mercoledì 22 giugno 2016

Bambina stuprata e poi lasciata morire, non aveva nemmeno dieci anni

Nel beneventano, trovata morta completamente nuda in una piscina di un agriturismo chiuso. L'autopsia conferma che Maria, una bambina rumena che avrebbe compiuto 10 anni ad agosto, ha subito violenza sessuale.

La bambina era molto conosciuta in paese perché faceva la chierichetta, ed infatti stata vista l'ultima volta domenica all'uscita della messa.

Secondo la ricostruzione dei medici legali la piccola sarebbe stata violentata e poi buttata in piscina probabilmente ancora viva. La violenza subita da Maria potrebbe essere recente ma per stabilire con precisione il momento in cui è avvenuta sarà necessario attendere i risultati dei test eseguiti durante l'autopsia. Sul cadavere della bimba, inoltre, è stato eseguito un esame tossicologico per accertare se sia stata costretta a ingerire sostanze alcoliche o stupefacenti.

Daniel, un romeno di 21 anni, è indagato per omicidio e violenza sessuale in relazione alla morte della bambina che avrebbe compiuto 10 anni ad agosto e che è stata trovata senza vita nella notte fra domenica e lunedì. L'iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura di Benevento è un atto dovuto per permettere la nomina di un perito di fiducia per l'autopsia sul corpo della bambina. Il giovane è stato interrogato per tutta la notte dai PM della Procura di Benevento. L'uomo ha ammesso di averla accompagnata vista e accompagnata alle giostre a poca distanza dalla chiesa.

Il giovane rumeno indagato. "Sono innocente, non avrei mai potuto farle del male, per me era come se fosse una sorella", così si è espresso il giovane rumeno indagato, alla presenza del suo avvocato difensore Il giovane conosceva la bambina e al termine dell'interrogatorio è tornato nella propria abitazione a San Salvatore Telesino, che è stata sequestrata per consentire ai carabinieri del Ris di Roma di effettuare alcuni rilievi.

Daniel, secondo le indiscrezioni trapelate finora, ha detto di averla vista la sera di domenica, prima che della piccola si perdessero le tracce, ma di averla lasciata nei pressi della chiesa di Santa Maria Assunta dove la bambina, che faceva la chierichetta, aveva detto ai genitori che si sarebbe recata per la processione del patrono. Il giovane avrebbe anche detto che dopo aver lasciato la bambina sarebbe andato da conoscenti fuori San Salvatore Telesino. Oltre al giovane, gli investigatori hanno interrogato in tutto una quarantina di persone nel tentativo di ricostruire con la maggiore precisione possibile le ultime ore di vita della bambina.

I genitori della bambina sono rumeni ben integrati nella comunità. "Se mia figlia è stata stuprata e uccisa chiedo una giustizia rapida. Credo nella giustizia italiana, se volessi farmi giustizia da solo finirei in galera lasciando sola mia moglie. Tornavo a casa la sera mi riempiva di gioia e mi faceva passare ogni dolore".

Parlando poi di Daniel, il rumeno indagato, "Lo conosco da due anni e spesso ha frequentato la mia casa e spesso mangiava con noi"

La bambina viveva a San Salvatore Telesino, con i genitori (papa' operaio e mamma badante), entrambi romeni, da tempo in Italia. Era molto conosciuta in paese, anche perché faceva la chierichetta. Secondo la ricostruzione dei Carabinieri, domenica sera, intorno alle 19:30 si è recata in chiesa per la processione del Santo Patrono, Sant'Anselmo. Poi, il maltempo, ha rimandato tutto e così la bimba avrebbe detto di voler andare alle giostre. Da lì, da quelle giostrine a poca distanza, si sono perse le sue tracce.

Il procuratore di Benevento, senza mezzi termini, ha detto che in certe zone della Campania vengono commesse violenze su bambine nel chiuso delle famiglie e nella cerchia delle amicizie, come se fosse "normale" stuprare le proprie figlie. In tutta la regione si sta indagando su almeno 200 casi di abusi su minori.
(RaiNews)

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lunedì 20 giugno 2016

#WithRefugees Giornata Mondiale del Rifugiato

Il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Dal 2001 si celebra la Giornata mondiale del rifugiato, indetta dalle Nazioni Unite, per ricordare l'approvazione nel 1951 della Convenzione sui profughi da parte dell'Assemblea generale dell'Onu.

65,3 milioni sono i migranti e i rifugiati nel mondo, costretti ad abbandonare le loro case, la stragrande maggioranza sono minori e donne, uno ogni 113 abitanti del pianeta è un rifugiato.

In un mondo dove la violenza costringe centinaia di famiglie a fuggire ogni giorno, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati lancerà una petizione per inviare un messaggio chiaro ai governi che devono lavorare insieme e fare la loro parte per chi fugge da situazioni di crisi. La petizione #WithRefugees chiede ai governi di:
  • Garantire che ogni bambino rifugiato riceva un'istruzione.
  • Garantire che ogni famiglia di rifugiati abbia un posto sicuro in cui vivere.
  • Garantire che ogni rifugiato possa lavorare o imparare nuove competenze per dare un contributo positivo alla comunità.


