alle colleghe che sospettavano praticasse riti woodoo e che allontanasse i clienti: per queste ragioni una giovane nigeriana di 27 anni è stata aggredita a bastonate da un gruppo di “lucciole” anch'esse nigeriane. È accaduto intorno alle 12,00 di venerdì scorso lungo la “direttissima della Mandria” nell'area industriale di Robassomero. Dopo un’animata discussione sei prostitute hanno aggredito con violenza la collega, costringendola a ricorrere alle cure dei sanitari.

A portare la ragazza al pronto soccorso dell’ospedale di Ciriè sono stati i carabinieri della compagnia di Venaria intervenuti sul luogo dell’aggressione dopo la chiamata effettuata dalla giovane prostituta che, dopo essere stata medicata è stata dimessa nel pomeriggio dello stesso giorno.

Le altre “lucciole” anch'esse nigeriane, avevano deciso di darle una “lezione” perché convinte praticasse riti magici per togliere loro i clienti.

La vittima ha denunciato l'accaduto mentre i carabinieri hanno acquisito i filmati delle telecamere di videosorveglianza installate in un’azienda dell’area industriale, per ricostruire le fasi dell’aggressione.




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giovedì 5 aprile 2018

Camerun, fuga dall'incubo Boko Haram

Non si ferma l'esodo a Nord degli sfollati interni e dei disperati dalla Nigeria. Nella regione di confine raddoppiati gli attacchi dei jihadisti. «Terrore, ma nessuno ne parla»

Campo di profughi in fuga da Boko Haram. Zamai, Camerun settentrionale

«Hanno attaccato anche questa mattina. Boko Haram ha colpito tre villaggi nella località di Ashigashiya provocando morti, feriti, e la fuga di molte persone arrivate fin qui a darci la notizia. I jihadisti continuano a seminare terrore, ma nessuno ne parla». Mohamed, camerunese sui 40 anni, è arrivato l’anno scorso nel campo per sfollati di Zamai, una località nella regione dell’Estremo Nord in Camerun.

Oltre a lui circa altri mille civili, in gran parte donne e bambini, si trovano nelle stesse condizioni. Sono però almeno «241mila gli sfollati interni» nel nord del Paese, senza contare quelli che si sono spostati più a sud. Tutti hanno lasciato le loro case appena Boko Haram ha preso di mira centinaia di villaggi situati soprattutto alla frontiera tra Camerun e Nigeria.

«Guarda queste bambine», racconta Mohamed, indicando tre piccole sorelle che siedono una accanto all'altra abbracciate: «Sono venute qui alcuni giorni fa dopo aver perso entrambi i genitori. Come è successo a molti di noi, Boko Haram li ha uccisi mentre tentavano di scappare»

Secondo le Nazioni Unite, sono stati «almeno 60 gli attentati suicidi nella regione dell’Estremo Nord durante il 2017». Un aumento del 50 per cento rispetto al 2016. A qualche chilometro di distanza da Zamai, nel campo di rifugiati di Minawao, 60mila nigeriani hanno invece lasciato il loro Paese per trovare soccorso al di là della frontiera, in territorio camerunese.

Secondo le ultime stime sono «oltre 93mila i profughi venuti in Camerun dalla Nigeria settentrionale». Con ogni nuovo attacco, però, i numeri continuano a crescere. «Il Camerun è lo Stato che ha subito le maggiori conseguenze legate all'espansione del gruppo jihadista oltre il confine della Nigeria», ha dichiarato Ursula Mueller, assistente del segretario generale dell’Onu per gli affari umanitari, dopo aver visitato a fine febbraio entrambi i campi.

