Morti, abusi e migliaia di sfollati nell'offensiva delle milizie governative partita a gennaio. Oltre 2 milioni gli abitanti che vivono nei campi profughi. Voto non credibile.
Darfur, seggio elettorale |
I circa sei milioni di abitanti del Darfur hanno tre giorni di tempo a partire da oggi per decidere se la loro regione amministrativa deve tornare ad essere una unica regione, come prima del 1994, oppure rimanere diviso in cinque parti come è attualmente.
La consultazione è parte degli accordi di pace del 2011 firmati a Doha. Ma la pace in Darfur non è mai arrivata e il referendum ad oggi appare una iniziativa surreale voluta dal presidente Omar Al Bashir che è il principale fattore di guerra in questa regione ed è inoltre ricercato dal tribunale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità commessi proprio in Darfur.
La guerra in Darfur non si è mai fermata dal 2003, quando è iniziata, ed ha prodotto finora oltre due milioni di sfollati che vivono stipati in campi profughi con poca assistenza perché il regime concede con il contagocce i permessi di assistenza alle agenzie internazionali.
Nel Darfur, regione le cui formazioni guerrigliere si oppongono al regime, c’è stata una lunga lotta a fianco dei leader del sud che poi, hanno ottenuto l’indipendenza. Omar Al Bashir dal 2003 in avanti ha usato i cosiddetti Janjawid, una popolazione nomade locale di origine araba, per fare una sorta di pulizia etnica.
La strada verso il futuro resta in salita per il Darfur. Gli abitanti della regione occidentale del Sudan, ancora funestata dalle violenze e dagli abusi di diverse milizie para-governative, hanno tre giorni (fino a mercoledì) per decidere se il Darfur, attualmente diviso in cinque parti, deve tornare a essere un'unica regione, come prima del 1994.
Ma per molti di loro questo referendum, previsto dall'accordo di pace firmato a Doha nel 2011, non rappresenta certo una priorità. Agli oltre due milioni di sfollati causati dal conflitto iniziato nel 2003 che vivono stipati nei campi profughi, se ne sono aggiunti altri 130 mila costretti a lasciare le proprie case per l’offensiva governativa partita a gennaio nel Jebel Marra.
Darfur, profughi |
Pressioni sui profughi. "Quello che la gente vuole in Darfur non è un referendum ma la possibilità di condurre una vita decente e sicura nei propri villaggi. Siamo sfollati e la maggior parte di noi non ha documenti. Come possiamo avere un ruolo attivo in questo referendum?"
Invito al boicottaggio. Il presidente Omar Bashir, reduce da un contestato tour pre-elettorale in Darfur, ha presentato la consultazione come una concessione fatta per riportare la pace nella regione (il conflitto del 2003 aveva le sue radici proprio nella divisione della regione decisa 1994). Ma i ribelli e i gruppi all'opposizione non si fidano, dicono che il voto sarà truccato, che il governo è contrario a un Darfur unificato e hanno invitato al boicottaggio.
Le autorità parlano di registrazioni di massa per il voto. Ma alcuni leader dei campi profughi denunciano pressioni e intimidazioni. "In queste condizioni e con queste regole, il voto non può essere considerato un’espressione credibile della volontà degli abitanti del Darfur"
Ma il presidente Omar Bashir, reduce da un contestato tour pre-elettorale in Darfur, insiste che si tratta di un voto libero e giusto. Sulla sua testa pende dal 2009 un mandato di cattura internazionale per genocidio.
La visita di Bashir e le proteste. Nel campo di Kalma, sabato e domenica scorsi i profughi hanno manifestato contro la visita di Bashir. Gli scampati alle violenze dei janjaweed, i "diavoli a cavallo", esibivano cartelli e striscioni di protesta per il genocidio compiuto dal governo di Khartoum contro la popolazione autoctona e denunciavano la presenza di nuovi occupanti sulle terre da cui erano stati costretti ad andarsene dalle milizie foraggiate dallo stesso governo.
"Prima di tutto il governo dovrebbe garantire il ritorno di sfollati e rifugiati nelle proprie case, occuparsi di riconciliazione e condannare chi ha commesso crimini. Se Bashir pensava che il referendum potesse conferire un’apparenza di normalità al Darfur e distogliere l’attenzione dalla tragedia di un popolo costretto da anni a vivere una prigione a cielo aperto si sbagliava"
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