I nuovi desaparecidos. Sono oltre 10.000 i migranti e rifugiati morti in mare dall'inizio del 2014, secondo il bilancio dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Oltre 2.800 nei soli 5 primi mesi del 2016.

Cifre agghiaccianti che fotografano solo in parte il fenomeno dai contorni ancora più drammatici se si pensa alle vittime in ombra, quelli che non ce la fanno a raggiungere le coste da dove partono i barconi in rotta verso il "sogno europeo".

Sono i nuovi desaparecidos, che muoiono prima, muoiono già nel deserto, prima di raggiungere le sponde africane del Mediterraneo o del Medio Oriente: gli eritrei che passano in Sudan e in Libia, i cittadini del Mali, del Gambia, del Niger che vanno in Marocco e vengono respinti e allora vanno in Algeria. Sono "quelli di cui nessuno si occupa destinati ad un limbo senza nome: morti che superano di gran lunga il numero delle vittime accertate"

L'appello del Papa. ​"I rifugiati sono persone come tutti, ma alle quali la guerra ha tolto tutto, casa, lavoro, parenti, amici. Le loro storie e i loro volti ci chiamano a rinnovare l'impegno per costruire la pace nella giustizia. Per questo vogliamo stare con loro: incontrarli, accoglierli, ascoltarli, per diventare insieme artigiani di pace secondo la volontà di Dio. Noi stiamo dalla parte di chi è costretto a fuggire"


Rapporto UNHCR 2015 Rifugiati
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#WithRefugees, Firma l'appello dell'UNHCR
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giovedì 16 giugno 2016

Benevento, 36enne nigeriana uccisa a colpi di pistola nei pressi della stazione

Il suo corpo senza vita è stato ritrovato nei pressi della linea ferroviaria a Benevento non distante dalla stazione centrale. Si chiamava Hester Jonshon, la donna nigeriana e abitava a Castel Volturno, ma ogni giorno si recava a Benevento per prostituirsi proprio dove è stato ritrovato il suo corpo crivellato con sei colpi di pistola. Un luogo appartato lungo la ferrovia non distante dalla stazione centrale.

Ma quanto può interessare una notizia del genere? E a chi? A nessuno.

Ogni giorno prendeva il treno da Castel Volturno a Benevento, per poi rientrare il mattino successivo, L'hanno massacrata con sei colpi di pistola, segno di efferato accanimento contro di lei. Lo sguardo di un ferroviere l'ha notata. Per un attimo, immaginare il cammino che porta dall'Africa alla morte in Italia, in mezzo ai cespugli che circondano la ferrovia. Per un attimo, poi si torna alla nostra vita complicata di ogni giorno.

A riconoscere la donna sono stati i due fratelli della donna che nel pomeriggio di ieri, dopo averla contatta senza esito e non vedendola rientrare, ne avevano denunciato la scomparsa. Il corpo è poi stato trasportato presso l’obitorio dell’Ospedale Rummo dove nei prossimi giorni verrà effettuata l'autopsia.

Il luogo del ritrovamento della donna nigeriana uccisa
Gli inquirenti non hanno dubbi, si tratta di omicidio. Resta ora da capire il movente ed identificare il killer. Diversi anche i bossoli recuperati sulla stradina adiacente al ritrovamento. Le indagini proseguono mentre chi indaga sta provando anche a rintracciare chi come Ester era solita sostare nelle vicinanze di via Grimoaldo Re. Sembrano improvvisamente sparite tutte le prostitute che frequentavano la zona.

Quello che è sicuro è che la donna conosceva il suo assassino perché si era appena appartata con lui, la pista privilegiata è quindi quella di un cliente abituale, ma non viene nemmeno trascurata la pista di un conoscente o di un connazionale. È noto che proprio in quel luogo le prostitute nigeriane pagano una specie di affitto (ai loro protettori) proprio per poter prostituirsi.

Una storia triste ed assurda che lascia tutti sgomenti ed attoniti. Una storia che attende ora risposte e la vita spezzata di una donna che merita giustizia.

Un'invisibile. Eppure anche chi è un fantasma sanguina.

In questo caso non si parla di femminicidio, e quindi non ci si indigna, perché se fai la prostituta è scontato che muori così. Infine, quando immaginiamo la nostra morte, ci vediamo circondati dai nostri cari, da chi ci ama. La foto, quasi classica, della polizia scientifica sembra essere normale. Invece sei straniera e per di più una prostituta, dopo una vita di dolore, quando muori sei circondata solo da sconosciuti in tuta bianca abituati a scrutare la morte degli altri.

