mercoledì 30 settembre 2015

Nigeria, si intensifica la lotta a Boko Haram, duecento miliziani si arrendono

Miliziani Boko Haram
Boko Haram in crisi, si arrendono duecento combattenti. È una notizia di quelle che fanno ben sperare

Il gruppo di insorti capeggiato da Shekau negli ultimi giorni ha vissuto una delle più grandi diserzioni della sua storia: oltre 200 combattenti si sono consegnati alle forze armate nigeriane, nelle città di Banki al confine con il Camerun.

Non è il primo caso quello che si è verificato nelle ultime ore, ma già negli ultimi giorni diverse dozzine di terroristi si erano arresi e consegnati spontaneamente alle autorità.

Un portavoce dell'esercito ha aggiunto che occorrerà determinare lo status dei ribelli e poi procedere con il programma di de-radicalizzazione e in seguito la giustizia farà il suo corso. L'entusiasmo da parte delle forze armate nigeriane per quanto sta avvenendo è massimo. Diversi esponenti dell'esercito hanno dichiarato che questo è l'inizio della fine di Boko Haram.

Ma quelle che sono le entusiastiche e avveniristiche dichiarazioni di vittoria dei militari, che fanno sperare nella fine della guerra del terrore che ha provocato già oltre ventimila morti, si infrangono però contro l'analisi pragmatica perché le stesse esternazioni di gloria erano state fatte l'anno scorso quando due gruppi composti da 100 miliziani si consegnarono alle autorità. Ciò che seguì non fu la resa di massa dei miliziani ma il periodo più difficile della guerra, dettato da un acuirsi delle recrudescenze di Boko Haram e da un incremento delle azioni militari che portarono gli insorti ad avanzare e conquistare diverse città nel nord del Paese.


lunedì 28 settembre 2015

La Nigeria respinge il "razzista" Salvini. Negato il visto

Matteo Salvini, Lega Nord
Niente viaggio in Nigeria per Salvini, gli negano il visto. Il leader del Carroccio deluso: "Peccato, volevamo portare lì sviluppo e investimenti. Era tutto pronto, avevo anche fatto la vaccinazione per la febbre gialla"

Lo aveva annunciato lo scorso agosto, alla Festa di Ponte di Legno: dal 29 settembre al primo ottobre sarebbe andato in Nigeria "per chiedere ai ministri nigeriani di che cosa hanno bisogno per evitare che i cittadini di quello stato lascino il loro Paese". Ma il viaggio di Matteo Salvini nel Paese africano non ci sarà, gli è stato negato il visto di ingresso.

Quel viaggio in Nigeria che veniva "sbandierato" dal leader del carroccio ad ogni intervento pubblico, ad ogni "comparsata" televisiva, quel viaggio che veniva "declamato" come un mantra alla fine non ci sarà. Per la Nigeria sono indesiderati coloro che, in Italia, vorrebbero respingere i nigeriani che arrivano per chiedere aiutoUn viaggio che aveva destato "ilarità" da quasi tutti i suoi oppositori politici in Italia.

Dal canto suo Matteo Salvini reagisce a modo suo: "Migliaia di nigeriani vengono qua senza documenti e noi, pur avendo fatto vaccini per la febbre gialla, italiani che vogliono portare sviluppo in Nigeria, non possiamo farlo. Mi spiace, ci riproveremo, forse a qualcuno dava fastidio? A qualcuno del governo italiano? A qualcuno del governo nigeriano?"

E non poteva mancare la battuta razzista: "Con il vaccino della febbre gialla sono rimasto a letto due giorni. Ma con la gente che gira a Milano in questo periodo, forse non l’ho fatta per niente"
(fonte la Repubblica)
Condividi la nostra campagna "Africa Libera"
- clicca qui -

Non ne possiamo più
di vedere i nostri figli e figlie trattati come zimbello dei paesi che fino a ieri hanno fatto man bassa delle nostre materie prime.
Non ne possiamo più
di vedere i nostri figli e figlie essere cibo per i pesci del "Mare Nostrum".
Non ne possiamo più
di vedere morire di fame i nostri figli perché il già ricco occidente "depreda" le nostre ricchezze, inquina i nostri terreni agricoli e le nostre acque.
Non ne possiamo più
di questa Europa che prima ci ha reso schiavi, ci sfrutta, e che continua a respingerci.
No ai "razzisti" come Matteo Salvini

Articolo di

venerdì 25 settembre 2015

Nigeria, l'esercito libera 241 donne, ragazze e bambini prigionieri di Boko Haram

Gruppo di donne e bambini liberati a Jangurori
L'esercito nigeriano ha liberato 241 donne e bambini sequestrati da Boko Haram. La liberazione è avvenuta mercoledì scorso grazie all'offensiva dell'esercito contro i miliziani che ha portato anche alla liberazione di due villaggi, Jangurori e Bulatori.

Durante le operazioni militari sono stati arrestati 43 militanti del gruppo terrorista tra cui Bulama Modu, l'"emiro" di un villaggio che offriva protezione ai jihadisti nigeriani.

