martedì 2 maggio 2017

Darfur, tutti fanno finta che non ci sia e l'Europa legittima un criminale di guerra

Darfur, "normalizzato" per convenienza, e l'Europa legittima il "regime" di un condannato per crimini contro l'umanità.


Secondo il governo di Khartoum la situazione in Darfur sarebbe pressoché tornata alla normalità, nonostante gli oltre 2 milioni di sfollati, molti dei quali non potranno mai più rientrare nelle loro terre, occupate da uomini del governo. Ma la “normalizzazione” fa comodo all'Europa che, attraverso gli accordi europei per fermare i flussi migratori, finisce per legittimare un regime che usa la pulizia etnica e le milizie para-governative come strumenti di controllo di un’intera regione.

Per il regime sudanese di Omar Hasan Ahmad al-Bashir, la situazione nella regione del Darfur (terreno di conflitto da quasi 15 anni) sarebbe tornato alla normalità (più o meno), e dunque il Sudan da tempo lavora sia in loco che a livello diplomatico, per la fine della missione di pace Onu (Unamid) e dei campi profughi che, a suo dire, non hanno più ragione di esistere.

Nel corso degli ultimi anni parecchi diplomatici si sono prestati a confermare queste posizioni governative, a partire da Rodolphe Adada, in quel momento capo della stessa missione di pace, e dall'ambasciatore americano dell’epoca, Scott Gration, che fin dal 2009 dichiararono che in Darfur si vedevano i postumi di una guerra per genocidio, un conflitto che si era trasformato, entrando in una fase di bassa intensità. Tra gli ultimi a sostenere queste posizioni, l’ambasciatore europeo, Jean-Michel Dumond che qualche settimana fa ha sostenuto che la situazione umanitaria e della sicurezza nella regione erano decisamente migliorate.

Ma non sono poche le descrizioni di una realtà ben diversa. L’aggiornamento diffuso all'inizio di quest’anno dall'agenzia dell'Onu per il coordinamento degli interventi umanitari (OCHA), dice che nella regione ci sono ancora 60 campi profughi, in cui sono ospitati circa 1 milione e 600 mila sfollati. I quali, complessivamente, sono ancora circa 2 milioni e 700 mila, se si considerano anche quelli che si sono sistemati in altri modi, dopo essere stati costretti a lasciare i propri luoghi di origine. Inoltre, nel corso del 2016 gli scontri nel Jebel Marra hanno provocato altri 190 mila profughi.

Jebel Marra, Darfur. Campo profughi

Ancor più inquietanti le dichiarazioni rilasciate a Radio Dabanga da Hamid Ali Nur, capo della piattaforma della società civile del Darfur, che descrive una regione “totalmente dominata dalle milizie” sia dal punto di vista militare che politico ed economico, in cui il regime di Khartoum è riuscito perfino a cambiare la composizione demografica stessa della popolazione. Nella sua intervista dice che gli sfollati non potranno più tornare ai loro luoghi di origine, che sono ormai occupati dai miliziani e dalle loro famiglie. Per di più, quando qualcuno riesce a coltivare i suoi campi, è costretto a consegnare metà del raccolto a chi si è installato sulle sue proprietà. Hamid commenta che, alla fin fine, i contadini originari della regione sono costretti a lavorare gratuitamente almeno per la metà del tempo, e dunque si deve iniziare a parlare non di lavoro, ma di vera e propria "schiavitù"

Il leader darfuriano chiarisce che, i miliziani che controllano totalmente la regione, altri non sono che i janjawed, ben noti per le devastazioni e gli abusi perpetrati impunemente e quotidianamente fin dal 2003, quando furono reclutati tra i gruppi arabi locali e armati per combattere l’insorgenza dei gruppi autoctoni africani. Lo fecero scagliandosi contro la popolazione civile.

Proprio per questo modo di condurre il conflitto la Corte penale internazionale ha accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità il presidente sudanese, Omar Hassan al-Bashir, ritenuto il responsabile ultimo delle tremende violazioni perpetrate, insieme ad altri funzionari governativi ed eminenti miliziani. Negli ultimi anni, dice Hamid nella sua intervista, i janjawed sono stati reclutati anche nei paesi vicini. A loro, affermano altri attivisti darfuriani, vengono immediatamente rilasciati documenti sudanesi e assegnate zone di territorio ripulito dai legittimi proprietari, che si trovano nei campi profughi.

Secondo un recentissimo rapporto di Enough Project, autorevole gruppo americano che fa ricerca ed advocacy sui conflitti, questa “normalizzazione in stile regime di Khartoum” finisce per essere legittimata dalle politiche migratorie europee.

Nel documento Border Control from Hell: How the EU's migration partnership legitimizes Sudan's "militia state" (Controllo delle frontiere diabolico. Come la partnership europea in materia di migrazioni legittima “lo stato delle milizie” in Sudan) l’autore, Suliman Baldo, noto analista sudanese, dice che tutti i provvedimenti previsti negli accordi tra l’Unione europea e il Sudan hanno una duplice valenza. Servono sì, a rendere più efficace il controllo delle migrazioni illegali, ma possono servire altrettanto efficacemente per rendere ancor più stretto il controllo sulla stessa popolazione.

Se si coniugano le analisi di Suliman Baldo con le testimonianze di Hamid Ali Nur, non ci possono essere dubbi sul fatto che gli accordi europei finiscano per legittimare un regime che ha usato e usa la pulizia etnica e le milizie para-governative come strumenti di controllo, spacciato per stabilizzazione, di un’intera regione. E non ci possono essere dubbi neanche sulla reale destinazione dei fondi europei. In Darfur (dove le rotte migratorie verso il Mediterraneo centrale devono passare per forza) il territorio è controllato dalle milizie para-governative sudanesi e le frontiere settentrionali, in particolare, sono terreno della Rapid Support Force (RSF), quella più nota perché più efferata e potente, in quanto strumento dei servizi di sicurezza.

Le RSF fanno il lavoro a cui sono state delegate dal loro governo, che si fa pagare ed equipaggiare dall’Unione Europea per farlo nel modo più efficace possibile. Le smentite delle autorità europee non sono altro che dichiarazioni di facciata.




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Articolo a cura di
Maris Davis

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