Sarà sempre un estraneo ad accompagnarci alla fine.
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lunedì 13 giugno 2016

Minerali, più regole e meno conflitti. Lettera al Consiglio Europeo

"I minerali sono componenti essenziali per molti beni di consumo, dagli smartphone alle macchine e alle lampadine. In fin troppi casi, tuttavia, l’estrazione ed il commercio di queste risorse è collegato ai conflitti e alla violazione dei diritti umani". La lettera di FOCSIV alle istituzioni europee per una maggiore regolamentazione e responsabilizzazione.

La Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario (FOCSIV), insieme ad altri partner ed organizzazioni della società civile, ha inviato oggi una lettera aperta al presidente del Consiglio europeo e a tutti gli Stati Membri nell'ambito della Campagna Europea sui Minerali dei Conflitti.

La lettera mira a persuadere le istituzioni europee ad adottare una regolamentazione più stringente in materia di estrazione e commercio dei minerali, che sono spesso causa di conflitti e violazioni dei diritti umani nel continente africano.

Molti di questi "minerali insanguinati" entrano nell'UE come prodotti già finiti e, in quanto principale mercato di sbocco di questi prodotti, l'Unione Europea esercita un significativo potere commerciale nella filiera produttiva.

È tempo che i governi europei adottino provvedimenti legislativi efficaci per garantire che le imprese estraggano minerali in maniera responsabile, trasparente e sostenibile.

Da tempo numerose associazioni, in Italia e in Europa, si stanno battendo affinché l’Unione Europea si doti della legislazione sulla tracciabilità dei minerali, dall'inizio del processo di purificazione alla produzione dei manufatti, in modo che i consumatori possano acquistare telefonini e altri dispositivi elettronici sicuri di non finanziare la guerra con i loro acquisti.

A dire il vero il Parlamento europeo ha approvato, nel maggio del 2015, un progetto di regolamento chiamato a certificare l’origine legale dei minerali, come stagno, tantalio, tungsteno (i 3T) e oro. Ma, negli ultimi mesi, il Consiglio dell’UE, formato dalla Commissione europea e dai 28 stati membri, ha annacquato il provvedimento a favore di un sistema volontario e parziale, non più vincolante per i paesi europei, sottostando di fatto alle forti pressioni delle lobbies delle compagnie minerarie che, a questo punto, NON saranno più costrette a certificare l'origine reale dei minerali (estrazione), ma solo i luoghi dove sono stati lavorati e trasformati.

La battaglia legale, però, deve continuare, con l’appoggio di una opinione pubblica sensibile e informata.

Scarica la lettera inviata al Consiglio Europeo dalla Focsiv

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giovedì 9 giugno 2016

In Sudan è caccia all'eritreo. Arresti arbitrari, carcere e violenze

Da alcune settimane il governo sudanese sta dando la caccia agli habesha (parola tigrina con la quale si definiscono gli eritrei, gli abissini). Le forze dell’ordine arrestano chiunque abbia anche solo lontanamente le sembianze di un eritreo. Effettuano razzie nelle loro case, li bloccano per strada o sul posto di lavoro. La polizia straccia i permessi di soggiorno a coloro che ne sono in possesso e porta tutti quanti in galera con l’accusa di immigrazione clandestina. Si salva solamente chi ha con se cinquecento dollari per pagare "la multa" (cioè il “pizzo) e sono in pochi a potersi permettersi quella sanzione.

Il Sudan, in particolare la sua capitale Khartoum, è una tappa quasi obbligatoria per i profughi eritrei che vogliono raggiungere le coste libiche e affrontare il terribile viaggio attraverso quel famigerato tratto di mare del Mediterraneo, con la speranza di trovare la salvezza e la libertà.

Da settimane gli eritrei di Khartoum sono terrorizzati, non escono di casa, non riescono a procurasi il cibo. Quando la polizia li trova nelle loro abitazioni, li spoglia di tutto: del poco denaro, dei cellulari, dei computer. Una volta in prigione, non possono contattare nessuno, sono completamente isolati, nell'attesa della deportazione forzata.

Sono aumentate anche le sparatorie al confine tra Sudan e Eritrea. Le guardie di confine sudanesi sparano a vista verso chiunque tenti di attraversare il confine. Un mese fa oltre cento etiopi che tentavano la fuga verso il Sudan, sono stati sorpresi dagli agenti eritrei a Tessenei, città al confine con il Sudan. Tutti arrestati e incarcerati.

Centinaia di eritrei sono stati fermati a Dongola (il sito archeologico sudanese), mentre cercavano di muoversi verso la Libia. Ormai le prigioni e i centri per rifugiati in Sudan sono stracolmi di eritrei. Per gli arrestati è difficile entrare in contatto con gli operatori dell’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR) di Khartoum, mentre le autorità sudanesi si scomodano nemmeno ad informare l’ambasciata eritrea di Khartoum.