Si calcola che Boko Haram in un solo anno abbia rapito oltre duemila ragazze, donne e bambine allo scopo di farne delle schiave sessuali, obbligarle a matrimoni e conversioni forzate, oppure violentate affinché possano partorire i futuri soldati d'Islam - leggi -

Dalla tarda primavera scorsa l'offensiva congiunta degli eserciti di Niger, Ciad, Camerun e Nigeria ha portato alla liberazione di oltre 700 ostaggi a cui si aggiungono quelli liberati mercoledì - leggi precedenti articoli -

Nei giorni scorsi l'esercito aveva rivelato che sono in corso trattative per ottenere la liberazione delle oltre 200 studentesse rapite a Chibok nell'aprile 2014, ragazze la cui sorte ad oggi è del tutto sconosciuta.

Oltre alla liberazione di donne e bambini e all'arresto di 43 miliziani, l'operazione militare dei giorni scorsi ha portato alla "distruzione" dei due campi dove erano detenuti gli ostaggi e al sequestro di un notevole quantitativo di armi, alcune delle quali erano state sepolte dai miliziani islamici nel tentativo di occultarle all'esercito nigeriano.
- Galleria Fotografica -

giovedì 24 settembre 2015

Nigeria. Sono salite a 117 le vittime causate dagli attacchi di Boko Haram nella città di Maiduguri

Maiduguri, Borno State
Salite a 117 le vittime degli attentati di Boko Haram a Maiduguri durante lo scorso weekend.

Il bilancio delle vittime degli attentati di Boko Haram a Maiduguri, nella regione nord-orientale della Nigeria, è salito ad almeno 117 morti, più del doppio del conteggio ufficiale di ieri. Lo riferiscono fonti mediche. Un totale di 72 morti sono stati registrati presso l'ospedale dell'Università di Maiduguri mentre altri 45 morti sono stati portati all'obitorio dell'ospedale dello Stato del Borno.

Domenica quattro esplosioni in rapida successione hanno colpito due quartieri adiacenti, quelli di Ajilari Cross e di Gomari, dove sono stati presi di mira rispettivamente una moschea e un circolo gremito di avventori che stavano assistendo a una partita di calcio trasmessa in TV.

Ancora due ragazzine usate come bombe umane. Nel primo caso, l'attentato alla moschea, sembra che a entrare in azione siano state proprio due ragazze kamikaze, nel secondo attentato invece i miliziani appartenenti alla setta jihadista avrebbero scagliato ordigni rudimentali tra gli spettatori che stavano assistendo ad una partita di calcio trasmessa in televisione.

La strage sarebbe potuta essere ancora più sanguinosa se la moschea non fosse stata semi-vuota, e ha fatto seguito al monito lanciato sabato dal leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, il quale aveva liquidato come "menzogne" i proclami delle forze armate nigeriane secondo cui il gruppo jihadista alleato dell'ISIS sarebbe allo sbando.

L'esercito nigeriano aveva risposto al video reso pubblico da Boko Haram qualche giorno prima degli attacchi a Maiduguri. Nel video Shekau smentiva le dichiarazioni secondo le quali la setta islamista sarebbe in crisi e incitava i membri a intensificare gli attacchi. Nel comunicato di risposta dell'esercito si legge tuttavia che "le vittorie riportate dalle truppe nigeriane sul campo di battaglia sono incontestabili, come dimostrato dalla liberazione di molti villaggi nel nord-est del Paese. Il progressivo indebolimento del gruppo terroristico è sotto gli occhi di tutti".

L'esercito invita i cittadini a non farsi intimidire dalla propaganda terroristica, chiedendo invece di segnalare alle autorità qualsiasi attività sospetta. "Solo in questo modo potremo risanare la dignità del nostro amato Paese, liberandolo dalle grinfie del terrorismo"
(AGI)

martedì 22 settembre 2015

Nigeria. 1,4 milioni di bambini sfollati a causa delle violenze di Boko Haram

Famiglie nigeriane in fuga da Boko Haram
Solo negli ultimi 5 mesi oltre 500mila i piccoli costretti a fuggire da Boko Haram. In tutto sono oltre 1,4 milioni i bambini costretti a fuggire dal nord-est della Nigeria a causa degli attacchi del gruppo armato di Boko Haram.

E negli ultimi 5 mesi sono stati oltre 500mila i piccoli che hanno dovuto lasciare le proprie case per fuggire. Sono questi alcuni dati allarmanti diffusi dall'Unicef. Sono 1,2 milioni i bambini oltre la metà dei quali sotto i 5 anni che sono scappati dal nord della Nigeria, mentre altri 265.000 bambini hanno cercato asilo in Camerun, Ciad e Niger.

"Ognuno di questi bambini che fugge per salvare la propria vita è un’infanzia spezzata" ha spiegato Manuel Fontaine, Direttore Regionale dell’Unicef per l’Africa Centrale e Occidentale "È veramente preoccupante vedere che i bambini e le donne continuano ad essere uccisi, rapiti e usati per trasportare bombe"

Ampliate le operazioni salvavita dell'Unicef. Fin dall'inizio dell’anno, vista la situazione di forte emergenza, l'Unicef in collaborazione con i governi e i partner nei quattro paesi colpiti, ha ampliato le operazioni salvavita per aiutare sia i piccoli che le loro famiglie.

