martedì 27 settembre 2016

Buone notizie dal sistema di protezione richiedenti asilo (Sprar), dove i rifugiati lavorano e diventano cittadini

Mentre nei Cara e nei Cas (Centri di Accoglienza Speciali) si fronteggia la prima emergenza, con situazioni estreme di disagio e mala gestione più volte accertate, nella rete del Sistema di protezione per richiedenti asilo (Sprar), il lavoro di integrazione riesce a produrre risultati positivi. Nel controllo e nella trasparenza. Ma i numeri, seppur in crescita, sono ancora bassi.

C'è un'accoglienza buona e una cattiva. Quella cattiva, anzi, vergognosa, l'abbiamo raccontata con l'articolo sul Cara di Borgo Mezzanone (Foggia), dove i richiedenti asilo vivono in condizioni di disagio estreme, mentre i manager della consorziata bianca “Senis Hospes”, cooperativa che gestisce la struttura, gli sfruttatori e i caporali delle campagne foggiane si riempiono le tasche. Quella buona si chiama Sprar, “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”. Una rete composta da enti locali e associazioni non governative diffusa su tutto il territorio nazionale (unica regione esclusa è la Valle d'Aosta). Due estremi di un sistema dell'accoglienza confuso e frammentato.

Il paragone scricchiola un po', se si pensa che i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) si occupano di prima accoglienza, mentre i centri Sprar dovrebbero garantire la “seconda accoglienza”, favorendo l'integrazione delle persone già titolari di protezione internazionale. Ma spesso, soprattutto in passato, l'aumento improvviso dei flussi migratori ha indotto le autorità ad inviare i migranti direttamente in queste strutture, senza passare neanche dai Cas (Centri di accoglienza straordinaria) che oggi ospitano oltre il 70% dei richiedenti asilo. Chi ha seguito questo percorso può ritenersi fortunato.

Nel 2015, il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo (Fnpsa) ha finanziato 430 progetti Sprar, di cui 348 destinati a richiedenti asilo e 52 a minori non accompagnati. Un modello d'accoglienza silenzioso ma in costante crescita, come racconta il rapporto 2015. Dai tremila posti finanziati nel 2003 ai quasi 30mila dello scorso anno.

I migranti ricevono assistenza sanitaria e psicologica, vengono ospitati in piccole strutture o in appartamenti e coinvolti, poi, in percorsi di istruzione e inserimento socio-lavorativo. Un accompagnamento che può durare fino a 6 mesi dopo la risposta delle commissioni territoriali alle richieste d'asilo. Il tutto sotto la supervisione dei Comuni (nel 2015 hanno aderito 800 amministrazioni) che rispondono direttamente dei progetti.

"Le strutture governative (Cpsa, Cda, Cara, Cie, ecc..) rispondono a logiche emergenziali, le gare d'appalto non sono sempre chiare e può capitare che l'ente gestore non abbia alcuna esperienza in materia di accoglienza. Il problema è che i posti Sprar sono ancora pochi, soprattutto per volontà politica. A qualcuno conviene gestire i flussi in situazione di emergenza"

La differenza tra i Cas e lo Sprar la spiega Alberto Mossino. La sua onlus attiva nella cintura di Asti, il Piam (Progetto integrazione accoglienza migranti), ospita 65 richiedenti asilo con fondi Sprar, altri 80 (all'interno del consorzio Co.Al.A.) in regime di Cas. "Le linee guida dello Sprar ci impongono un controllo della spesa, con un rigido sistema di rendicontazione a cui possiamo apportare modifiche solo motivando le richieste. Per il Cas, invece, la Prefettura ci chiede solo un registro presenze". La differenza sta tutta qui. Nel controllo della spesa e nella discrezionalità che contraddistingue il lavoro delle singole Prefetture. Ogni Cas funziona diversamente dall'altro, non c'è uniformità nei livelli di assistenza.

"Lo Sprar potrebbe occuparsi anche di prima accoglienza, ma il problema è che devono essere i sindaci a proporre i progetti al Ministero. Non c'è convenienza politica ad ospitare più rifugiati sui territori, specie a ridosso delle elezioni. Ovviamente anche lo Sprar può essere migliorato. Potrebbe essere direttamente il Ministero a disporre un aumento dei posti, ma soprattutto è necessaria un'estensione dei tempi di permanenza: 6 mesi sono pochi per aiutare le persone ad integrarsi nella società"

I rifugiati del Piam sono arrivati fino al Festival di Venezia, protagonisti del “Vangelo” di Pippo Delbono presentato alle Giornate degli autori, mentre il lavoro di Princess Inyang Okokon, compagna di Alberto Mossino, ha attirato le attenzioni del The Guardian: per il Piam, la donna nigeriana si è occupata delle ragazze africane che si prostituiscono nell'Astigiano, riuscendo a salvarne più di 200.