Tantissimi eritrei sono già stati deportati, anche i minorenni, vengono caricati su un camion di notte e trasportati al confine. Una volta giunti in Eritrea, non li attende un tappeto rosso, bensì la galera. Spesso nemmeno i familiari possono chiedere notizie dei loro cari. Certo, lasciare l’Eritrea senza autorizzazione è un reato, un crimine, non si perdona un disertore. In Eritrea il servizio militare è obbligatorio praticamente per tutta la vita.

Omar Al Bashir, presidente del Sudan, salito al potere con un colpo di Stato militare ventisette anni fa, è ricercato dalla Corte Penale Internazionale, per crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio. Nel suo Paese la parola d’ordine è repressione verso chiunque osi opporsi.

Lo scorso anno ha nuovamente "vinto" le elezioni. Pochi giorni prima dell’apertura dei seggi elettorali erano stati arrestati e picchiati brutalmente decine e decine di oppositori, attivisti e studenti. In un comunicato congiunto USA, Gran Bretagna e Norvegia avevano scritto: "Il risultato di queste elezioni non può essere ritenuto come credibile espressione del popolo sudanese". Poco prima del voto Federica Mogherini, commissario agli esteri dell’Unione Europea, aveva fatto sapere: "Il risultato non potrà essere credibile, perché non è legittimato dai cittadini sudanesi"

Il presidente sudanese continua a spostarsi liberamente da un vertice internazionale all'altro, malgrado penda su di lui un mandato di arresto internazionale.

Eppure Al Bashir è un interlocutore interessante per l’Unione Europea. È un Paese di transito per migliaia di migranti che cercano di raggiungere le nostre coste. Il Sudan è un a figura chiave nel "Processo di Khartoun", lanciato proprio dal nostro governo nell’estate del 2014, nel corso della sua presidenza dell’UE, per difendere le frontiere europee di fronte al crescente numero di migranti.

Attualmente il governo di Al-Bashir ha già ricevuto quarantacinque milioni di dollari dall’“Emergency Trust Fund for Africa” per gestire meglio la migrazione. Grazie allo stesso fondo saranno finanziati equipaggiamenti, comprese vetture destinate alla polizia sudanese per poter controllare meglio i confini con l’Eritrea. È prevista anche la costruzione di due centri di accoglienza chiusi a Gadaref e Kassala con l’aiuto dell’Emergency Trust Fund for Africa. L’Eritrea, invece riceverà assistenza per l’attuazione di una regolamentazione del traffico di esseri umani.

Regimi corrotti, quello del Sudan e dell'Eritrea, accusati entrambi di non rispettare i diritti umani. La stessa polizia sudanese è stata spesso rimproverata di trattenere e arrestare i profughi eritrei per estorcere del denaro. E il rapporto dell’ONU parla chiaro per quanto riguarda la ex-colonia italiana.

La Commissione europea ha anche annunciato di voler mettere a disposizione un pacchetto di centododici milioni di dollari per combattere le cause dell’immigrazione irregolare e i trasferimenti forzati in Darfur, nel Sudan occidentale, Sud Kordofan e Blue Nile, senza tenere conto che i miliari sudanesi sono spesso coinvolti nell'instabilità di queste Regioni.

Pur di frenare l’immigrazione, prodotta da governi corrotti, dove i diritti umani sono un optional o inesistenti, l’Unione Europea è disposta ad una stretta collaborazione e a finanziare dittatori che sottomettono i loro stessi popoli.
(Africa ExPress)

mercoledì 8 giugno 2016

Orribile a Mossul, bruciate vive perché si sono ribellate alla schiavitù sessuale

Bruciate vive 19 donne yazide. L’ennesimo orrore dell'Isis. "Hanno rifiutato di diventare schiave sessuali". Le ragazze giustiziate in piazza a Mossul dentro a una gabbia.

Bruciate vive dentro una gabbia di metallo per essersi rifiutate di concedersi come schiave sessuali ai combattenti dell’Isis. È la terribile sorte toccata a 19 ragazze yazide a Mossul, la capitale del Califfato in Iraq.

Puniti come "politeisti". Le giovani erano state rapite nel Mount Sinjar, una zona a maggioranza yazida a Ovest di Mosul, vicino al confine con la Siria. Nell'agosto del 2014 l’area è stata occupata dall’Isis e sottoposta a una spietata pulizia etnica. Gli yazidi, che praticano un culto originale né cristiano né islamico, sono considerati politeisti dagli oltranzisti sunniti e quindi punibili con la morte o la deportazione se non si convertono. La stessa interpretazione salafita del Corano consente di ridurre in schiavitù le donne e di venderle di preferenza ai combattenti la jihad.

Migliaia di prigioniere. Oltre 3500 yazide sono state catturate dall’Isis. Il Mount Sinjar è stato liberato lo scorso autunno da un’offensiva dei curdi, sia siriani che iracheni. Migliaia di uomini e donne erano stati liberati ma per quelli condotti a Mossul, o anche in Siria fino a Palmira, il destino era segnato.