Infatti sono stati oltre 315.000 i bambini vaccinati contro il morbillo; più di 200.000 le persone che hanno ricevuto accesso ad acqua pulita; 65.000 i bambini sfollati e rifugiati che hanno potuto continuare ad studiare grazie alla distribuzione di materiali scolastici; 72.000 i bambini sfollati che hanno ricevuto supporto psicologico; 65.000 i piccoli sotto i 5 anni che sono stati curati per malnutrizione acuta grave.

L'offensiva militare congiunta di Nigeria, Ciad, Niger e Camerun contro Boko Haram ha permesso di riprendere la maggior parte del territorio che era sotto il controllo degli estremisti, ma, anche se frammentato e diviso, il movimento continua ad attaccare i villaggi per assicurarsi la sua sussistenza compiendo saccheggi e sta moltiplicando gli attacchi contro luoghi di culto, mercati e fermate degli autobus.

Gli atti di guerriglia, il cui numero ha raggiunto il suo picco tra maggio e luglio, sono tuttavia meno frequenti da agosto a causa della stagione delle piogge.

Ognuno di questi bambini che fugge per salvare la propria vita è un'infanzia spezzata. "Con un incremento del numero di rifugiati e con risorse non sufficienti, la possibilità di distribuire aiuti sul campo è seriamente compromessa. Senza ulteriori aiuti, centinaia di migliaia di bambini che hanno bisogno non avranno accesso a cure mediche di base, acqua pulita e istruzione"

L'enorme afflusso di rifugiati e la mancanza di risorse compromettono seriamente la capacità di fornire un aiuto vitale sul terreno. In Nigeria Boko Haram ha causato più di 2,1 milioni di sfollati in soli 6 anni.
(UNICEF)
Sostieni la Campagna Unicef
"Non è un viaggio, è una fuga. Bambini in pericolo"



venerdì 18 settembre 2015

Per non dimenticare Sabra e Chatila. La Storia

La Storia. Il 6 Giugno 1982 Israele invade per la seconda volta, il Libano, cacciando i Siriani dalla Valle della Bekaa, in risposta all'uccisione dell'Ambasciatore israeliano a Londra. L’invasione del 1982 è quella più architettata e strutturata contro l'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). In un paese devastato dalla guerra civile del 1975 e privo di autorità statale, dove anzi è proprio l'OLP la forza più organizzata.

L’invasione fu accompagnata da devastanti bombardamenti nelle città di Tiro, Sidone, Damour. Era iniziata l’operazione "Pace in Galilea" decisa dal Primo Ministro Israeliano Begin ed il Ministro della difesa Ariel Sharon.

L'intenzione iniziale era quella di penetrare 45 Km. dentro il territorio libanese per difendere la sicurezza israeliana (fascia di sicurezza), distruggendo le basi dell'OLP nel Sud del Libano, da dove però l’organizzazione di Arafat non aveva lanciato nessun attacco da oltre un anno.

Un esercito di 60.000 soldati, affiancato da mezzi corazzati e supportato dalla marina e dall'aviazione israeliana, si lancia alla conquista del Libano. Il 7 giugno, aerei israeliani e mezzi blindati bombardano il campo profughi di Burj El Chemali e colpiscono il centro di Al-Houleh Club, dove avevano cercato riparo donne, bambini e vecchi. 97 sono le vittime delle bombe al fosforo. Solo tre persone si salvano (massacro all’Al-Houleh Club di Burj El Chemali).

La rocca del Castello di Beaufort, Qalat Shafiq, a sud del fiume Litani, che i palestinesi dell’OLP avevano conquistato nel 1976, viene occupata dall'esercito israeliano che vi manterrà un presidio fino alla sua ritirata definitiva dal Libano del 2000.

Il numero complessivo delle vittime civili dovute all’invasione israeliana è enorme, circa 20.000 morti, 32.000 feriti gravi, 2.206 invalidi e 500.000 senza tetto.

Le Nazioni Unite tentarono vari richiami, tutti rimasti inascoltati ed il 13 giugno cominciò l’assedio di Beirut che durò 88 giorni, durante i quali la capitale fu bombardata quasi di continuo con bombe a grappolo, granate al fosforo ed altri tipi di bombe.

Raggiunta Beirut, Sharon si reca al Palazzo Presidenziale Libanese sulla collina di Baabda, da dove può osservare la città assediata da tutti i lati dalle milizie dei falangisti e dalle truppe israeliane. Al termine dei bombardamenti rimasero macerie ovunque ed il numero delle vittime fu spaventoso.

Il 29 luglio, l'OLP accetta il piano del Comitato ristretto della Lega Araba che prevede l’evacuazione dei combattenti palestinesi da Beirut ed i loro trasferimenti a Tunisi. Il 19 agosto, viene accettata dai rappresentanti di USA, Francia, Italia e Israele la proposta libanese sull'intervento di una "Forza Multinazionale".

Il mandato ha la durata di un mese, dal 21 agosto al 21 settembre 1982. Prevede la presenza di 800 soldati americani, 800 francesi e 400 italiani. Lo scopo del piano è quello di garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’OLP da Beirut. Il cessate il fuoco fu raggiunto il 21 agosto attraverso un mediatore Usa.