Video servizio "The Guardian" sul lavoro di Princess Inyang Okokon di Piam Onlus Asti

Anche Roma non è solo Mafia Capitale. Nel III municipio è attiva Idea Prisma 82. Tra le attività della cooperativa c'è il progetto Wel©home per l'inserimento di tre famiglie di richiedenti asilo e di un nucleo familiare ancora in attesa della protezione internazionale. Sono stati ospitati in un grande appartamento nel quartiere Sacco Pastore, assieme ad una signora italiana di 65 anni, rimasta sola e senza casa. Lei, ora, fa la chioccia, mentre i rifugiati, tra cui molti bambini, frequentano corsi di italiano e tirocini di inserimento: un ragazzo in un'autofficina, una ragazza in una trattoria e un ex calciatore nella società dilettantistica Liberi Nantes, la squadra composta esclusivamente da richiedenti asilo.

"Con lo Sprar l'immigrazione diventa un'opportunità, gli enti locali si responsabilizzano, la rendicontazione è rigida, i territori sono coinvolti e se ne trae vantaggio in termini occupazionali e di convivenza sociale. Basterebbe fare adottare alle strutture governative le linee guida dello Sprar"

Un altro caso di buona accoglienza viene dal sud, dal comune di Riace, in provincia di Reggio Calabria. Il borgo, meno di duemila abitanti, si stava svuotando, le scuole stavano chiudendo. E allora il sindaco Domenico Lucano ha deciso di far rivivere il suo paesino ristrutturando le case del centro storico e mettendole a disposizione di oltre seimila richiedenti asilo. Lo ha potuto fare grazie ai fondi Sprar. Il suo nome spunta al quarantesimo posto della classifica delle persone più influenti al mondo nel 2016 secondo la rivista Fortune.

Tra i "pilastri" del nuovo piano di ripartizione dei richiedenti asilo annunciato il 6 settembre dal ministro dell'Interno Angelino Alfano c'è una "modalità" di accreditamento continuo allo Sprar, che superi l'attuale complessità imposta dalla periodicità di pubblicazione dei bandi di adesione e che si caratterizzi per una gestione "a liste sempre aperte" per accogliere le domande degli Enti locali, senza più vincoli temporali, ma solo in base alla disponibilità delle risorse, istituendo una sorta di albo permanente in cui accreditarsi. E si parla anche di una deroga al patto di stabilità interno per i comuni che aderiranno allo Sprar da inserire nella prossima legge di bilancio. L'intenzione, almeno nei proclami, è quella di dare continuità a un sistema che lo scorso anno ha consentito a 1.972 richiedenti asilo di ottenere un contratto di lavoro stabile.


Le comunità rinascono, i rifugiati diventano cittadini, le procedure sono trasparenti. L'impalcatura dello Sprar funziona come modello unico in tutto il Paese. Non c'è spazio per chi vuole speculare sull'emergenza.
(l'Espresso)
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giovedì 22 settembre 2016

Strage di Civili nella Repubblica Centrafricana, e la guerra continua


Il campo profughi di Kaga Bandoro
Nella Repubblica Centrafricana riprende il conflitto che da tre anni vede scontrarsi Seleka e Anti-balaka, domenica scorsa c'è stata una strage di civili nelle aree interne del Paese.

Era il dicembre del 2012 e la Repubblica Centrafricana precipitava in una guerra civile che ancor oggi prosegue e che non sembra trovare vie d'uscita. Tutto ha avuto inizio con la sollevazione di un gruppo di ribelli chiamato Seleka che partendo dalle province orientali del Paese, in soli tre mesi, riuscì a rovesciare il potere dell'allora presidente Francois Bozize e a prendere controllo della città di Bangui. Gli insorti, principalmente di fede musulmana, durante la loro avanzata verso la capitale si sono macchiati di violenze e saccheggi ai danni dei civili cristiani e animisti, e questi hanno quindi reagito dando vita ai gruppi Anti-balaka. Formazioni irregolari che hanno iniziato ad attaccare a loro volta civili e insorti musulmani.

Il Paese è così precipitato in una guerra civile, e quella che è stata la convivenza confessionale che ha caratterizzato la terra dell'Oubangui (importante affluente del fiume Congo che attraversa la Repubblica Centrafricana) è crollata, portando oggi il piccolo stato africano ad essere diviso in due parti, a ovest il controllo sul territorio è nelle mani dei gruppi cristiani, a est di quelli musulmani e dove una confessione comanda l'altra è vittima di violenze e sopraffazioni.

Persino il Papa, si è recato in Repubblica Centrafricana nel novembre dello scorso anno per portare un messaggio di pace, e dopo la sua visita nell'ex colonia francese si sono svolte anche le elezioni presidenziali che hanno visto vincere Faustin Touadera che da subito ha rivolto appelli all'unità nazionale. Ma nonostante ciò, la violenza in Centrafrica non è finita ma anzi, continua a infiammare il Paese.