Nella pubblica piazza. L’esecuzione delle 19 giovani è avvenuta in piazza davanti a centinaia di persone. Le ragazze, chiuse in gabbie di ferro, sono state date alle fiamme e "nessuno ha potuto fare niente per salvarle"

Come il pilota giordano. L’esecuzione ricorda quella del pilota giordano Muad Kasasbeah, catturato a Raqqa nel dicembre del 2014 e bruciato vivo nel febbraio del 2015. È avvenuta lo scorso fine settimana. Secondo l'ONU sono in totale 3.500 le donne yazide nelle mani del Califfato.

"Sun Girls"
Le "Sun Girls" yazide dichiarano guerra all’Isis, "Ci hanno violentato, noi li uccideremo". Una musicista ha dato vita a una milizia tutta al femminile: 123 ragazze tutte animate da uno spirito di vendetta implacabile.

"Ci hanno violentato, noi li uccideremo". È implacabile il senso di vendetta di Xate Shingali, musicista di etnia yazida, che ha dato vita a una milizia tutta al femminile per combattere contro i carnefici al servizio del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. L’obiettivo è quello di vendicare il sangue versato dalle sue sorelle e dai suoi fratelli per mano dell'Isis, giovani donne costrette a diventare schiave del sesso, o ragazzi decapitati dai boia del califfato.

Ecco allora che l’artista ha reclutato sino ad oggi 123 ragazze dai 17 ai 30 anni, tutte animate da uno spirito di vendetta implacabile, tutte pronte ad affrontare il rischio di essere uccise o di diventare loro stesse schiave sessuali e vittime di stupri o massacri.

Ma ognuna delle giovani reclute della milizia chiamata il battaglione delle "Sun Girls", non sembra aver paura. "Anche se mi uccidono, urlerò sono yazida". La popolazione yazida è stata quella più colpita dalle violenze dello stato islamico iniziate con l’occupazione della provincia di Sinjar, nel nord dell’Iraq, poco dopo la caduta di Mosul del giugno 2014.

Da qui la sete di vendetta che ha spinto la 30enne artista, Xate Shingali, a scendere in campo con altre donne. Le "Sun Girls" vengono addestrate dai guerriglieri curdi che insegnano loro in particolare ad utilizzare i fucili Ak-47. Le ragazze dicono di aver ricevuto la benedizione dalle rispettive famiglie e questo fa capire il profondo dolore e la voglia di riscatto di questa popolazione. "Abbiamo ancora bisogno di addestrarci. Ma siamo pronte a combattere l’Isis in qualsiasi momento".
(La Stampa)





martedì 7 giugno 2016

Gli attacchi di Boko Haram costringono i nigeriani alla fuga verso i paesi vicini

Gravissima la situazione lungo la Route National 1, in Niger, una strada che corre parallela al confine con il la Nigeria nella regione del lago Ciad.

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Il report dell'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite parla di un peggioramento drammatico della sicurezza e di una situazione umanitaria vicina al collasso. In tutto, 2,7 milioni di persone sono sfollate nell'area del Bacino del Lago Ciad a causa della violenza del gruppo di Boko Haram. 2,1 milioni di persone sono sfollate interne in Nigeria. Circa 241mila sono i rifugiati in Niger, quasi 270mila quelli che sono profughi in Camerun.

L’UNHCR, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, sta cercando di migliorare le condizioni di insicurezza e il continuo peggioramento delle condizioni umanitarie nella regione di Diffa, nel sud-est del Niger. Secondo le stime del governo, fino a metà maggio, la zona ospitava oltre 241.000 rifugiati nigerini, sfollati del Niger, e cittadini del Niger che erano rientrati nel paese dopo aver vissuto in Nigeria. La situazione di sicurezza nelle zone di Diffa e Bosso, nell'est del Paese, è deteriorata negli ultimi mesi, a causa di numerosi atti criminali inclusi attacchi suicidi vicino ai villaggi e agli insediamenti spontanei dove sono accolti rifugiati nigeriani e sfollati del Niger.

Fughe in massa e insediamenti di fortuna. Circa 157.000 persone, in fuga dal terrore di Boko Haram, hanno trovato rifugio nei 135 insediamenti di fortuna lungo i 200 chilometri della Route National 1, una delle strade principali, parallela al confine con la Nigeria e al fiume Komadougou. Da aprile, sono stati chiusi due grandi mercati lungo questa strada, nel timore di possibili attacchi da parte di ribelli infiltrati. Questo si ripercuote sulle condizioni di vita e sull'economia locale. È stato imposto un coprifuoco che va dalle 19 alle 5 di mattina, in una regione già dichiarata in stato di emergenza dal febbraio del 2015.

Scappano con temperature di 48°. La maggior parte degli sfollati lungo la Route National 1 sono fuggiti lo scorso anno dopo gli attacchi di Boko Haram nel nord-est della Nigeria. La violenza si è talvolta espansa anche in Niger, lasciando queste persone senza nessuna alternativa se non quella di insediarsi lungo la strada. Le comunità locali e quelle sfollate temono nuovi attacchi.