Il 23 agosto il Parlamento libanese, riunito nel settore est controllato dai falangisti e circondato dai tank israeliani, elegge il leader dei falangisti Bashir Gemayel a Presidente della Repubblica. Israele ha così realizzato il suo obiettivo, ha al potere l’uomo che per anni ha armato e sostenuto e che vuole portare a termine non solo il disarmo di tutti i palestinesi, ma anche la cancellazione della loro presenza nel Paese dei Cedri.

Il 30 agosto l'OLP lascia Beirut. Tra la fine di agosto ed i primi di settembre 15.000 combattenti palestinesi e tutta la dirigenza politica dell’OLP sono costretti ad abbandonare i campi, sotto la protezione dell’ONU. I fedayn parlavano alla radio spiegando come doveva venire l’esodo, lasciando così un esilio per un altro esilio.

Arafat, comunque era ossessionato dalla sorte dei palestinesi che ancora erano in Libano, nonostante la presenza dei soldati americani, francesi ed italiani che dovevano essere una garanzia, una protezione. Nel settore ovest di Beirut ci sono ancora le milizie armate "Morabitun" dei nasseriani, quelle degli sciiti del movimento di Amal, dei comunisti e dei drusi del partito social-progressista di Walid Jumblatt, che sono in possesso anche di armi pesanti.

Bashir Gemayel per imporre la sua autorità anche su Beirut ovest deve appoggiarsi all’azione repressiva delle truppe israeliane.

La forza multinazionale era ormai solo d’intralcio ed infatti fu fatta ripartire quasi subito dopo, nonostante la richiesta di alti esponenti di governo di continuare a presidiare Beirut. Il 9 settembre partono i marines, l’11 i bersaglieri italiani ed il 13 salpano i francesi, lasciando così campo libero all'esercito israeliano ed ai falangisti libanesi.

Il 12 settembre le truppe libanesi cominciano ad ammassare, a Shweifat, camion per il trasporto dei soldati e bulldozer per demolire i campi sottostanti di Sabra e Chatila.

Il 14 settembre una carica di tritolo, posta fuori dal quartiere generale della Falange, uccide Gemayel e 21 dei suoi sostenitori. Le responsabilità dell’attentato non sono mai state accertate, ma molti sospettano che gli israeliani, dal momento che il presidente non si era dimostrato troppo disponibile, non siano del tutto estranei. Habib Shartuni del Partito social-nazionalista siriano, è l’uomo che fece esplodere la bomba. Il suo gesto è stato giustificato dalla vendetta per la morte del padre, assassinato dalle squadre di Gemayel.

Il giorno dopo l’attentato, il 15 settembre, le forze israeliane entrarono a Beirut Ovest, in piena violazione del negoziato promosso dagli Usa. Il comandante israeliano Eytan concorda con il nuovo capo delle Forze Libanesi l’operazione "Pulizia etnica" a Sabra e Chatila.

Prima dell’azione delle forze libanesi, i soldati israeliani appartenenti al corpo speciale "Sayyeret Maktal", setacciano i campi ed i quartieri di Beirut alla ricerca di 120 professionisti palestinesi, medici, avvocati, insegnanti, infermieri, che non sono partiti, credendosi al sicuro, in quanto non hanno partecipato ai combattimenti.

I militari israeliani sfondano le porte delle abitazioni, interrogano gli abitanti terrorizzati e, quando identificano la persona ricercata, questa viene fatta uscire ed abbattuta all'istante. In questo modo vengono assassinate 63 persone.

"Dal mio appartamento all'ottavo piano, con un binocolo, li ho visti arrivare in fila indiana, un’unica fila. Li precedeva la loro ferocia" (dal libro "Quattro ore a Shatila" di Jean Genet). L’avanzata dell’esercito israeliano fu lenta, metodica, spietata, condotta a colpi di cannone.

L’esercito non entrò subito nei campi, ma circondò gli ingressi di Sabra, dei campi di Shatila e Burj el Barajne ed il quartiere dell’ex sede dell’OLP, con uomini e carri armati. Alle 5 di sera di giovedì 16 settembre, i miliziani libanesi penetrano nei campi ed iniziano la mattanza.

Dopo la prima "eliminazione mirata" effettuata dal corpo speciale israeliano, sui camion militari dell’esercito israeliano vengono trasportati i miliziani della seconda ondata di assassini, composta dai libanesi dell’Esercito del Sud del Libano.

Solo dopo il ritorno di questa squadra, nei vicoli e tra le case di Sabra e Chatila, per completare il massacro, scendono in campo gli assassini di Elias Hobeika, responsabile dei servizi speciali libanesi. Saranno essi a compiere le maggiori atrocità.

Il massacro è quindi il risultato dell’alleanza tra Israele ed i Falangisti libanesi. Alleanza dimostrata dal fatto che, nella notte tra giovedì e venerdì, la BBC diede la notizia che la TV israeliana aveva diffuso la voce che truppe falangiste avrebbero compiuto "epurazioni" nei campi palestinesi.

Il quotidiano di Tel Aviv "Haaretz" scriveva che il ministro della Difesa Sharon aveva informato il Governo della sua decisione di autorizzare l’ingresso delle Falangi libanesi nei due campi. L'esercito israeliano fornì ai suoi alleati tutto il supporto necessario, dai bulldozer, alle mappe, ai fari degli elicotteri che illuminavano a giorno i campi.