L'ultimo caso eclatante si è verificato domenica scorsa tra Kaga Bandoro, città situata nel centro della Repubblica Centrafricana (CAR) e il vicino villaggio Ndomete dove sono state uccise oltre venti persone, molti altri sono stati feriti durante gli scontri tra uomini armati appartenenti agli ex-Séléka (alleanza di ribelli per lo più composta da musulmani) e militanti degli anti-balaka (gruppi armati composti per lo più cristiani e animisti). Gli abitanti terrorizzati, sono fuggiti nella foresta o hanno cercato ospitalità presso altre comunità vicine. Testimoni oculari riferiscono che a Ndomete i militanti ex-Séléka non hanno risparmiato nessuna casa. È stata una strage. Tra le vittime anche il capo del villaggio.

Qualche giorno prima, il 16 settembre, membri di un gruppo armato hanno fatto irruzione nell'ospedale di Kaga Bandoro chiedendo con prepotenza cure immediate per un loro compagno, vittima di un incidente di automobile. Michel Yao, coordinatore umanitario ad interim e rappresentante dell’Organizzazione della sanità nel CAR ha condannato l’intrusione nell’ospedale e la violenza contro il personale sanitario.I pazienti, presi dal panico sono fuggiti terrorizzati.

Truppe del contingente della Nazioni Unite MINUSCA
In un comunicato diffuso da MINUSCA (“United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic”), ha chiesto ai responsabili di cessare immediatamente le ostilità. Il portavoce di MINUSCA ha sottolineato che chiunque alimenti questa nuova ondata di violenza nella prefettura di Nana Gribizi (la ex-colonia francese è suddivisa in quattordici prefetture) o altrove, con lo scopo di destabilizzare il Paese, sarà perseguito dalla legge. Nel comunicato fa anche appello alla popolazione locale di non cedere al desiderio di vendetta.

Gli inviti alla pace rimangono sempre incerti e deboli, mentre sono stabili e granitiche le cifre che raccontano il dramma della Repubblica Centrafricana. Oggi infatti su una popolazione di 4,6 milioni di abitanti si contano 384.000 sfollati interni, mentre sono 500mila i rifugiati nei Paesi confinanti e la guerra ha già causato più di 5mila vittime.

MINUSCA, in conformità al suo mandato, cioè proteggere la popolazione civile, ha deciso di rinforzare i propri dispositivi militari a Kaga Bandoro e Ndomete per evitare che la situazione deteriori ulteriormente. Peccato che non sempre la popolazione è stata protetta dal contingente di pace. Alcuni militari francesi sono inquisiti dalla Procura parigina per aver commesso violenze su minori. Sotto accusa per gli stessi reati anche alcuni caschi blu di MINUSCA. Sospetti terribili che non fanno onore né alla Francia, né all’ONU.

Come è stato preannunciato il 13 maggio scorso da François Hollande durante la sua ultima visita a Bangui, la capitale del Paese, la Francia ritirerà le proprie truppe dalla sua ex-colonia i primi di ottobre. Il contingente francese è presente nel Paese dal dicembre 2013. Forte di milleseicento uomini, autorizzata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’ONU con la risoluzione numero 2127, alla missione era stato assegnato il compito di disarmare gli ex-Séléka e gli Anti-balaka.

Il 15 settembre 2014 arrivano anche i caschi blu dell’ONU della Missione Multidimensionale Integrata per la Stabilizzazione nella Repubblica Centrafricana, fortemente voluta dal segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon. Le forze dell’Unione Africana del contingente MINUSCA sono presenti con 5250 uomini.

Faustine Touadéra
La popolazione e la comunità internazionale aveva riposto molte speranze nelle elezioni, nel nuovo presidente Faustin-Archange Touadéra, ma per ora i risultati desiderati non si sono realizzati. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) a fine luglio 2016 su una popolazione di 4,6 milioni, gli sfollati erano ancora 384.000, mentre i rifugiati nei Paesi confinanti 467.800. La guerra civile ha causato la morte di almeno 5.000 civili.

A tutt'oggi la metà della popolazione necessita di aiuti alimentari. La gente è allo stremo e dalla fine di agosto un’epidemia di colera miete altri morti. Il “Humanitarian Pooled Fund” per la Repubblica Centrafricana ha stanziato la somma di 1,5 milioni di dollari per far fronte a questa emergenza.
(Fonti e dati: Il Giornale e African Express)

Drammi senza fine si consumano quotidianamente nella Repubblica Centrafricana nel silenzio quasi totale dei media internazionali

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Articolo a cura di
Maris Davis


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lunedì 19 settembre 2016

Asti, ragazze nigeriane richiedenti asilo costrette a prostituirsi in città

Avevamo già denunciato il fenomeno delle ragazze nigeriane richiedenti asilo ospiti di centri di accoglienza e che sono costrette a prostituirsi. Un fenomeno che dimostra la forza penetrativa della mafia nigeriana, che riesce ad entrare fin dentro i centri di accoglienza italiani.

Dal CARA di Mineo a quello di Foggia, fino ai centri di accoglienza più piccoli, dove le ragazze nigeriane sono controllate e andate a prendere perfino all'interno le strutture, in beffa a tutti i controlli.