Le condizioni di vita lungo la Route National 1 sono difficili: in questo contesto remoto e semi-desertico, le temperature arrivano ora fino a 48° C (stagione secca), mentre le piogge che verranno fra due o tre mesi spesso inondano gli insediamenti precari. I ripari sono fatti di paglia, le condizioni sanitarie sono basse, con un numero limitato di latrine e docce. Molti bambini non hanno accesso all'educazione a causa delle scarse strutture educative nei villaggi vicini, le quali sono spesso già sovraffollate, e a causa della chiusura di molte scuole nelle zone insicure vicino alla frontiera. La distribuzione di beni alimentari è irregolare, e la popolazione locale non riesce sempre a condividere le sue poche risorse con gli sfollati e i rifugiati.

Difficile portare aiuti e assistenza. Le agenzie di aiuto stanno incontrando difficoltà nel portare assistenza alle persone sfollate a causa del contesto di estrema insicurezza, del numero crescente di insediamenti, alcuni dei quali in zone remote, e della mancanza di fondi. Dei 112 milioni di dollari richiesti dalle 22 agenzie di aiuto tra cui l’UNHCR per le operazioni nella regione di Diffa nel 2016 (Piano di Risposta Regionale per i Rifugiati del 2016), ad oggi ne sono stati ricevuti solo 20.

Contadini, allevatori, pescatori, commercianti, e gestori di negozi hanno perso le loro principali fonti di reddito a causa dello sfollamento e dell’insicurezza nella regione. Ulteriori finanziamenti sono necessari per rendere disponibili mezzi di sostentamento per queste persone, in modo che possano diventare auto sufficienti e di nuovo essere parte attiva dello sviluppo economico della regione.

Ulteriori spostamenti interni. Un numero sempre maggiore di rifugiati e sfollati interni riferiscono di volersi spostare ulteriormente rispetto all'instabile zona di confine, temendo che i ribelli possano attaccare i loro insediamenti in Niger, come hanno fatto con i loro villaggi in Nigeria e a Diffa. Alcuni giorni fa, su richiesta del governo, l’UNHCR ha cominciato a ricollocare centinaia di rifugiati dai due insediamenti spontanei lungo la Route National 1 verso un campo a circa 50 km dal confine.

Nonostante la maggior parte delle persone preferiscano vivere al di fuori dei campi, alcune persone hanno deciso di essere trasferite per motivi sia di protezione che di accesso a cibo e servizi adeguati. Il campo al momento ospita circa 3.000 persone. Nel prossimo futuro è previsto anche il trasferimento volontario delle persone sfollate interne dalle aree di confine verso altre zone, come campi e altri villaggi nella regione di Diffa, dove vi sono maggiori garanzie di sicurezza.

La spinta migratoria determinata da Boko Haram. In tutto, 2,7 milioni (2.674.421) di persone sono sfollate nell'area del Bacino del Lago Ciad a causa della violenza legata al gruppo di Boko Haram. 2,1 milioni di persone sono sfollate interne in Nigeria. Inoltre, ci sono 241.256 persone sfollate in Niger (82.524 rifugiati nigeriani, 31.524 nigerini rientrati, 127.208 sfollati interni), inclusi 157.945 lungo la Route National 1. 270.210 sfollati interni in Camerun (64.938 rifugiati nigeriani, 169.970 sfollati interni. 35.302 camerunensi rientrati); e 7.337 rifugiati nigeriani si trovano in Ciad.
(dati e fonti UNHCR)






domenica 5 giugno 2016

5 Giugno, Giornata Mondiale dell'Ambiente. Stop ai crimini di natura

Il bracconaggio insieme a tutte le forme di appropriazione illegale di risorse naturali con un fatturato annuale di 213 miliardi di dollari rappresenta il quarto mercato criminale del Pianeta.

Il bisogno di proteggere la flora e la fauna del Pianeta dalla predazione del crimine organizzato è diventata una priorità mondiale. L’Ufficio Drugs and Crime delle Nazioni Unite (UNODC) ha pubblicato in questi giorni il rapporto annuale "World Wildlife Crime Report" dove sono illustrati con estrema chiarezza analisi e dati relativi ai "Crimini di Natura" che insanguinano e condannano all'estinzione specie uniche per il valore ecologico e cruciali per lo sviluppo sostenibile di paesi fragili dal punto di vista politico ed economico ma ricchi di biodiversità.

L’emergenza bracconaggio ha raggiunto un livello di attenzione talmente elevato da avere targets dedicati nell'importante Agenda 2030 con gli obiettivi di sviluppo sostenibile approvati da tutti i paesi del mondo lo scorso anno all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la cui implementazione è stata oggetto della seconda United Nations Enviroment assembly (UNEA2), tenutasi a Nairobi presso la sede dell'UNEP dal 23 al 27 maggio scorsi dove è stata lanciata la campagna "Wild for Life" dedicata ad arrestare il traffico di specie che a livello mondiale rischiano l’estinzione.