La caccia cominciò quindi nella notte tra il 16 ed il 17 settembre. Palestinesi, siriani, libanesi subirono lo stesso destino. Cumuli di carte d’identità libanesi accanto alle vittime fanno capire l’inutile tentativo di riuscire a sfuggire alla morte. I soldati all'interno dei campi iniziarono subito le esecuzioni di massa ed ebbero 36 ore di tempo per trucidare bambini, donne ed anziani.

All'inizio il massacro compiuto dai miliziani libanesi avviene nel silenzio, usando coltelli, accette, pugnali. Sventrando, sgozzando, decapitando, violentando i corpi vivi delle vittime.

Paralizzata dalla paura la gente dei campi resta chiusa in casa, nascondendosi. Dopo i primi spari, il massacro prosegue ancora più feroce. Nelle vie del campo, distrutto dagli esplosivi, si accumulano i corpi dei bambini sgozzati o impalati, aggrovigliati ai ventri delle madri. Teste e gambe e braccia tagliate con l’accetta, cadaveri fatti a pezzi. Corpi di donne impudicamente discinte per le ripetute violenze e poi decapitate.

Uomini abbattuti e poi castrati. File di uomini fucilati. Cumuli di cadaveri ammassati in discariche o in fosse comuni. Camion carichi di cadaveri e camion di uomini in procinto di divenire cadaveri. Il rastrellamento avviene casa per casa perché nessuno possa sfuggire. Il tutto sotto l’occhio vigile dei soldati e ufficiali israeliani che dall'alto della terrazza dell’ambasciata del Kuwait seguono, con i binocoli, le violenze disumane che non ebrei stanno compiendo su altri non ebrei. Dal Gaza Hospital vengono fatti evacuare i medici ed il personale straniero.

Venerdì 17 settembre la notizia del massacro comincia a circolare e sconvolge il mondo intero. Giunge la condanna internazionale. Le Forze Libanesi ora hanno fretta, devono finire il lavoro commissionato dai vertici israeliani, per cui sparano su tutto ciò che si muove. Altri reparti rastrellano i quartieri di Sabra e di Fakhani, ammassando centinaia di prigionieri. Molti di questi ostaggi sono spariti nel nulla, solo più tardi vengono trovati nelle fosse comuni.

All'alba di sabato 18 settembre i miliziani falangisti si ritirano, lasciando dietro di sé un numero imprecisato di morti. Quando i giornalisti stranieri e la Croce Rossa entrarono nei campi il giorno dopo, provarono solo orrore. Sembrava di vivere in un incubo, donne che urlavano sui corpi dei loro cari, che vagavano tra i vicoli, bambini che piangevano in mezzo ai corpi mutilati, corpi che cominciavano a gonfiarsi sotto il sole. Molti di loro piansero, altri, semplicemente vomitarono.

Il numero totale delle vittime assassinate e di quelle scomparse nel nulla è di circa tremila. Secondo i testimoni il massacro è stato compiuto da 1.500 uomini che parlavano il dialetto di Beirut ed indossavano le uniformi delle Forze Libanesi.

Il 19 settembre parlando alla radio per il capodanno ebraico, Ariel Sharon dichiarò che i suoi uomini sarebbero restati a lungo a Beirut, almeno fino a quando l’esercito libanese sarebbe stato in grado di prendere il controllo, prima però, dovevano bonificare le aree in cui si trovavano i palestinesi.

Le testate giornalistiche internazionali trattarono l’argomento solo per pochi giorni. In breve tempo, i mezzi di comunicazione si impegnarono per riciclare l’immagine disonorata d’Israele, trasformandola in quella "pietosa" della vittima ingiustamente infangata.


Immagini dal Web

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 25 settembre condanna i massacri israeliani definendoli un atto di "genocidio", ma gli USA votano contro salvando così Israele dalle sue responsabilità di fronte al mondo. Il parlamento israeliano il 22 settembre decise di non formare una commissione ufficiale d’inchiesta, tuttavia, sotto la pressione dell'opinione pubblica, costrinse alle dimissioni il ministro della difesa Ariel Sharon, additato da tutti i media internazionali come principale responsabile del massacro.

Il contingente multinazionale di pace il 26 settembre tornò a Beirut, nuovamente sollecitato ad intervenire per svolgere la funzione di interposizione. Ancora oggi nessuno ha mai pagato per questo crimine.

Sandro Pertini in visita a Beirut, 1983
Il 31 dicembre 1983, il Presidente Pertini dopo essere stato sui luoghi del massacro, rilasciò questa dichiarazione, "Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. È una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell'orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. È un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società".

Se è doveroso ricordare le vittime ebree dei nazisti, è altrettanto doveroso ricordare anche i massacri compiuti dagli Israeliani negli ultimi decenni nei confronti dei Palestinesi


Condividi su Facebook


giovedì 17 settembre 2015

Nigeria, il presidente Buhari promette amnistia per Boko Haram in cambio della liberazione delle studentesse di Chibok

Le studentesse che furono rapite a Chibok nell'aprile 2014
avevano tutte un'età compresa tra i 12 e i 17 anni
Il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, si è detto pronto a concedere l'amnistia ai miliziani di Boko Haram detenuti se verranno liberate le oltre 200 studentesse rapite l'anno scorso in aprile a Chibok nel nord-est del paese.