Ad Asti nei giorni scorsi due ragazze nigeriane rispettivamente di 21 e 25 anni sono state identificate mentre erano a bordo dell'auto di un "cliente" italiano sospettato anche di essere una specie di tassista di nigeriane (trasportava le ragazze sul "posto di lavoro") e per questo denunciato per favoreggiamento della prostituzione.

Le due ragazze nigeriane invece erano ospiti di un centro di accoglienza di Torino in attesa dell'esito della domanda di asilo, e ogni giorno prendono il treno dal capoluogo piemontese per prostituirsi durante le ore notturne ad Asti e quindi rientrare a Torino in mattinata. Il caso è stato segnalato alla Procura di Torino per gli approfondimenti del caso.

Non è la prima volta che le forze dell’ordine astigiane si trovano davanti a vicende simili. Nelle scorse settimane la polizia municipale di Asti aveva multato due nigeriane, ospiti di strutture di accoglienza di Torino e Genova, per la violazione dell’ordinanza del sindaco che vieta la prostituzione su strada in città.

Un radicale cambio di strategia della mafia nigeriana da noi già segnalato in passato e che sfrutta la lentezza della burocrazia italiana e i tempi lunghi con cui le richieste di asilo vengono esaminate. Se negli anni scorsi alle ragazze nigeriane sfruttate venivano tolti i documenti come forma di ricatto per costringerle a prostituirsi, adesso e con sempre maggiore frequenza, sono gli stessi sfruttatori che obbligano le ragazze nigeriane a fare la richiesta di protezione internazionale.

Si sfrutta il tempo necessario all'esito della domanda, una media di 12-18 mesi, e se anche l'esito fosse sfavorevole, c'è sempre la possibilità di presentare appello, e quindi altri mesi in cui la ragazza potrà essere sfruttata. Nel frattempo anche se queste ragazze venissero identificate dalle forze dell'ordine mentre si prostituiscono, come nel caso di Asti, non potranno essere fermate perché in possesso di documenti regolari e perché in Italia il solo fatto di prostituirsi NON è reato.

Per le varie mamam e la mafia nigeriana una media di 18-24 mesi in cui possono sfruttare e controllare queste ragazze praticamente senza rischi

Lo scorso anno le ragazze nigeriane arrivate in Italia dalle coste libiche sono state più di cinquemila, un trend che si sta confermando anche per il 2016, sono sempre più giovani, una su 5 è minorenne e quasi tutte destinate alla prostituzione coatta. Il filtro che viene attuato subito dopo gli sbarchi non funziona, ci vorrebbero più operatori capaci di distinguere le situazioni di sfruttamento. Queste ragazze finiscono nel circuito "normale" dei centri di accoglienza dove vengono ri-contattate da coloro che le hanno fatte arrivare in Italia.

Un altro "filtro" che non funziona è quello del colloquio che viene attuato dopo che queste ragazze hanno presentato la domanda d protezione internazionale, burocrati e funzionari incompetenti trattano questi casi ancora con troppa superficialità e impreparazione, lasciando queste giovanni donne in balia di sfruttatori e mamam.


Articolo a cura di
Maris Davis

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domenica 18 settembre 2016

Nigeria, liberati 566 ostaggi di Boko Haram tra cui 355 bambini

L'esercito nigeriano ha liberato 566 persone, tra cui 355 bambini, che erano nelle mani di Boko Haram.

Profughi nigeriani nella regione di Diffa in Niger
L'operazione è avvenuta nella regione del Borno, nella parte nord-orientale della Nigeria. I bambini e le bambine sono stati portati in un centro di riabilitazione, gestito da varie associazioni umanitarie tra cui l'Unicef, dove verranno curati soprattutto dal punto di vista psicologico.

In un'altra operazione in Niger, trentotto combattenti islamici di Boko Haram sono stati uccisi dalle truppe del Niger e del Ciad, nella regione di Diffa, nel sud-est del paese africano. Durante il blitz sono rimasti lievemente feriti anche alcuni soldati dell'esercito regolare. Nell'operazione sono stati sequestrati anche consistenti quantitativi di armi e munizioni.

Intanto il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari ha dichiarato di essere disposto a rilasciare i prigionieri di Boko Haram in cambio della liberazione delle oltre 200 studentesse della scuola di Chibok rapite nel 2014, ridotte in schiavitù e ancora nelle mani dei miliziani islamici.

I negoziati erano stati avviati da tempo, ma non sono mai arrivati a conclusione a causa delle eccessive pretese di Boko Haram. Non sappiamo se sia la volta buona per il rilascio delle studentesse, data anche l’instabilità all'interno dello stesso gruppo jihadista. L'Isis infatti aveva annunciato all'inizio di agosto la sostituzione di Abubakar Shekau come leader del gruppo. Lo stesso Abubakar Shekau che il 23 agosto l'esercito nigeriano ha dichiarato di ave ucciso durante un raid aereo - leggi -

Sono ormai sette gli anni che Boko Haram crea terrore nella Nigeria nord-orienatle. Sette anni in cui il gruppo estremista ha ucciso più di 20.000 civili e costretto alla fuga 2,7 milioni di persone, ora disseminate tra Nigeria, Camerun, Niger e Ciad.

