lunedì 16 ottobre 2017

In Somalia la guerra dei due Califfi fa una strage. 270 morti a Mogadiscio

La scena dopo la strage a Mogadiscio

È di almeno 237 morti e 300 feriti, alcuni in gravi condizioni, il bilancio della "strage più grave" mai avvenuta in Somalia, provocata dall'esplosione, sabato sera, di due camion-bomba nella capitale Mogadiscio. Il numero delle vittime è destinato tragicamente a salire ancora perché molte persone sono rimaste intrappolate sotto le macerie dopo il crollo di alcuni edifici a causa della potente deflagrazione.

La prima devastante esplosione, quella che ha provocato la maggior parte dei morti, è avvenuta davanti al Safari hotel, vicino al ministero degli Esteri, forse il vero obiettivo degli attentatori, lungo il quartiere commerciale della capitale, con diversi ristoranti, negozi e alberghi. L'automezzo saltato in aria era stato seguito dalle forze dell'ordine in quanto ritenuto "sospetto". Tra l'altro, l'esplosione ha provocato gravi danni anche all'ambasciata del Qatar.

Il secondo camion bomba è esploso pochi minuti dopo in un'altra strada provocando diverse vittime. I vetri delle finestre di numerosi edifici sono andati in frantumi mentre alcuni veicoli sono stati rovesciati dall'onda d'urto e si sono incendiati. Le immagini drammatiche trasmesse dalle TV di tutto il mondo mostrano diverse ambulanze sui luoghi degli attentati e i medici che cercano di assistere i feriti, mentre sono in molti a vagare tra le macerie degli edifici distrutti, alla disperata ricerca dei propri cari.

Le vittime, raccontano i soccorritori, hanno riportato ustioni talmente gravi da essere irriconoscibili e ci vorranno diversi giorni per poterle identificare. I feriti, 300 finora, sono stati ricoverati in tutti e sei gli ospedali della città: alcuni di loro hanno subito l'amputazione delle mani o delle gambe. "In 10 anni di esperienza nel nostro lavoro è la prima volta che assistiamo a una cosa del genere", ha scritto in un tweet il centro Aamin Ambulance che assiste i feriti.

Il presidente somalo, Mohamed Abdullahi Mohamed, ha proclamato tre giorni di lutto, mentre gli attentati non sono ancora stati rivendicati, anche se il governo punta il dito contro i jihadisti di al-Shabaab, che spesso hanno preso di mira zone strategiche nella capitale.

La strage avviene tre giorni dopo l'incontro a Mogadiscio tra esponenti del Comando americano in Africa e il presidente somalo. E sempre tre giorni fa si erano dimessi dal governo somalo il ministro della Difesa, Abdirashid Abdullahi Mohamed, e il capo delle forze armate, generale Mohamed Ahmed Jimale.

Il ministro degli Esteri italiano, Angelino Alfano, si è detto "sconvolto dall'attacco orribile contro gente innocente" e con un tweet ha espresso "vicinanza e condoglianze al popolo ed al governo della Somalia". Mentre l'inviato speciale dell'Onu, Michael Keating, ha definito la strage "un attacco orrendo" con un numero di morti senza precedenti. "Sono scioccato e inorridito dal numero di vite umane perdute nelle esplosioni e dal livello di distruzione che hanno causato", ha detto Keating. L'Onu e l'Unione Africana stanno fornendo "assistenza logistica, medica e attrezzature" al governo somalo, ha aggiunto, mentre le autorità locali hanno lanciato un appello alla popolazione per la donazione di sangue.
(Ansa)

Una strage di cui i media occidentali non spenderanno spazio e tempo per parlarne diffusamente, 270 morti che presto verranno dimenticati. Si sa che le stragi jihadiste in Africa fanno meno rumore di quelle europee



In Somalia ci sono due nomi da tenere a mente. Il primo è Ahmad Umar, alias Abu Ubaidah, salito ai vertici di al Shabaab dopo la morte di Moktar Ali Zubeyr "Godane". Sul suo conto si sa poco o niente. Un personaggio enigmatico, un combattente esperto. Si è formato nella divisione speciale "Amniyat", il servizio segreto clandestino della milizia. Dal 2014 ha alzato l'asticella degli obiettivi e ha avviato un sottile processo di "rebranding" (cambio di immagine), intraprendendo un cammino verso l'istituzione di un'entità statale vera e propria. Prove di Califfato, o quasi.

Il secondo nome da segnarsi è quello di Abd al-Qādir Mū'min. Classe 1950, britannico e attuale leader dello Stato Islamico. Uno di quelli a cui l'MI5 (servizio segreto inglese) dava la caccia già da tempo. Un passato in Svezia, dove al Shabaab ha un radicamento molto forte, poi Londra e Leicester. Fugge in Somalia poco dopo, diventa l'autorità religiosa di al Shabaab per qualche anno e infine decide di lasciare l'organizzazione. Giura fedeltà ad al Baghdadi (ISIS), proclamando nel 2015, nel Puntland, "lo Stato islamico in Somalia" (Abnaa ul-Calipha).

L'Hotel Safari dopo l'attentato di ieri a Mogadiscio
Una transizione che allora provoca più di una frattura. E due rami: uno guidato da Umar, legato ad al Qaeda, e il secondo con a capo al-Qādir Mū'min, affiliato all'Isis. La rivalità tra le due cellule, nel tempo, ha finito per allargare il perimetro del terrore in un paese martoriato da un lungo intreccio di guerre e carestie.

Il risultato da ieri è sotto gli occhi di tutti: oltre 270 i morti a Mogadiscio, dove due camion sono esplosi, uno davanti all'hotel Safari e al ministero degli Esteri sulla grande arteria centrale Jidka Afgooye e l'altro in una strada poco distante. A memoria, siamo di fronte al più sanguinoso attacco terroristico mai condotto nel Paese. Precedenti simili risalgono al 2011, con il furgone bomba esploso contro l'ingresso del governo federale di Mogadiscio. Oltre 100 vittime, più di 150 feriti.

L'attacco all'hotel Safari non è stato ancora rivendicato, ma i sospetti ricadono proprio su al Shabaab. O sullo Stato Islamico, perché quella in corso ha tutte le sembianze di una guerra tra due Califfi. Appunto: Ahmad Umar o Abd al-Qādir Mū'min. Non fa molta differenza, il processo di apostasia nella galassia jihadista ormai rende confusa ogni analisi sugli esecutori.

Quel che è certo è che la Somalia resta uno dei laboratori terroristici più pericolosi al mondo. È in Somalia che al Qaeda revisiona le sue modalità di attacco grazie all'ingegno di Fazul Abdullah Mohammed, il fedelissimo di Bin Laden che mise in piedi i terribili attentati del 1998 alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania costati la vita a 223 persone. Obiettivi soft (come alberghi, centri commerciali, villaggi turistici o navi da crociera) e armi low tech.

Un metodo che negli anni abbiamo visto ripetere più volte: Charlie Hebdo, il Bataclan, Bruxelles. Ma soprattutto il Westgate di Nairobi. Correva l'anno 2013 e per la prima vota un'organizzazione terroristica improvvisava un live tweet del proprio attacco. C'erano gli assassini che sparavano e i loro compagni davanti a un pc, a raccontare il sangue. Un orrore, dietro al quale c'erano ancora una volta i somali di Shabaab.

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