Buhari ha affermato "Se i dirigenti regionali dei Boko Haram s’impegneranno a restituirci le ragazze di Chibok, intendo tutte le ragazze rapite, potremmo decidere di accordare un'amnistia ai loro prigionieri detenuti nelle nostre carceri"

Condizione necessaria per il presidente nigeriano è conoscere il numero delle studentesse rapite e la loro condizione, anche perché si è subito detto che molte di loro sono state coattivamente sposate dai jihadisti, dai quali hanno avuto anche figli.

Muhammadu Buhari
Neo-Presidente della Nigeria
"Di prigionieri ne abbiamo pochi", ha aggiunto, "stiamo cercando di vedere se possiamo negoziare con loro per il rilascio delle studentesse". Il 14 aprile del 2014, i terroristi islamici assaltarono una scuola nella remota cittadina di Chibok, portando via 276 ragazze. 57 di loro erano riuscite a fuggire nell'immediatezza e a nascondersi nella foresta.

Da allora, in poco più di un anno, Boko Haram ha rapito più di duemila ragazze, bambine e bambini. Dal mese di maggio e nel corso di questa estate la controffensiva dell'esercito ha portato alla liberazione di circa 700 donne, ragazze e bambini che erano nelle mani dei miliziani islamici. Donne e ragazze che Boko Haram rende schiave sessuali costringendole a convertirsi all'Islam, costringendole a sposarsi e a partorire figli.

Oggi Boko Haram è combattuto, oltre che dall'esercito nigeriano, anche da una coalizione sovranazionale che comprende militari del Benin, Ciad, Niger e Camerun. Nei mesi scorsi i jihadisti hanno sconfinato ed hanno compiuto mattanze anche nei villaggi oltre confine, soprattutto in Camerun, Niger e Ciad.

A nostro avviso la dichiarazione del presidente Buhari NON potrà avere un seguito, né potrà essere mai attuata.
Donne e ragazze nigeriane liberate dall'esercito, maggio 2015

Leggi anche
"Violentate perché possano partorire i futuri soldati di Boko Haram"

Altri Articoli su ragazze prigioniere di Boko Haram in questo Blog



Golpe militare in Burkina Faso, arrestati presidente e premier. Scontri e morti a Ouagadougou

Scontri a fuoco nella capitale Ouagadougou. È passato meno di un anno dal colpo di stato che costrinse alla fuga il dittatore Blaise Campaorè e il piccolo paese africano sembra precipitare di nuovo nel caos.

Scontri a fuoco sono in corso a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, dopo l’arresto del presidente Michel Kafando e del primo ministro Isaac Zida da parte di militari che hanno fatto irruzione nel palazzo presidenziale mentre era in corso un consiglio dei ministri.

Nella capitale Ouagadougou le sparatorie sono scoppiate nella serata di ieri quando i soldati delle unità d’élite hanno cercato di disperdere la popolazione che si era radunata per protestare contro il i militari. Fonti giornalistiche francesi hanno confermato che i militari hanno sparato sulla folla che era scesa in piazza e marciava verso il palazzo presidenziale. Ci sarebbero molte vittime.

A meno di un anno dal colpo di stato che ha costretto alla fuga l’allora capo di stato Blaise Campaorè e a poche settimane dalle elezioni che, sperava gran parte della popolazione, avrebbero dovuto ridare il potere ai civili e pacificare il Paese, è arrivato oggi un nuovo sconvolgimento.

Soldati in assetto da combattimento hanno circondato il palazzo e hanno preso posizione in alcune zone strategiche della città.

Le elezioni erano sono state fissate per l'11 ottobre ma a questo punto è probabile che vengano rinviate. Il presidente ad interim Michel Kafando e il primo ministro Isaac Zida, un colonnello che nell'ottobre 2014 fu tra i leader della rivolta che costrinse l’allora capo di stato Blaise Compaorè alle dimissioni e all'esilio, sono stati bloccati nei loro uffici nella capitale.

Le elezioni, nelle intenzioni soprattutto della comunità internazionale, avrebbero dovuto portare la democrazia nel Burkina Faso, Paese poverissimo, devastato dai 27 anni di dittatura, da vari tentativi di colpo di stato e, da un paio d’anni, anche dalle incursioni jihadiste dei Boko Haram nigeriani.

Ma negli ultimi giorni si erano registrate forti tensioni dopo che esponenti dell’ex partito presidenziale di Compaorè erano stati dichiarati ineleggibili. Quello di oggi potrebbe dunque essere una sorta di contro-golpe dei sostenitori del capo di stato estromesso un anno fa e da allora ospite di riguardo in Costa D’Avorio.

Secondo altri osservatori invece, lo scontro sarebbe tra i leader rimasti al potere nel dopo-golpe del 2014 e l'elite militare del Reggimento della Sicurezza Presidenziale che da giorni pretende le dimissioni del premier Zida. Quest’ultimo, tra l’altro, è anche il numero due dell’unità formata da 1.300 uomini super-addestrati.