«Almeno 3,3 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza. Nell'estremo nord, una persona su tre è vittima di una crisi allarmante legata soprattutto alla sicurezza alimentare»

Rifugiati a Minawao

Le organizzazioni umanitarie sul campo stanno però affrontando diversi ostacoli. È una lotta quotidiana che si estende anche verso l’area di Kolofata, dove i campi profughi sono in condizioni ancora più fragili. I problemi sono innanzitutto economici: «Dei 305 milioni di dollari richiesti per rispondere alla tragica situazione causata da Boko Haram in Camerun, recita chiaramente una nota dell’Organizzazione Onu per il coordinamento umanitario (Ocha), abbiamo raggiunto solo il cinque per cento». Proprio per questo si prevede che nel 2018 almeno «4,4 milioni di persone avranno bisogno di aiuto»

I profughi, non solo quelli registrati nei campi ma anche chi ha preferito cercare soccorso nelle località vicine, soffrono di malnutrizione e rischiano di morire per le epidemie provocate dalla mancanza di igiene. Inoltre, durante l’attuale stagione secca, l’acqua è sempre più scarsa, sia per le persone che per il bestiame. «Vicino ai pozzi la tensione è alta, racconta una giovane rifugiata che si reca ogni giorno a prendere l’acqua per la sua famiglia, la situazione si sta aggravando anche perché ci sono sempre dei nuovi arrivati»

Prima di ripartire per il vicino Ciad, anch'esso teatro di una grave crisi umanitaria provocata dall'ondata jihadista, Mueller (assistente del segretario generale dell’Onu per gli affari umanitari) ha promesso lo stanziamento di altri 10 milioni di dollari al Camerun. Una somma che però appare «simbolica» rispetto alla realtà in cui si trova la regione settentrionale del Paese.

Nella città di Maroua, capoluogo dell’Estremo Nord del Camerun, la gente vive una vita apparentemente regolare ma filtrata dalla paura. In questa città calda e polverosa, infatti, ci furono due attentati suicidi nel luglio del 2015 a distanza di qualche giorno, causati da tre ragazzine kamikaze. Il bilancio fu di oltre 30 morti e decine di feriti.

«In quei giorni la città si era svuotata di cittadini e riempita di militari, afferma un giovane tassista locale. Ci sono voluti diversi mesi affinché i commercianti convincessero le autorità a eseguire meno controlli per evitare la morte economica della regione»

I livelli di allerta restano però molto alti. I servizi di sicurezza locali e stranieri erano infatti riusciti ad arrestare un membro di Boko Haram che viveva, apparentemente senza destare sospetti, a Maroua. Faceva parte di una cellula del gruppo nigeriano che opera in tutta l’area. «Fino a qualche anno fa Maroua era una meta turistica importante per il Camerun», ammette un operatore umanitario che preferisce mantenere l’anonimato. «Ora, invece, sappiamo che esistono cellule dormienti dappertutto. Non ci sono quasi più stranieri in città, nessuno vuole rischiare di essere ucciso in un attentato o rapito dai jihadisti. Viviamo in apparenza una routine normale, sapendo però che tutto potrebbe cambiare improvvisamente»

Ci vogliono circa quattro ore di bus da Maroua per raggiungere Yagoua, una cittadina al confine con il Ciad. In questa zona è stato arrestato alcuni anni fa un camerunese accusato di operare con i jihadisti nigeriani con l’obiettivo di rapire delle suore brasiliane che vivevano nei villaggi attorno. «Rispetto a Maroua qui a Yagoua siamo più lontani dal confine con la Nigeria, racconta nel viaggio un passeggero della Danay Express, la principale compagnia di bus camerunese. Però anche qui c’è tensione e l’esercito ha aumentato da alcuni anni il numero dei militari che controllano chi entra e chi esce». Persino tra le autorità c’è comunque poca fiducia: nel 2014, per esempio, era stato arrestato Alhadji Ibrahim, un poliziotto originario della cittadina settentrionale di Garoua e morto in prigione l’anno dopo. Tra i suoi complici c’era il figlio di un deputato del dipartimento di Mayo Sava, sempre nell’Estremo Nord.

Nonostante queste (a dir poco) precarie condizioni, le autorità camerunesi e le agenzie umanitarie stanno comunque discutendo sul modo per aiutare i profughi a tornare verso le loro case. Una sfida che, per ovvie ragioni, le vittime della violenza di Boko Haram non si sentono ancora di affrontare.
(Avvenire)



Articolo a cura di
Maris Davis

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