Il suo obiettivo era quello di creare nel nord della Nigeria un emirato governato da un’interpretazione radicale della legge islamica. La notizia della liberazione dei 566 prigionieri, del blitz e dell’uccisione di diversi miliziani fa ben sperare, ma gli uomini di Boko Haram si calcola siano ancora nove mila, molti anche giovani laureati che si uniscono al gruppo islamista perché in esso trovano una sicurezza economica e lavorativa, riuscendo così a realizzarsi in una Nigeria dalle mille contraddizioni, ricca di petrolio ma povera di benzina, dove pochi ricchi detengono la gran parte della ricchezza mentre la metà della popolazione vive alle soglie della povertà, ma soprattutto è una Nigeria dove la corruzione ha ormai infettato tutto e tutti.

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mercoledì 14 settembre 2016

Rimini. Minorenne stuprata da albanese, le amichette filmano la violenza e diffondono il video in rete

La 17enne era ubriaca e completamente in balia dell’aggressore nel bagno di una discoteca. Ubriaca fradicia viene violentata da un ragazzo albanese di 19 anni, mentre le amiche riprendono la scena che finisce su WhatsApp. Una storia da incubo, quella vissuta da una 17enne, residente nel Riminese, su cui ora sta indagando la magistratura. Arrestato il violentatore.

I fatti risalgono a qualche tempo fa, a un sabato sera come tanti altri che i ragazzini consumano in discoteca. La giovane è nel locale insieme alle amiche, lì dentro si conoscono più o meno tutti, anche se soltanto di vista. E il ragazzo albanese è, appunto, solo una conoscenza, di quelle che si fanno di solito nelle disco, la maggior parte delle volte senza approfondire troppo.

Nonostante lei abbia solo 17 anni, ingurgita un bel po’ di alcol, anche se ancora non è chiaro se abbia bevuto di sua iniziativa o se sia stato il suo violentatore a convincerla. Certo è che qualcuno quell'alcol l’ha "servito", e questa sarà un’altra cosa su cui indagare. Arriva al punto da non capire quasi più niente, come lei stessa racconterà poi agli inquirenti.

La roba che ha ingoiato l’ha ridotta a un automa e non si rende conto che il ragazzo è lì pronto ad approfittare delle sue condizioni. Da una ricostruzione fatta dagli investigatori dei carabinieri, a quel punto il giovane albanese avrebbe trascinato la 17enne in uno dei bagni del locale, chiudendo a chiave la porta.

Ma non sono soli. Forse la mossa non è sfuggita alle amiche della giovane che, evidentemente, li hanno seguiti. Perché proprio mentre si consuma la violenza, riescono ad arrampicarsi nella toilette di fianco e riprendono la scena con il cellulare. Un video in cui per fortuna non si vede la vittima in volto, ma che testimonia come la 17enne fosse completamente inerme, una bambola di pezza in balia del ragazzo.

Come sottofondo, le risate di chi sta filmando, come se si trattasse di uno scherzo di poco conto. Una cosa che fa accapponare la pelle, giovani ormai adulte che invece di correre in aiuto dell’amica che sta subendo quell'orrore, la prima cosa a cui pensano è quella di immortalare la scena, come se niente di quello che stava succedendo le riguardasse.

E quel filmato allucinante, la vittima se lo ritrova il giorno dopo su WhatsApp, e realizza pienamente l’orrore che ha subito. Non sa a quante persone sia stato mandato (gli inquirenti sembrano essere riusciti a bloccare tutto), è disperata e alla fine non può fare altro che rivolgersi a sua madre.

La mamma della ragazza è sotto choc, e l’unica cosa che può fare è quella di correre dai carabinieri e mostrare quella barbarie che si è consumata sulla pelle di sua figlia. La denuncia arriva subito sul tavolo del magistrato che apre un fascicolo per violenza sessuale.

La 17enne viene sentita subito, ma da lei ricavano ben poco, di quel momento terrificante lei ricorda poco e niente, ha soltanto dei flash. L’immagine di un bagno e qualcuno che le grida "scappa, scappa". Sono probabilmente le amiche mentre stanno filmando. Altre minorenni che gli investigatori stanno ancora finendo di sentire.

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lunedì 12 settembre 2016

Calabria, per tre anni ragazzina stuprata dal branco. Il silenzio ipocrita di chi sapeva e ha taciuto

Violentata per tre anni e tutto il paese le volta le spalle e ora la chiama "prostituta". Il caso di Melito Porto di Salvo (Reggio Calabria), e l'ipocrisia dell'Italia peggiore.

"Se l’è andata a cercare", "È una prostituta", "Sono tutti vittime, anche i ragazzi". Questi alcuni commenti dei cittadini di Melito Porto di Salvo, anche dei pochi che hanno partecipato alla fiaccolata in difesa della ragazzina violentata dal branco. Una storia che racconta il nostro lato oscuro. In poche centinaia alla fiaccolata per la 16enne stuprata da tre anni.