Dal canto suo il presidente ad interim Kafando, 73 anni, è un alto diplomatico che ha rappresentato il Burkina Faso all'Onu per 15 anni. Nel Paese africano hanno base truppe speciali francesi e statunitensi, impegnate a contrastare l’avanzata dei fondamentalisti islamici dell'Isis nell'Africa Occidentale. Né la Francia, né gli Usa sono mai stati estranei alle vicende, spesso sanguinose, di questo piccolo e geograficamente strategico "pezzo d’Africa".

Ad oggi la situazione politica è davvero difficile in uno dei paesi più poveri del mondo.
(La Stampa)

Manifestazioni a Ouagadougou
La situazione resta tesa e confusa ed è in continua evoluzione. I recenti sviluppi precedono di poche settimane le elezioni presidenziali e legislative in programma l’11 ottobre, che avrebbero completato la transizione per il ritorno alla democrazia.

I fatti di Ouagadougou hanno provocato immediatamente una presa di posizione della comunità internazionale. Il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon si è detto scosso dalla notizia della detenzione del presidente Michel Kafando e del primo ministro Yacouba Isaac Zida e ha chiesto il loro immediato rilascio. La nota del segretario generale Onu rileva che "questo incidente è una flagrante violazione della Costituzione del Burkina Faso e della Carta di transizione".

Anche gli Stati Uniti hanno espresso la loro contrarietà: "Gli Stati Uniti condannano duramente qualunque tentativo di conquistare il potere attraverso mezzi extra-costituzionali", ha detto il portavoce del dipartimento di Stato, John Kirby.

Un militare della Rsp si è presentato alla televisione nazionale parlando a nome del Consiglio nazionale per la democrazia annunciando le dimissioni del presidente Kafando e dissoluzione del governo e del Parlamento di transizione. Inoltre, il generale Gilbert Diendéré è stato nominato presidente del Consiglio nazionale per la democrazia.

L’alto ufficiale negli scorsi anni era considerato uno strettissimo collaboratore di Blaise Compaoré. Nell'annuncio viene anche detto che è stato instaurato un coprifuoco dalle 19 alle 6 del mattino e le frontiere sono state chiuse.

Il colpo di stato odierno sembra sempre di più un modo per far rientrare dall'esilio e rimettere al potere l'ex-dittatore presidente Blaise Campaorè

venerdì 11 settembre 2015

Nigeria, Boko Haram fa strage in un campo profughi

Per la prima volta una bomba è esplosa in un campo profughi per sfollati interni in Nigeria. L'azione del gruppo terrorista Boko Haram, è stata portata a termine alla periferia di Yola nello Stato di Adamawa.

Le vittime sarebbero almeno 70, mentre duecento sarebbero i feriti. Il campo è stato evacuato.

Le violenze di Boko Haram hanno ucciso migliaia di innocenti e spinto oltre 2 milioni di persone a lasciare le proprie case e a fuggire, e ora colpisce anche i campi allestiti per i profughi che fuggono proprio dalle loro violenze.

La Nigeria contro Boko Haram .. Providence tiene per mano la mamma, mentre il militare le passa il metal detector attorno al vestitino a fiori. "Misure di sicurezza" spiega l’uomo, visibilmente imbarazzato, all'ingresso di un affollato centro commerciale di Abuja, capitale amministrativa della Nigeria.

"Nel Nord-Est del Paese usano bambine di questa età per compiere attentati le imbottiscono di esplosivo e le fanno saltare in aria. La guerra è sempre più cruenta. E quelli di Boko Haram stanno reagendo all’offensiva lanciata dal nuovo presidente Muhammadu Buhari"

La sfida che vale un continente. Per le strade di Abuja non si parla d’altro. Da un lato c’è il neo capo di Stato musulmano. Dall'altra i jihadisti dell’Occidente proibito che, negli ultimi sei anni, hanno insegnato ai nigeriani a convivere con il terrore. "Il pericolo è ovunque in Chiesa, in autobus, al mercato. Buhari promette che entro la fine del 2015 Boko Haram verrà sconfitto. Ma intanto in Nigeria si continua a morire"

Dall'insediamento del nuovo capo di Stato, lo scorso 29 maggio, gli uomini di Abubakar Shekau hanno ucciso quasi un migliaio di civili. E si stima che almeno 800mila siano gli sfollati in fuga. È guerra aperta. L’esercito di Buhari intensifica la repressione. Boko Haram risponde colpo su colpo, con rappresaglie sui civili. Specie se cristiani.

A fine luglio, in un villaggio al confine con il Ciad, una ventina di pescatori vengono decapitati. "Li hanno crivellati di colpi e poi mutilati perché seguivano Isa (Gesù, alla lettera del Corano, ndr), il profeta che ha corrotto il mondo". Poche ore dopo, le forze armate di N’Djamena annunciano di aver ucciso 117 miliziani in fuga dalla Nigeria. Una sacca di resistenza che si estende tutta attorno al lago Ciad, laddove si incontrano i confini di Nigeria, Niger, Camerun e dello Stato che prende il nome dal bacino.