Proprio l’assemblea ambiente delle Nazioni Unite è stata un’importante occasione per ricordare che ogni anno:
  • In Africa vengono uccisi dai bracconieri più di 30.000 elefanti,
  • Che paesi come la Tanzania e il Mozambico hanno perso in soli 5 anni tra il 50 e il 60% della loro popolazione di questi straordinari pachidermi,
  • Ogni anno viene ucciso il 10% dei gorilla di pianura,
  • In Zimbabwe è scomparso in pochi anni il 60% della popolazione di rinoceronti,
  • e in 10 anni è scomparso quasi il 70% degli elefanti di foresta del bacino del Congo.

Anche gli squali sono in drammatico declino (alcune specie in pochi anni hanno subito una riduzione del 98%) mentre in alcune regioni abbiamo perso il 90% delle popolazioni di pangolini. Si è ridotto del 40% il territorio in cui prima viveva la vigogna, un meraviglioso animale sud americano. La tigre dell’Amur è stata ridotta dal bracconaggio a non più di 540 esemplari, in via di estinzione mentre i leoni in Africa occidentale hanno a disposizione solo l’1% del precedente territorio di diffusione.

Ogni anno in Africa vengono uccisi 30.000 elefanti
Secondo le Nazioni Unite il bracconaggio e il commercio illegale di natura non si ferma alle specie carismatiche: l’indagine dell'UNODC analizzando 164.000 sequestri in 164 paesi diversi ha riscontrato la presenza di ben settemila specie oggetto di crimini. La cattura, l’uccisione, la trasformazione e la commercializzazione illegale di queste specie contamina un’infinità di prodotti e settori: dalla moda (come pelli e avorio) all'arredamento (come alberi e altre piante in via d’estinzione), dal cibo (come scimmie e pangolini) ai prodotti farmacologici tradizionali (come parti di tigre e corna di rinoceronti) e agli animali domestici (come pappagalli e rettili). Sempre secondo l’ufficio UNODC tutti siamo potenzialmente complici del bracconaggio e tutti abbiamo la responsabilità di agire, anche attraverso la diffusione della consapevolezza, dell’informazione e delle pratiche di un consumo responsabile.

Purtroppo anche in Italia la piaga del bracconaggio fa strage di animali protetti. Milioni di uccelli ogni anno vengono uccisi da doppiette, trappole e reti. Le 300 guardie del WWF, in prima linea nella lotta ai crimini di natura italiani, ogni anno sequestrano migliaia di richiami, munizioni, armi illegali. Il WWF chiede per la giornata dell’ambiente che l’Italia si doti di un piano nazionale per fronteggiare il fenomeno illegale della cattura, uccisione e importazione di specie selvatiche.

Non solo a difesa degli uccelli (rispetto ai quali il ministero dell’Ambiente ha appena avviato un processo di consultazione per la redazione di un piano, su sollecitazione dell’Unione Europea), ma a difesa di tutte le specie vittime di lacci, trappole, veleno e armi da fuoco. Fra questi, è doveroso ricordarlo, ci sono ogni anno centinaia di lupi. Il WWF chiede, inoltre, un maggiore coordinamento tra le forze dell’Ordine per rafforzare l’efficacia della sorveglianza, accurate indagini, condanna dei responsabili e un inasprimento delle sanzioni e delle pene per i reati contro la fauna selvatica.

Fermare il traffico di specie selvatiche e dei prodotti che da queste derivano, alimentato dal bracconaggio, è una responsabilità anche europea. Il WWF sta interloquendo, proprio in questi giorni, con i ministeri dell’Ambiente dei paesi membri dell’Unione Europea, tra cui l’Italia, in vista dell’approvazione, il 20 giugno prossimo a Bruxelles, del Piano d’azione europeo sul traffico di specie selvatiche in coerenza con gli obiettivi della CITES (Convenzione sul commercio internazionale di specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione).
(Fonte WWF)
Aderisci alla Campagna del WWF
"Stop ai Crimini di Natura"

giovedì 2 giugno 2016

Il Nord Kivu e la guerra degli "smartphone" insanguinati. Stupri e violenze in nome del Coltan

Miniera di Coltan del Nord Kivu
Il Nord Kivu è la regione mineraria della Repubblica Democratica del Congo e si trova al confine tra Rwanda, Burundi. Da venti anni in quella regione è in atto una "guerra dimenticata" per il controllo su quelle miniere ricche di minerali preziosi, di diamanti e del coltan, un minerale raro, ma che permette a tutte le apparecchiature elettroniche di funzionare, come telefonini, smartphone, iPhone, tablet, ecc..

Un conflitto però da leggere non semplicemente come "economico", ma da leggere anche come etnico, strascichi decennali che trovano un'origine nel genocidio del Rwanda del 1994. Nel Nord Kivu convivono infatti etnie diverse che si sono mescolate ai tutsi fuggiti dal Rwanda fin dall'epoca del genocidio.