In apparenza è solo una piccola storia ignobile, come dice la canzone, ma la vogliamo raccontare in difesa di Chiara, nome di fantasia della ragazza residente a Melito Porto di Salvo stuprata per tre anni (da quando ne aveva solo 13) da nove compaesani ventenni, in una serie di ripetute violenze di cui solo alcuni giorni fa, grazie a una fiaccolata e a un articolo su La Stampa, si sono conosciuti bene i dettagli.

di Anarkikka
Perché nel branco non c'era solo il figlio del boss locale ma anche il figlio di un maresciallo dell'esercito e il fratello minore di un poliziotto, e insomma, ora che sappiamo con chi aveva a che fare Chiara è più facile immaginare perché abbia taciuto tanto tempo, non solo era piccola ma davanti a lei c'erano figure che a un adolescente appaiono enormemente forti, protette, invincibili, avvolte dalla contrapposta suggestione del potere illegale e di quello legale.

La bambina. "Un metro e 55 per 40 chili" c’è scritto nelle carte dell’inchiesta. E di quella bambina sta parlando tutto il paese, "Se l’è cercata!", "Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione", "Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata". Movimentata? "Una che non sa stare al posto suo". Arriva in piazza il parroco Benvenuto Malara, va davanti alle telecamere, "Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese"

Hanno violentato quella bambina per tre anni di seguito. La prostituzione non c’entra niente. L’hanno violentata in nove, a turno e insieme. Tenendola ferma per i polsi, e poi obbligandola a rifare il letto. "C’era la coperta rosa", ha ricordato la bambina nelle audizioni con la psicologa. "E non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda"

Andavano a prenderla all'uscita della scuola media Corrado Alvaro, quella con la lettera V dell'insegna crollata. È sulla via principale, proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Caricavano la bambina in auto e andavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della fiumara. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo, dove c’era il letto.

Quando questa tragedia italiana è incominciata, la bambina aveva 13 anni. Ora ne ha compiuti sedici. Una settimana fa, annunciando l’arresto degli stupratori, il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto "Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano"

In realtà ci sono stati molti tentennamenti, anche da parte della madre della bambina. Ma adesso è facile fare delle considerazioni per noi che ogni volta possiamo andarcene da qui

Le facce dei sette arrestati
Gli stupratori. Uno stupratore si chiama Giovanni Iamonte, "rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato". Un altro stupratore si chiama Antonio Verduci, ed è figlio di un maresciallo dell’esercito. Un altro stupratore è Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto. Intercettato durante le indagini, chiede consigli proprio a lui. E li ottiene "Quando ti chiamano, tu vai e dici, non ricordo nulla! Non devi dire niente! Nooooo. Davide, non fare lo ”stortu”. Non devi parlare. Dici, guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo!" .. In tutto erano in sette, gli stupratori arrestati e adesso in carcere, un ottavo indagato fermato con obbligo di firma (ma l'inchiesta continua, ora dovrà cercare nel sottobosco omertoso chi per tre anni ha favorito questo orrore).

Ecco i loro nomi. Operazione "Ricatto". Il gruppo di stupratori di Melito Porto Salvo è accusato, tra i vari reati, di violenza sessuale di gruppo su minorenne.
  • Davide Schimizzi, classe 1994, nato a Melito Porto Salvo
  • Antonio Verduci, classe 1994, nato a Melito Porto Salvo
  • Giovanni Iamonte, classe 1986, nato a Reggio Calabrio
  • Pasquale Principato, classe 1994, nato a Melito Porto Salvo
  • Lorenzo Tripodi, classe 1995, nato a Melito Porto Salvo
  • Daniele Benedetto, classe 1995, nato a Melito Porto Salvo
  • Michele Nucera, classe 1994, nato a Melito Porto Salvo 
  • Mario Domenico Pitasi, classe 1992, obbligo presentazione polizia giudiziaria
Lo storto. La verità. E la bambina. All'inizio la bambina pensava che lo Schimizzi fosse il suo fidanzato, ma poi ha spiegato in cosa consistesse lo stare con le ragazze: "Questo suo amico si mette dove era prima Davide (Schimizzi), cioè sopra di me. Però io faccio di tutto per andarmene perché non volevo e mi ero già rivestita. Così Davide ha aiutato questo suo amico a riscendermi i pantaloni. E con questo Lorenzo abbiamo avuto un rapporto, ma proprio un attimo, perché non stavo ferma, dopo di che hanno iniziato ad insultarmi"

La bambina non mangiava più. Spesso mancava da scuola. Il vecchio preside Anastasi: "Una situazione squallida, ma all'omertà non ci credo". Il nuovo preside Sclapari: "La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia". In realtà la scuola c’entra eccome, malgrado se stessa. Mentre frequentava un istituto di Reggio Calabria, la bambina ha scritto un tema sui suoi genitori. La brutta copia di quel tema è arrivata a casa. È stata lei stessa a spiegare alla psicologa cosa ci fosse scritto: "I miei genitori si stavano separando. E nonostante io non abbia detto niente per proteggere anche loro, ero un po’ arrabbiata perché loro comunque non si sono mai accorti ..". Quel tema è l’inizio della consapevolezza.