Ad agosto, l’esercito nigeriano libera 270 ostaggi, in maggioranza donne e bambini, che i jihadisti avevano sequestrato nelle zone di Aulari, Dikwa e Konduga, nello Stato Nord-orientale di Borno. Alla metà del mese, Boko Haram torna ad uccidere a Kukuwa Gari, nel limitrofo Stato di Yobe. Altri 150 morti. Gli ultimi attacchi portano la data di inizio settembre, nei villaggi di Kolori e Ba’ana Imam, sempre nello Stato di Borno. Qui i sopravvissuti raccontano di assaltatori giunti a cavallo. Una stranezza che potrebbe rivelare un’inedita alleanza con i miliziani janjawid, i "diavoli a cavallo" sudanesi e ciadiani, appartenenti alle tribù nomadi Baggara.

Il tutto mentre a Sirte, in Libia, l’Isis annuncia l’arrivo di 200 combattenti di Boko Haram. Il disinvolto interscambio di contingenti dell’internazionale jihadista.

"L’esercito nigeriano è allo sbando" testimonia Joe Ekong, giovane studente cristiano fuggito mesi fa da Maiduguri, una delle città del Nord-Est più funestate dagli attacchi jihadisti. Oggi vive ad Abuja, dove si guadagna da vivere lustrando scarpe.

"Dall'inizio di quest’anno oltre 4mila soldati hanno disertato. Non hanno le armi, né i mezzi necessari per respingere gli islamisti, che sono sempre meglio equipaggiati dell’esercito regolare"

Buhari sta tentando di fare qualcosa, coinvolgendo anche i Paesi confinanti. Non a caso i suoi primi viaggi diplomatici hanno come mete il Camerun e il Benin. Con il presidente camerunense Paul Biya, Buhari stringe un accordo per rafforzare i controlli lungo le frontiere che separano i due Paesi. A Cotonou ottiene 800 soldati in più da inserire nella rinnovata Mnjtf, la task force internazionale congiunta anti Boko Haram.

Dall’inizio di agosto il quartier generale passa a N’Djamena, in Ciad e il comando delle operazioni viene affidato all’esperto generale Iliya Abbah, che ora conta su quasi 9mila uomini, tra militari, poliziotti e civili, messi a disposizione da Nigeria, Camerun, Ciad, Niger, Togo e Benin.

"Il fenomeno Boko Haram è stato troppo sottovalutato finora, i vecchi governi non lo hanno combattuto adeguatamente. È stato permesso ai jihadisti di seminare il terrore anche in Ciad, in Niger, nel Benin e nel sud del Camerun, dove hanno preso le città di Maroua e Fotokol"

Le bambine kamikaze di Boko Haram
Buhari vincerà se riuscirà ad eliminare questa paura. Settantadue anni, originario di Katsina, al confine con il Ciad, Buhari impersona l’identikit del generale di ferro.

Ministro degli affari petroliferi, sotto la dittatura di Olusegun Obasanjo negli anni Settanta, il Paese lo ha guidato a sua volta, come dittatore militare, tra il 1984 e il 1985, dopo il golpe del 1983 contro Shehu Shagari. Mise in carcere oppositori e giornalisti, persino cantanti, come il celebre Fela Kuti, che all'epoca lavorava come giornalista per il Nigerian Tribune. Chi ha qualche capello bianco in testa, se lo ricorda per aver introdotto a suon di scudisciate la cultura delle file ordinate alle fermate degli autobus e per le umiliazioni imposte a chi si recava tardi sul posto di lavoro.

I nigeriani lo hanno votato in massa, alla fine di marzo, preferendolo all’ex presidente cristiano in carica Goodluck Jonathan, che si era imposto su di lui nel 2011. Quindici milioni e mezzo di voti, contro i poco più di tredici milioni ottenuti da Jonathan, in un paese che di abitanti ne conta 170 milioni. Una vittoria storica.

La prima affermazione delle opposizioni sul partito di governo, il People’s Democratic Party,in carica ininterrottamente dalla fine del regime militare, nel 1999.

"Le elezioni sono state importanti, hanno per la prima volta evidenziato il potere dell’elettorato: chi non governa bene può essere mandato a casa. E non dai militari. Tuttavia Buhari è un ex militare, questa è la sua origine. Non è certo un socialista, semmai un nazionalista. Sarà interessante capire la sua politica economica per contrastare la deriva sociale in atto in Nigeria"

Un Paese ancora spaccato a metà, tra il Nord povero e musulmano e il sud trainante e cristiano. "Il 60 per cento della popolazione è disoccupato, oltre 100 milioni di persone vivono in estrema povertà. Abuja è una capitale ricca, ma il resto del Paese soffre. Criminalità diffusa, prostituzione giovanile. E poi i blackout elettrici continui e le code per il carburante"

Anche su questo Buhari promette il pugno di ferro. "Dei due milioni di barili di greggio estratti ogni giorno in Nigeria, oltre 250mila vengono rubati, si tratta del 10 per cento della produzione nazionale di petrolio. Il principale bene di esportazione, in grado di assicurare il 70 per cento delle entrate dello Stato"

Nel frattempo, la Nigerian National Petroleum Corporation, la compagnia petrolifera di Stato, ha annunciato la riapertura delle raffinerie del Paese a Kaduna, Port Hartcourt e Warri. "È la politica dei piccoli passi, oggi nessuno ricorda più il dittatore degli anni Ottanta o il Buhari che solo dieci anni fa si espresse a favore della sharia nel Nord del Paese, salvo poi convertirsi alla libertà di culto. Sta dimostrando di essere un uomo profondamente cambiato".