In quella regione vengono compiuti massacri, stupri di massa e violenze, da parte di bande armate che sconfinano dal Rwanda e dall'Uganda, bande armate contrastate all'esercito regolare congolese e alla forza multinazionale ONU (MONUSCO). In questi luoghi martoriati una voce della giustizia e della pace è stata messa a tacere. Domenica 20 marzo è stato ucciso padre Vincent Machozi Karunzu.

Padre Vincent Machozi Karunzu
Da anni andava denunciando il genocidio del suo popolo, l’etnia nande nel Nord Kivu, vittima dello sfruttamento illegale dei minerali che si trovano in quella terra. Recentemente, il sacerdote aveva chiesto un’indagine internazionale che avrebbe dimostrato il coinvolgimento dei presidenti congolese e rwandese nei massacri compiuti nella regione da gruppi armati. La sua voce era diventata troppo scomoda, per questo è stata zittita. Ora il suo popolo, orfano di una guida, ammutolito e terrorizzato, ora è più solo e isolato.

Il gruppo armato che ha ucciso padre Vincent era composto da dieci uomini che hanno minacciato i lavoratori della parrocchia e che cercavano il capo della collettività e il prete. Ha inoltre aggiunto che "la loro missione era evidentemente quella di uccidere il capo della collettività di Bashu e il prete". È chiaro che si è trattato di un assassinio mirato.

Ma che c’entra l’uccisione di questo coraggioso sacerdote con quella di milioni di persone, morte nella guerra che si combatte da quasi venti anni nella regione del Kivu? La risposta è conosciuta ai più. Ma vale la pena rinfrescare la memoria. Alcuni dei minerali (columbite, tantalio, tungsteno, coltan …) che si trovano in quell'area della Repubblica Democratica del Congo sono componenti essenziali per costruire cellulari, tablet e computer, che tanti di noi usano quotidianamente. Quei minerali si trovano anche nei giacimenti in Canada e Australia, per esempio. Ma le multinazionali preferiscono quelli importati dal Kivu perché hanno costi inferiori perché frutto del lavoro di schiavi in miniere illegali, dove non sono risparmiati neppure i bambini, impiegati a estrarre i minerali nei tunnel più stretti.

Quindi sì, c’entriamo anche noi, fruitori finali dei beni sottratti alla Repubblica Democratica del Congo. Ogni volta che acquistiamo il cellulare e altri strumenti elettronici siamo indirettamente complici della violenza e della barbarie che si perpetuano nella regione orientale di quel paese. E la produzione di quei minerali è stimolata dalla martellante pubblicità che sollecita la clientela in ogni angolo del mondo ad acquistare cellulari della nuova generazione. Più che per necessità per inseguire una moda diffusa, senza pensare che tutto ciò va ad aumentare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori in Kivu, alimentando il clima di violenza nelle zone di conflitto.

La riduzione del consumo di manufatti elettronici è un primo passo di giustizia, contribuisce a far diminuire la produzione di quei minerali e ad abbassare il livello di conflittualità nella regione dove viene estratto.

Bambini impiegati nel lavoro delle miniere del Nord Kivu
Ma occorre fare anche un altro passo, a livello giuridico. Da tempo numerose associazioni, in Italia e in Europa, si stanno battendo affinché l’Unione Europea si doti della legislazione sulla tracciabilità dei minerali, dall’inizio del processo di purificazione alla produzione dei manufatti, in modo che i consumatori possano acquistare telefonini e altri dispositivi elettronici sicuri di non finanziare la guerra con i loro acquisti.

Legislazione fortemente caldeggiata dalla Conferenza episcopale congolese e da oltre cento vescovi nel mondo, che sul tema hanno sottoscritto una petizione all’UE.

A dire il vero il Parlamento europeo ha approvato, nel maggio del 2015, un progetto di regolamento chiamato a certificare l’origine legale dei minerali, come stagno, tantalio, tungsteno (i 3T) e oro. Ma, negli ultimi mesi, il Consiglio dell’UE, formato dalla Commissione europea e dai 28 stati membri, ha annacquato il provvedimento a favore di un sistema volontario e parziale, non più vincolante per i paesi europei.

La battaglia legale, però, deve continuare, con l’appoggio di una opinione pubblica sensibile e informata. Sosteniamo la campagna lanciata da enti come la Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario), la Rete per la pace in Congo in Italia e, a livello europeo, il Cidse (che raggruppa 18 organizzazioni impegnate per lo sviluppo) affinché l’UE adotti un provvedimento legislativo che imponga l’obbligo della tracciabilità, in modo da recidere il legame tra l’estrazione dei minerali e il finanziamento dei conflitti armati. Un modo concreto per sostenere la campagna è la sottoscrizione della petizione - clicca qui - Per far sì che il sacrificio di padre Machozi non sia vano e la sua gente possa godere delle ricchezze del territorio con un lavoro dignitoso, nella pace e nella legalità.
(da Nigrizia)