Nessuno potrà mai considerarsi salvo in Italia se in Calabria non verranno liberate le parole e salvata la bambina di Melito. Su Facebook ha cancellato tutti gli amici. Nella fotografia è accanto al padre. Ha scelto una frase del filosofo nichilista Friedrich Nietzsche: "La migliore saggezza è tacere ed andare oltre"

Si scriverà di Chiara soprattutto perché di lei, finora, hanno parlato solo uomini, con parole da uomini. Alla manifestazione indetta in suo favore che si è svolta a Melito c'era il sindaco Giuseppe Meduri. Secondo i resoconti se l'è presa con un servizio del Tgr Calabria sui melitesi che dicono “Quella se l'è andata a cercare”, in quanto offensivo della reputazione del Comune (sciolto tre volte per mafia).

C'era il parroco Benvenuto Malara che ha detto "purtroppo non è caso isolato, c'è molta prostituzione in paese". C'era l'altro parroco Domenico De Biase che ha compatito tutti i protagonisti della storia perché "sono tutti vittime, anche i ragazzi". E nessuno si è accorto che dietro queste parole da uomini, a questa solidarietà condizionata da uomini, a questa incapacità tutta degli uomini di distinguere con nettezza la vittima dai colpevoli, c'era una nuova e insopportabile offesa.

Ma come "prostituzione in paese", che cosa c'entra con Chiara? Ma come "tutti vittime", che cosa state dicendo? Ma come "offesi" dai giornalisti che mostrano in TV la solidarietà di molti verso gli stupratori di una tredicenne? "Offesi" si dovrebbe esserlo semmai con chi accusa la ragazzina invece dei suoi persecutori.

Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti. La stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, adesso indugia, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa.


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Articolo a cura di
(Maris Davis)

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sabato 10 settembre 2016

Il Kenya determinato a smantellare il più grande campo profughi al mondo, ma ..

La sua chiusura è stata più volte annunciata, ma mai davvero messa in pratica. Ecco perché.

Il campo profughi di Dabaab, Kenya
Il campo profughi di Dadaab, hub commerciale o miseria sociale? Dopo le minacce del governo keniota di voler chiudere entro novembre il più grande campo profughi al mondo, l’Alto Commissario ONU per i Rifugiati (UNHCR) compie una missione in Kenya e Somalia per incontrare le autorità locali e gli operatori umanitari.

L'Alto Commissariato ONU per i Rifugiati è contrario al rimpatrio degli oltre trecentomila rifugiati somali presenti a Dadaab senza il consenso del governo di Mogadiscio. Ma cos'è in realtà questo campo di cui tutti parlano? Per alcuni "un hub commerciale", un grande business difficilmente sostituibile, per altri un simbolo della miseria sociale dei profughi in Africa.

"Con oltre 350mila rifugiati, di cui 330mila somali in fuga dalla guerra civile scoppiata nel loro paese nel 1991, Dadaab è considerato il più grande campo profughi al mondo"

Campo profughi Dadaab, Kenya .. È il più grande "campo profughi" al mondo, attualmente ospita circa 350.000 persone, per lo più somali. Aperto nel 1991 per dare dare ospitalità provvisoria alle famiglie in fuga dalla guerra civile in Somalia, è diventato una vera e propria città. Molti dei suoi abitanti sono nati e cresciuti nel campo, e pur essendo di nazionalità "somala" non hanno mai messo piede in Somalia, nonostante il confine si trovi solamente a una settantina di chilometri.

Dopo l'attentato all'università di Garissa dove sono stati uccisi 148 studenti (marzo 2015) il governo del Kenya ha manifestato la volontà di chiudere il campo, ritenuto un covo dove si infiltra il terrorismo islamico di Al-Shabaab.

Le proteste di decine di associazioni umanitarie che operano sul posto e delle stesse Nazioni Unite, per il momento hanno scongiurato la chiusura "coatta" del campo di Dadaab. La sua chiusura forzosa lascerebbe centinaia di migliaia di persone senza un riparo e senza protezione, e provocherebbe una catastrofe umanitaria senza precedenti. Ma oggi il Kenya è determinato a chiuderlo entro il prossimo novembre.

I rimpatri forzati di rifugiati somali dal campo profughi di Dadaab sarebbe un vero e proprio disastro umanitario, i ritorni sì, ma soltanto con l’accordo dell'UNHCR e del governo somalo. Dal dicembre 2014, circa 14.000 rifugiati somali hanno aderito al programma di rimpatrio volontario, al quale si sommano "altre decine di migliaia di rimpatri volontari" senza l’assistenza dell’Alto Commissario ONU per i Rifugiati.

Oggi la Somalia è un paese instabile, distrutto da due decenni di guerra civile, dove almeno metà del territorio è sotto il controllo degli integralisti islamici di Al-Shabaab e delle Corti Islamiche che avversano l'attuale governo riconosciuto dalla Comunità Internazionale - leggi - (L'integralismo islamico di al-Shabaab conquista la Somalia)

In questo contesto il ritorno improvviso dei trecentomila somali presenti nel campo profughi di Dadaab, creerebbe senz'altro instabilità e una grave crisi umanitaria. Quasi nessuno dei somali di Dabaab ha più riferimenti sicuri in Somalia, non saprebbero nemmeno dove andare.

Con oltre 350mila rifugiati, di cui 330mila somali in fuga dalla guerra civile scoppiata nel loro paese nel 1991, Dadaab è considerato il più grande campo profughi al mondo. Non è la prima volta che Nairobi annuncia di voler chiudere Dadaab, così come non è la prima volta che intende farlo per motivi di sicurezza legati alla minaccia islamista degli Al-Shabaab, un movimento terroristico somalo accusato di aver organizzato e pilotato a partire dal campo di Dadaab gli attacchi contro l’Università di Garissa nel 2015 e il centro commerciale Westgate a Nairobi due anni prima.

Finora il governo keniota non ha mai corroborato le sue accuse con prove inconfutabili, ma la sua determinazione sta suscitando non poche polemiche sui media e nella Comunità internazionale. Molti temono che Dadaab possa creare una crisi migratoria senza precedenti. Ma è davvero così?

Dadaab, un hub commerciale. Forse no, ma basta andare negli archivi del sito di Le Monde e scovare un articolo il cui titolo è inequivocabile: "Come il Kenya accoglie i rifugiati guadagnandoci". Pubblicato nel settembre 2015, il reportage del quotidiano francese spiega i motivi per i quali non conviene a nessuno chiudere Dadaab.

Definito dal giornale keniota Business Daily "un hub commerciale", il campo profughi consente innanzitutto al Kenya di raccogliere 100 milioni di dollari all'anno fornendo ai rifugiati, alla popolazione locale e al mondo umanitario fino a diecimila posti di lavoro. Non a caso, oggi Dadaab "è il principale fornitore di lavoro di una provincia abbandonata dal governo sin dall'indipendenza, negli anni ’60"

"Definito dal giornale keniota Business Daily un hub commerciale, il campo profughi consente innanzitutto al Kenya di raccogliere 100 milioni di dollari all'anno fornendo ai rifugiati, alla popolazione locale e al mondo umanitario fino a diecimila posti di lavoro"

A rendere lo smantellamento ancora più complicato è il tessuto socio-economico che si è venuto a creare da quando Dadaab è stato istituito nel 1991. Da allora "i rifugiati somali e i kenioti hanno sviluppato molti affari in comune. I kenioti vendono ai rifugiati bestiame, vestiti, libri, biscotti e latte. In cambio, i somali vendono materiale elettronico e prodotti agricoli a buon mercato". Il prezzo del riso o dello zucchero venduto nei campi e dintorni è inferiore del 20% in media rispetto alle altre città del Kenya. Già, perché con i suoi 350mila abitanti, Dadaab è diventato il terzo centro urbano più popolato del paese. I benefici tratti dai campi per le comunità locali è pari a 14 milioni di dollari all'anno, il che equivale al 25% del PIL della provincia di Dadaab.

A dimostrazione che Dadaab è un hub commerciale estremamente dinamico, un rapporto pubblicato nel 2010 dai governi norvegese e danese, Dadaab stima a più di cinquemila i commerci disseminati nella città e nei campi. Ancora più sorprendente, una ricerca condotta nel 2014 dal direttore del Centro studi sui rifugiati dell’università di Oxford, Alexander Betts, rivela che l’impatto economico dei rifugiati nel paese è positivo. Questo nonostante il governo kenyota continui a negare ai rifugiati il diritti di sviluppare un’attività economica al di fuori del campo profughi.

L’Uganda, che accoglie 29mila rifugiati somali, fa esattamente il contrario. "A Kampala, la capitale, il 43% dei rifugiati sono impiegati da cittadini ugandesi, mentre viceversa il 40% dei lavoratori impiegati in commerci gestiti da rifugiati sono ugandesi"

"I benefici tratti dai campi per le comunità locali è pari a 14 milioni di dollari all'anno, il che equivale al 25% del PIL della provincia di Dadaab"

Ma non è tutto oro quel che luccica. Anzi, secondo Amnesty International in Africa orientale gli aspetti negativi di Dadaab prevalgono su quelli positivi.

L'arrivo di aiuti umanitari a Dabaab, 2015
"La prima funzione di un campo profughi non è certo quella di generare ricchezza. Prima di essere un hub economico. Dadaab è un hub della miseria, dove le popolazioni vivono prive di speranza. Oltre alla povertà, il campo può anche essere pericoloso"

Nel maggio 2015, le infiltrazioni dei terroristi somali di Al-Shabaab avevano costretto Medici Senza Frontiere ad evacuare 42 operatori umanitari - leggi -





Articolo di
Maris Davis